Telemaco 2008

Telemaco 2008

[durata 32:34]

     Petja camminava a capo chino sul largo marciapiede di una cittadina ucraina dall’imponente e trascurata architettura sovietica.

     Camminava a capo chino, dando calci distratti a tutto quel che c’era per terra, rimuginava tristi pensieri, rivedeva le scene appena vissute nel bosco con gli altri ragazzi e i due uomini con le telecamere digitali e gli ombrellini di carta stagnola. Gli era passato il singhiozzo, ma ogni tanto tirava su col naso.

     Pensava ai pantaloncini neri di flanella che aveva indosso, se li sentiva contro la pelle, e sentiva l’elastico degli slip che stringeva passando sugl’inguini. Ad ogni passo le natiche gli ricordavano le scene avvenute, le mani addosso su tutta la pelle, i flash e l’occhio nero cattivo indifferente impietoso della telecamera sempre puntata addosso e il ronzio dello zoom elettronico a riprendergli da vicino alla fine lo schizzo del seme.

     Inghiottì, sputò, alzò la testa per guardar oltre, ma guardava nel vuoto. Comprimeva le labbra, stringeva i pugni pieni di rabbia. “Quello no!” si ricordava; queste erano le condizioni. In tasca sapeva di avere le banconote da cento grivnie che gli avevano dato. Avrebbe voluto gettarle per strada. Ma ne aveva maledettamente bisogno, e gli erano costate così care.

     Arrivò a casa e si lasciò cadere sulla poltrona continuando a guardare il cielo grigio ritagliato dalla finestra. Era già la fine di giugno, la primavera quest’anno chi l’aveva mai vista?

 

     Il signor Mauro Ferrari, un rappresentante di commercio sulla cinquantina, non riusciva a dormire quella calda notte all’inizio di giugno; l’afa stagnava sulla grande distesa della campagna della Bassa bresciana dalle parti di Leno. Si mise a sedere sul bordo del letto e cercò nel buio le ciabatte. Il suo cane era già lì a leccargli la faccia.

     – Sì, buono Dick, adesso andiamo.

     Senza accendere la luce del corridoio arrivò in salotto guidato dalle lucine di stand-by di tutti gli apparecchi elettronici: televisore, lettore-DVD, monitor, altoparlanti, fax, ciabatta delle prese, antifurto (ma da quando aveva il cane lo lasciava disinserito)…

     Accese il computer, il router-ADSL e la piccola lampada vicina; andò al frigo per un sorso di bibita. Aprì la porta-finestra che dava sul giardino e lasciò uscire il cane. I raggi della luna si riflettevano sul candore della biancheria che indossava – non usava pigiama. Si accarezzò la pancia e si disse in mente la frase ormai consueta: “Dovrei calare un po’”. Ritornò al computer, aprì la connessione internet e andò su Google. Non aveva in mente nulla di preciso, non voleva rivedere i siti che conosceva a memoria. Digitò la solita ricerca che periodicamente lanciava: twinks + “immagini” e invio. La parola apparteneva allo slang dell’inglese americano e indicava un ragazzo di una certa attrattiva, interessato al sesso, ma non necessariamente omosessuale; nel suono ricordava twinkle “luccichio degli occhi” o il tedesco zwinkern “far l’occhiolino”. Pensandoci bene era soprattutto l’espressione degli occhi che gli faceva preferire un ragazzo piuttosto che un altro.

     Passò in rassegna le miniature una per una: già viste mille volte! Sfogliò qualche pagina: il solito. Cliccò a caso sulla pagina 15 e fu catturato da due occhi spalancati che lo guardavano: il ragazzo era nudo, disteso su un letto “come un neonato dopo il bagnetto”. Aveva persino il paperotto giallo! Cliccò sul link, ma gli comparve l’avviso della Polizia Postale che avvertiva che l’accesso al sito era stato bloccato perché conteneva materiale pedopornografico. Scacciò il pensiero e ritornò ai “risultati” di Google, cercò se vi fossero altre miniature con lo stesso ragazzo: più niente!

     Ritornò a pagina 15, copiò l’immagine e la aprì con Photoshop: era a bassissima risoluzione non conveniva ingrandirla. Ma quegli occhi lo catturavano, lo incantavano. Chiuse la connessione e stette a guardare il piccolo francobollo, la guancia appoggiata sul pugno. Avvertiva quell’agitazione che ben conosceva, quel nodo alla gola, la palpitazione che sempre sentiva e il leggero tremore alle dita. Conosceva tutto fin troppo bene… e stava in guardia! Aveva trentacinque anni quando era stato arrestato; aveva fatto otto anni a Canton Mombello e da una decina d’anni conduceva una vita che se pur non poteva definirsi “normale”, era comunque “passabile”. Aveva trovato un lavoro e lo faceva con buona professionalità.

     Da allora non aveva più toccato un ragazzo.

     Nei giorni successivi, dopo vari tentativi era riuscito comunque ad entrare nel sito e a ordinare il cd.

 

     Petja viveva con la madre che era sempre fuori per lavoro, lavorava con un’impresa di pulizie. Lui frequentava una scuola professionale, di malavoglia e senza impegno. Trascorreva il pomeriggio in giro per la città ascoltando musica dall’i-pod . Il padre era operaio in una fabbrica siderurgica imponente, triste e rumorosa; beveva più vodka che acqua, era geloso della moglie e spesso la picchiava; a casa dello stipendio non portava nulla e pretendeva che a pranzo ci fosse il tovagliolo di tela: casa non era la mensa aziendale! E la madre, dopo l’ultimo litigio, l’aveva sbattuto fuori di casa.

     Da qualche tempo Petja s’era unito a un gruppo di altri ragazzi che stufi di gettar sassi nel fiume avevano accettato la proposta di due tizi che un giorno li avevano avvicinati per delle pose fotografiche. Si erano inoltrati nel bosco fuori città e solo lì avevan finalmente capito di che si trattava. Mentre parlava, uno degli uomini teneva in mano dei bigliettoni da mille grivnie come carte da poker. Petja non sapeva che fare e per quella volta rimase in macchina: osservò dai finestrini tutto quel che facevano; arrossiva e si comprimeva il sesso, eccitato da quel che vedeva.

     – Allora? La prossima volta ci sarai anche tu? – chiese uno degli uomini ritornando alla macchina.

     – Non lo so, non ho ancora deciso… – e tremava come una foglia.

     Per qualche giorno non era più andato al fiume. Incontrando uno dei ragazzi aveva saputo che erano stati pagati bene, e che lui era stato un fesso a non partecipare: erano cose che comunque facevano tra loro, e se c’era mezzo di fare anche dei soldi, tanto valeva accettare, no?

     Petja era indeciso, i peli del pube non gli sembravan così folti come quelli degli altri e pensava di averlo anche più piccolo rispetto al loro. Aveva un po’ di vergogna.

     – Dillo al capo, vedrai che trova qualcosa anche per te.

     Ci volle ancora qualche giorno: alla fine aveva deciso: avrebbe accettato. Ma per la prima volta sarebbe stato da solo e a casa sua. Avrebbe posato nudo e si sarebbe masturbato: tutto lì.

     Il capo disse di sì; ma Petja si doveva accontentare di metà soldi.

     – Va bene – disse Petja.

     Fecero il servizio e la sera stessa era già su internet. Una delle fotografie scelte per la home-page ritraeva Petja che guardava sorridente la fotocamera, disteso nudo sul letto “come un neonato dopo il bagnetto”.

     Petja un po’ s’era già pentito, e i soldi se n’erano andati come neve al sole. All’internet café guardava sempre la “sua” la pagina e temeva che qualcuno del quartiere lo potesse riconoscere. Ma non era successo.

     Un mattino uno degli altri ragazzi lo invitò ad andare nel bosco insieme con gli altri per una “sessione di pose”. Petja era indeciso.

     – Non fare il difficile; cosa vuoi che sia. Provi anche piacere! Che vuoi di più! Ti pagano anche… Lo fai con me, ho vaselina e preservativo, non ti faccio male.

     –  Quello no. Se vuoi tutto il resto, ma quello no.

     – Chiediamolo al capo.

     Al capo andava bene.

     Nel bosco la “sessione” andava avanti da circa mezz’ora, quando il capo decise che anche Petja doveva fare come gli altri, altrimenti non avrebbe preso nulla. Scegliesse pure con chi andare, ma lo doveva fare. Petja incrociò lo sguardo con il ragazzo che aveva incontrato al mattino. Ma, guarda caso, non aveva né crema né preservativo.

     Petja strinse gli occhi, strinse i denti, strinse i pugni… e poi crollò.

     Si rivestì in fretta, si piantò davanti al capo con la mano aperta a chiedere il dovuto e poi se ne andò.

     – Noi siamo sempre allo studio. Col tempo ci farai l’abitudine.

     Camminava a capo chino sul largo marciapiede di periferia della cittadina ucraina in un tardo pomeriggio sul finire di giugno…

 

     Un giorno della settimana dopo, di mattino, con forte batticuore, ma sorriso sulle labbra, si presentò allo studio. I due boss stavano preparando le spedizioni: uno masterizzava i cd, l’altro incollava gli indirizzi autoadesivi sulle buste gialle imbottite.

     – Eccolo qui il nostro “bebè”. Potremmo proprio chiamarti così, come nome d’arte!

     – Non è un brutto nome, ma con quest’acne non so se va bene.

     – Ci hai ripensato?

     – Sì. E sono venuto a dirvelo. Mi va bene tutto, ma quello no.

     – Va bene e noi ti rispetteremo.

     – Come l’altra volta? – chiese ironico Petja.

     – È stato un caso: un cliente straniero ci aveva scritto che voleva vedere te…

     – Ah, è così. Di dove?

     – America, Canada, chi si ricorda, da quelle parti, non Europa. Cosa vuoi, business è business!

     – E adesso spedite i nostri cd ai vostri clienti. Ne avete tanti?

     – Sì, in tutto il mondo. E tu sei uno dei preferiti. Vuoi guadagnarti qualche copeco, già che sei qui?

     – Sì, cosa devo fare?

     – Imbustare i cd e mettere l’etichetta. Questi sono i cinquanta di oggi. E tutti che vogliono vederti: dieci con la sessione a casa tua – questi – e quaranta nel bosco con gli altri. Sei un divo!

     – Perché c’è un doppio elenco?

     – È stato un errore della stampante, ha sbagliato l’allineamento delle etichette. Buttalo nel cestino.

     Ma Petja si mise la lista in tasca. Chi sa? Aveva un vago presentimento che potesse tornagli utile.

     – Ecco, ho finito, – disse Petja, mostrando la pila di buste pronte per la spedizione.

     – Allora siamo d’accordo. Ti fai trovare con gli altri. Non lamentarti se ti chiameranno “verginello” – sghignazzò l’uomo.

     Petja salutò asciutto e uscì dallo “studio”.

     Gironzolando per la città sentiva sempre di più la presenza della lista che aveva in tasca. Si sedette su una panchina in un parco e cominciò a leggere i nomi: Germania, Olanda, Svizzera, Francia, Italia, Canada, Croazia… Questi i “suoi” dieci. E poi tutti gli altri, dai posti più disparati.

     Gli vorticarono in mente mille pensieri: “Vogliono vedere me nudo mentre mi masturbo! Perversi! E magari si masturbano anch’essi guardandomi! Perversi! Perversi! E quegli altri? Anche peggiori! Perversi! Perversi! Perversi!” Sbatté con forza la lista per terra e si alzò dalla panchina andando verso l’uscita del parco. Passando la soglia alzò la testa fulminato da un pensiero: lo colse la curiosità di andare in Europa e vedere che tipi fossero i suoi “ammiratori”. Tornò alla panchina, la lista era ancora lì – fortunatamente.

     E si avviò macchinalmente verso il fiume. Mille progetti gli si accavallavano in testa… “Con qualche “sessione” riesco a mettere insieme un po’ di soldi e poi qualcosa troverò anche là… Lì è Europa, potrei anche rimanere… Un lavoro è facile trovarlo… E la mamma? Le manderò dei soldi… e poi chiamerò anche lei. Sì. Sì”.

     E aveva il petto pieno d’entusiasmo.

 

     Petja arrivò a Leno verso la fine di agosto. Era disgustato da quel che aveva visto: i suoi “ammiratori” lo avevano deluso, non c’era uno con la faccia decente: proprio perversi fin nel midollo. Aveva girato in autostop per tutta l’Europa con un visto turistico. I soldi erano subito finiti. Rubava nei supermercati e nelle case, dormiva dove capitava.

     Alla madre aveva lasciato un biglietto sul tavolo prima di partire: che non si preoccupasse, avrebbe fatto sapere appena possibile, nessuno l’aveva rapito, non andasse alla polizia, ecc.

     Lei non sapeva nulla delle “sessioni”.

     Aveva dormito la notte in un capanno di cacciatori in aperta campagna, appena ripulito per l’imminente apertura della caccia.

     Risciacquatosi la faccia in una seriola d’irrigazione si stava avvicinando alla casa di

Mauro Ferrari
via G. Falcone 43
25024 Leno BS

così l’indirizzo sull’etichetta –, per spiarlo, come aveva fatto con gli altri.

     Era una palazzina bifamiliare con entrate indipendenti e due giardinetti. In uno una cuccia.

     La porta d’ingresso era aperta, il signor Ferrari, in maglietta e pantaloncini corti, col guinzaglio in mano stava uscendo per fare un giretto col suo cane, un bracco dal pelo rosso e fluente. A parte la pancetta, il signor Ferrari non era sgradevole come gli altri “acquirenti” del cd . Era pulito, sereno, il volto buono, fermo.

     Appena il signor Ferrari si fu allontanato, Petja si avvicinò al cancellino e lesse il nome sul campanello: “rag. Mauro Ferrari”. Era lui. Se n’andò poi a seguirlo da lontano nel suo giretto col cane in campagna. Era buono col cane, il signor Ferrari. Era paziente. Aspettava che il cane avesse finito di odorare l’erba prima di proseguire. E quando fu in vicinanza di un prato di malva lo lasciò libero. Il cane si lanciò in un inseguimento immaginario di fagiani, e intanto si lavava il pelo con la rugiada della malva: davvero un bagno profumato!

     Petja non riusciva a immaginarsi il signor Ferrari che faceva sconcezze osservando la sua immagine al computer: gli sembrava una persona “molto per bene”. Non gli toglieva gli occhi di dosso. Voleva capire chi fosse. Si ricordò di aver visto un solo nome sul campanello: dunque viveva da solo. “Me l’immaginavo”, pensò Petja.

     Il giretto volgeva al termine. Il signor Ferrari si avviò verso casa seguito dal cane che a balzi lo aveva raggiunto, mettendosi a camminare al suo fianco.

     Tornati a casa, il cane gironzolò per il giardino, il signor Ferrari gli gettò un osso e gli riempì la ciotola dell’acqua. Sparì poi dentro casa. Dopo dieci minuti uscì in auto dallo scivolo del garage, un’Audi nera, col piccolo stemmino dei quattro cerchi allineati. Si fermò a motore acceso davanti all’ingresso. Il signor Ferrari scese – si era cambiato d’abito –, fece una carezza al cane, richiuse il cancellino alle spalle, salì in macchina e partì per il lavoro.

     Petja si avviò lentamente, senza pensieri verso il centro del paese per veder di racimolare qualcosa. Gironzolò a lungo, spaesato, soprapensiero. Nessuno gli badava. Verso mezzogiorno decise di ritornare verso la casa del signor Ferrari.

     Suonò al campanello di qualche casa chiedendo dei soldi o qualcosa da mangiare. Non sapeva una parola di italiano:

     – Vuoi qualcosa da mangiare? – cercò di indovinare una casalinga. – Ecco, prendi zingarello: ho messo uno yogurt, due pesche, una mozzarella e un pane. Ah, ci manca qualcosa da bere; aspetta che vado a prender qualcosa. – E ritornò con una bibita coloratissima e ricoperta di goccioline di condensa.

     Petja non diceva una parola, guardava e non sapeva come ringraziare. La donna capì, aprì il cancellino d’entrata, allungò una mano e gli accarezzò una guancia:

     –  Ho capito, mi vuoi ringraziare! Bravo. Almeno tu non porti i volantini della pubblicità.

     Petja chinò il capo e poi si diresse verso la campagna. Si sedette all’ombra di un gran pioppo e cominciò a mangiare.

     Verso sera ritornò alla casa del signor Ferrari. Era già arrivato: la porta-finestra della cucina era aperta, il cane gironzolava contento in giardino.

     Tutto tremante si avvicinò. Si fece coraggio e suonò il campanello. Il cuore gli batteva “a mille all’ora”.

     Il signor Ferrari si fece alla porta, richiamò il cane che si era messo ad abbaiare. Lo legò e si avvicinò al cancellino.

     Rimase sbalordito. Quel viso! Certo che lo conosceva. Ma…

     – Chi sei?

     – Petja

     – Ma io ti ho già visto…

     – Internet; cd.

     Il signor Ferrari arrossì di colpo.

     – Ma certo! Entra.

     Il signor Ferrari era sconcertato, non sapeva che fare, si confondeva. Diede una carezza al cane:

     – Dick, si chiama, – e lo slegò. Il cane andò subito a far mille feste a Petja.

     – Dick – ripeté Petja.

     – Buono, Dick! – cercava di richiamarlo il signor Ferrari.

     – Buono, Dick! – ripeté Petja, e continuava ad accarezzarlo.

     – E come mai sei qui? Ma vieni dentro: mi stavo preparando la cena.

     Petja rimase sbalordito nel vedere la casa; così bella, in ordine, piena di cose, i muri non scrostati, i serramenti verniciati, un bel pavimento, un bel divano, una bella cucina.

     – Ecco, aggiungo un po’ d’acqua, così facciamo spaghetti per due. E per secondo che cosa vuoi? Mi sa che vuoi una bella bistecca. Poi mi racconti.

     Petja era più che mai imbarazzato, si guardava attorno pieno di meraviglia. Si avvicinò al computer. Fra le carte sparse sul tavolo trovò il “suo” cd. Rimase un po’ allocchito. Sulla copertina c’era lui nella posa del “bebè dopo il bagno”. Lo prese e lo portò al signor Ferrari:

     – Eto ja! – disse puntando il dito sulla custodia del cd e poi contro il petto.

     – Sì, sei tu! Sì, ti ho riconosciuto subito. Sei cresciuto in questi due mesi. Il secondo cd non ho voluto comperarlo: dalla faccia si vedeva che soffrivi… Ma scusa, non vorresti fare una doccia?

     Andò verso il bagno, prese dagli armadietti un salviettone e un accappatoio di bucato e ritornò in cucina.

     – Una doccia - shower - Dusche! Fatti una doccia, intanto che preparo la cena, – cercò di spiegare a gesti.

     Petja annuì col capo. Il signor Ferrari ritornò in bagno spiegando dov’era ogni cosa. Andò poi in camera e prese da un cassetto un paio di mutande e una canottiera nuove, ancora nelle loro confezioni, un paio di calzoncini, una maglietta sportiva e le depose sul letto; a terra un paio di ciabatte da spiaggia.

     Bussò alla porta del bagno, sentiva già lo scroscio dell’acqua:

     – Tutto bene?

     – Harasciò, spassìba – rispose Petja, intuendo la domanda.

     Il signor Ferrari era stravolto, non riusciva a capacitarsi: gesticolava con le braccia, si passava la mano sulla fronte. Si sedette in cucina appoggiando il gomito sul tavolo, guardando vago verso il giardino. Dick gli venne a leccare le mani e a prendersi qualche carezza.

     L’acqua era in bollore. Si riscosse e gettò la pasta. Aggiunse piatto, fondina, bicchiere e posate, prese un tovagliolo di tela e lo mise sotto il coltello. Ma l’agitazione non si calmava. Aprì il frigo e l’occhio gli cadde sul vassoietto delle bistecche. Lo prese, mise sul fornello una teglia, ci mise una noce di burro… no due. Due! si sorprese. Due! Non gli capitava spesso di avere degli ospiti. E Petja era un ospite speciale. In un padellino preparò il sugo, versando un intero vasetto: “Siamo in due!”, pensò di nuovo. E si sentiva contento.

     Petja comparve in cucina con l’accappatoio e con la salvietta si asciugava i capelli.

     – Ah! Hai già finito! Vieni che ti faccio vedere la tua roba, – gli pose una mano sulla spalla per guidarlo verso la camera. Il signor Ferrari si rese conto che il ragazzo che gli camminava per casa era vero, in carne ed ossa: si sentì piegar le ginocchia.

     Petja si stupì nel vedere le mutande nuove, la canottiera, i pantaloncini, la maglietta colorata… lasciò cadere la salvietta sul letto e abbracciò al collo il signor Ferrari dandogli un bacio:

     – Spassìba. Òcin spassìba.

     – Poi vieni a mangiare.

     Durante la cena furono solo sguardi e monosillabi; complimenti per la pastasciutta e la bistecca… per tutto.

     Il signor Ferrari, incredulo, non sapeva che pesci pigliare. Quante volte guardando il cd si era immaginato di vedere dal vivo quegli occhi, di accarezzare la schiena a quel “bebè dopo il bagno”, di passare la mano sulle labbra così ben delineate… Ed ora era lì, davanti a lui, in persona. Se lo mangiava con gli occhi, vedeva in quello sguardo una felicità segreta e sicura e non riusciva a distoglier lo sguardo; passava da un foruncolo all’altro, dal mento alle ciglia. E una volta che il braccio si mosse spontaneo per fargli una carezza, Petja gli prese il polso e guidò lui stesso la mano alla guancia. Il signor Ferrari gli passò una mano fra i capelli, esitante, fremente come quando aveva dato l’ok per pagare il cd. Sentì le lacrime agli occhi per la commozione.

     Dopo cena, il signor Ferrari riordinò la cucina, ma non lavò i piatti. Accese la televisione, ma subito la spense: disturbava. Chiese a Petja di seguirlo. Gli mostrò la camera degli ospiti:

     – Questa notte dormirai qui. Domani si vedrà.

     Petja fece segno di aver capito. I calzoncini e la maglietta erano grandi per lui, ma sembrava trovarsi a perfetto suo agio.

     Tornati in salotto, il signor Ferarri pensò che Petja volesse forse telefonare a casa. Indicò a Petja il telefono e disse:

     – Telefono… mamma!

     Petja capì. Intanto il signor Ferrari cercava il fascicoletto dei prefissi.

     – Di dove sei? – chiese, quasi gridando.

     – Rossìja.

     – Sì questo lo so. Ma dove? – E prese dallo scaffale un atlante.

     Petja puntò il dito sull’Ucraina.

     – Dall’Ucraina. Quale città? – all’improvviso si ricordò di Volgograd, Togliattigrad, Leningrad… – Grad?

     – Charkìv.

     – Dov’è?

     – Petja mostrò un cerchiolino con il nome accanto.

     – Ah! Charkòv, la città degli Alpini. Ecco. Ho trovato i prefissi.

     Il signor Ferrari compose i prefissi e lasciò che Petja completasse il numero. Il telefono squillò a vuoto cinque o sei volte... sembrò un’eternità. Poi finalmente qualcuno rispose. Non capiva nulla di quel che si stavan dicendo, sentiva una voce femminile dall’altra parte del telefono…

     – Mamma?

     Petja fece sì col capo e continuò la conversazione. Il signor Ferrari portò una sedia. Sembrava avesse letto nel pensiero, perché Petja si sedette subito. Poco per volta Petja sentiva che gli occhi si andavano inumidendo, dentro si sentiva scoppiare di pianto e non riusciva a sfogarlo. Anche al signor Ferrari stava spuntando una lacrima dal ciglio. Petja riattaccò. Ci fu silenzio per lunghissimi istanti. Petja si strofinò gli occhi col pollice, guardò negli occhi il signor Ferrari e indicando la cornetta disse solo:

     – Mama, spassìba, – la mamma lo ringraziava.

     Uscirono in giardino: Dick si mise a far festa a Petja, e questi non finiva di accarezzarlo. Il signor Ferrari non aveva due sdraio. Portò la sdraio per Petja e una sedia per sé. Si sedettero e non potendo parlarsi guardavano lontano verso il verde della campagna.

     Il signor Ferrari si ricordò dell’Autan contro le zanzare e andò a prenderlo per poter star fuori tranquilli.

     Petja allungò il braccio e prese la mano del signor Ferrari e la tenne stretta per lungo tempo. Dopo un po’ andò a sederglisi sulla gamba. Il signor Ferrari lo abbracciò in vita. Petja appoggiò la testa sulla spalla e gli scappò un sospiro. Il signor Ferrari non riuscì più allora a trattenere la lacrima che sentiva rigonfia sul ciglio. Si strinse al petto il ragazzo e ciascuno pianse in silenzio un po’ per la pena, un po’ per la gioia, un po’ per tutto l’insieme, per come erano successe le cose, così: tutte di fretta, all’improvviso...

     Quando fu buio rientrarono. Dick seguì il suo padrone. Il signor Ferrari chiuse tutto, accompagnò Petja nella sua camera e anch’egli andò a dormire.

     Ma rimase sveglio a lungo ricordando le mille cose di quella serata. Non riusciva a calmarsi, a capire come fosse possibile. Tremava.

     Ad un certo punto sentì Petja che si era alzato e camminava nel corridoio. Gli comparve nel vano della porta, riusciva appena a intravederlo: seguì con lo sguardo il profilo della biancheria – di un candore lunare immacolato, incantevole – e due scintille nel riflesso degli occhi. Petja si avvicinò al letto. Alzò la coperta e si coricò a fianco del signor Ferrari.

     “Non puoi” gli disse col pensiero, lo implorò. Ma non poté che abbracciarlo di nuovo.

     Petja gli accarezzò la guancia e dopo un attimo di silenzio gli disse:

     – Tu buono. Tu papà.

     Il signor Ferrari strinse le labbra per la commozione. Voleva dargli un bacio, ma non osava. E prima che avesse finito di percorrere il labirinto dei suoi pensieri, il volto di Petja gli occupò l’intero campo visivo. Il signor Ferrari vide quelle labbra bellissime, troppo vicine per essere a fuoco, e le sentì sulle sue: Petja lo ringraziava di tutto.

     Il signor Ferrari restituì il bacio, tremante d’emozione, tenendogli una mano sulla guancia. Poi scese ad accarezzare quella schiena che mille volte aveva accarezzato guardando la foto. Ma giunto alla vita distolse la mano: “No. Non di nuovo. Rovino tutto” pensò.

     E dandogli una nuova carezza, disse a Petja:

     – Domani andiamo all’ufficio stranieri per il permesso di soggiorno.

 

     Nella fievole luce delle imposte socchiuse, il signor Ferrari vide brillare gli occhi di Petja, quegli stessi occhi allegri ed aperti che aveva visto per la prima volta su Google.

 

 

Cremignane 1° settembre 2008


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