Helgoland

Helgoland


Grön is dat Land,
rot is de Kant,
witt is de Sand:
dat sind de Kennewarden
von Helgoland. 

Detto popolare,
descrive i colori della bandiera dell’isola

 

Terra sacra di scali d’eroi:
nome e sito pi ù non sono parlanti.
Pochi forse sapevano
e muti muoiono i miti.

Le plumbee brume del mare,
umide e grigie in luogo del cielo,
il tempo aveva messo da parte,
sconfitte dal trionfo del sole.
La bella stagione alle porte,
i prati verdi di nuovo, al richiamo,
feraci di vita, pieni di fieno.

Riprendono i ruscelli a cantare,
satiri, fra le rocce scrosciando.
Satura l’aria di luce e sussurri,
più nitida ogni cosa risfolgora
bella ed esatta, proprio com’è.

Due, altissimi, i faraglioni;
vertigine il solo guardarli,
roccia antica d’eterna saggezza,
perfette linee di contro all’azzurro.
Romiti accessi agli uccelli imperiali
vasto campo a’ lor voli planati,
picchiate affamate di candidi albatri,
di asolanti svolazzi di altri viventi
di quegli aprichi liberi spazi.

Quanti prima della storia i millenni?
Molti i viaggiatori quivi approdati.
Serban muta sui volti gran meraviglia
nel cuore la domanda che fa uomini,
la risposta che fa nascer gli dèi.
Riedon come profeti ai lidi degli avi
raccontan di cose al mondo mai viste:
là, ai confini del mondo lor noto,
i due faraglioni: atlantici pilastri del cielo.

Negli occhi la lusinga di oro e affari,
partirono mercanti su navi pesanti:
per accrescer di uno rischiavano il tutto,
dal miraggio accecati di un sole riflesso.
Dai porti dei padri levate le ancore,
posti in non cale amici e congiunti,
ad un’ignota promessa drizzaron la prua.
I nocchieri ignoravan per dove guidare la nave:
procelle e pirati, pestilenze e sventure:
non uno mai arrivò sino a Helgoland.
Una maledizione gravava all’impresa
sconosciuti venti, coste e correnti,
mute le stelle. Non bastava l’audacia.

Abitata era l’isola, ivi un popol viveva:
forse i Feaci cantati da Omero;
Forse non era popol di uomini:
troppo coscienti dell’esser dell’uomo;
ognuno al tutto a sé consapevole:
un sé che la carne sapeva capire.
Tali li rendeva la vicinanza col cielo?
E pure non erano dèi: uomini oltre misura.
Mangiavano pesci, mungevano latte,
vivevan di sole, di mare, di terra,
correvan fra i boschi, su rocce e per lande
amavano casa, vita ed amici
nascevano a morte, morivano in vita
parlavan, cantavan, ridevano.

Ogni rotta per mare fu per loro percorsa.
In mare i migliori, ma non per commerci.
Molte cose del mondo sapevano
come fosse la cosa più ovvia.
Condussero un tempo un’inchiesta
interrogando i popoli tutti
su che mai fosse la vita
e sulla Terra l’uomo.
E seppero. Ad abbondanza bastò.
Ancora le onde tramandan le mille risposte.
Fu come il vento la loro presenza
da generazioni ovunque è il ricordo.
Ancora resistono i faraglioni.
Quel popolo antico, del sogno,
del mito, del desiderio è ora svanito.

Era noto, perché da sempre era così:
chi giungeva fin là
eran prodi di tempra speciale.
E ognuno ne aveva da raccontare:
quale il popolo da cui proveniva,
quale della partenza il motivo,
quali le venture del lor lungo andare,
le novelle sapute e gl’incontri.
Helgoland non fu mai la meta del viaggio.
Ognuno sapeva certo dell’isola,
ma nessuno di proposito poteva arrivarvi.
I naufraghi, gli avventurosi,
gli esiliati, gli errabondi
mai sazi di mondo e di nuovo
stremati, dispersi, alla fine approdavano
in diverse stagioni dell’anno.
Fino alla festa avevano tempo
di conoscer l’uman paragone
del buono, del dolce, del grato.

Era un giorno di festa. Festa grande.
Ogni anno avveniva. Da sempre.
Non era a ricordo di nulla:
da lì si iniziava…
Era una festa per gli ospiti:
onore agli stranieri divini.
Una festa al mondo senza eguali.
Nessun dio si celebrava:
era la festa del vivere insieme.
Non aveva una data fissata
ognuno sentiva quand’era il suo giorno:
il culmine di una consone attesa,
gli animi tutti ne erano mossi.
L’ultimo ospite era sempre il più atteso:
il meno distante dal loro sentire.

Era l’alba.
Il sonno pian piano andava svanendo.
Le palpebre d’alabastro filtravan la luce,
rugiada fresca alle guance.
Canti di piccoli uccelli nell’aria
si alternavano alle onde ricorrenti del mare;
la spiaggia all’intorno si rianimava di vita.
Nasceva un giorno ancora. Nuovo.
Era tempo d’andare.

Si sapeva com’era la festa:
capitava qualcosa;
di meraviglia grandivano gli occhi,
d’emozione palpitavano i cuori.
Nessuno mai fra gli eroi l’avrebbe creduto:
la sorpresa avrebbe colto anche lui:
un fanciullo a lui si sarebbe accostato;
fra i molti scorgendolo per caso lì giunti,
e lui eleggeva a padre adottivo:
«Mi aiuti? Insieme pascoleremo le mucche».
La richiesta sapeva di rito, tale la formula,
poiché non v’era bisogno effettivo.

Gli eroi d’oltre oceano venuti,
attoniti, più non avevan parole:
a sé si stringevano il giovin cadetto,
“fra i mille a suo barba prescelto?!”
si chiedevano “quale ho mai speciale virtù?”
ma bastava constatar d’esser l’adatto;
l’avventura cedeva a un affetto,
il fier cuore s’addolciva in mitezza di padre.
Accettavan stupiti e contenti;
troppo ignari di quel che invano pel mondo
eran andati cercando.
Un fanciullo era il passo al di là della gloria;
ritornavano uomini: semplici, liberi e forti,
in omaggio recavano onore, amore, valore
come vassalli di un nuovo benigno signore.
Insieme avrebbero vissuto la vita,
insieme cominciavano a vivere.

Lì a Helgoland, ai confini del mondo,
dove il cielo si congiunge alla terra,
dove gli uomini sono più che uomini,
dove i figli si scelgono i padri,
dove gli eroi diventano umani,
lì sono le colonne che reggono il cielo.

 

Esine, primavera 1982

 

Il primo verso riassume le ipotesi paretimologiche a spiegazione del nome dell’isola:
Land (terra),
heilig (sacro, santo),
helgen (far scalo),
Helden (eroi).

 

C’è un amico... Indietro nel tempo


Creative Commons License

Helgoland by Vittorio Volpi
is licensed under a Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia License.

On line dal 7 dicembre 2009

Copyright © Vittorio Volpi -2009