Un'altra questione

Un’altra questione


[durata: 9:03]

Si mise a sedere accomodandosi i cuscini dietro la schiena. Le venne voglia di una sigaretta. Spalancò gli occhi nel buio e si ricordò che il pacchetto era sul tavolino basso in soggiorno. Non voleva ancora alzarsi e non le piaceva fumare a letto. Passò qualche minuto, ancora intorpidita dal sonno. Pensò al bar, al piccolo Lelio che dormiva di là… Il pensiero del figlio la decise ad alzarsi. Andò alla porta della cameretta. Non la chiudeva mai completamente, per poterlo sentire, nel caso chiamasse. Il bambino dormiva beato, il respiro tranquillo. Le stelline fosforescenti sul soffitto si erano sbiadite. Lelio era la sua gioia più grande. Qualche anno prima, quando serviva i clienti col suo pancione e un sorriso di orgoglio e soddisfazione sulle labbra, avevano cominciato a chiamarla Joy.

Avvertì una stretta al pensiero, si ricordò delle sigarette. Appoggiò la guancia allo stipite, accarezzandolo con le due mani: un attimo di abbandono e poi andò in salotto. Non voleva accender le luci, bastava la penombra notturna, la luce dei lampioni gialli che filtrava dalle persiane. Bastava per non urtare sedie e divano.

Si sedette sul divano, lasciandosi andare di peso. Stette così per qualche minuto, poi si sporse a prendere sigarette, portacenere, accendino. E avvolgersi nel plaid. Non riusciva a fermare i pensieri, nessuno che si lasciasse osservare con calma e chiarezza. Capì che era piuttosto il suo stato d’animo a tenerli in movimento. Ma così furioso… Finché non si fosse un poco calmata, sarebbe stato un tormento.

Francesco la tradiva! Era di là, in camera, che dormiva a pancia in giù, abbracciato al cuscino… Da quasi venti giorni non facevan l’amore. Lei teneva il conto, ma così, quasi soprappensiero. Però ci teneva, come fosse il termometro del loro rapporto, una rassicurazione che tutto era a posto.

– No, non ci ho voglia, – aveva cominciato a dire una sera.

Lei si era morsa le labbra, gli aveva dato un pugno leggero contro le costole per risvegliarlo, poi gli aveva dato un pizzicotto. Tutto inutile.

– A domani, – tagliò corto; e s’era girato sul fianco dandole la schiena, senza altra spiegazione.

La sera dopo era tornato tardi, senza nemmeno avvisare, senza un messaggio sul cellulare. Diceva di aver già cenato. «Con amici» aveva aggiunto. Joy conosceva i suoi amici: quando organizzavano una cena insieme, se ne parlava qualche giorno prima. Mai così all’improvviso.

Ogni sera aveva avuto una scusa diversa.

Joy moriva dalla voglia di averlo. E non capiva. Di solito era lui che cominciava: la annusava, la accarezzava lungo i fianchi, immergeva il suo viso fra i seni, le baciava il collo, le guance. E quando arrivava alla bocca era fatta: non la mollava più. Era un tipo focoso, impetuoso… e lei era proprio il suo tipo. Lei lo adorava e lui ne andava matto.

Joy era perplessa. Era certa che qualcosa gli fosse successo. Le ritornavano le parole di lui che si scusava. Non era bravo a mentire.

Con precauzione aprì la porta che dava sul balcone e uscì a prendere una boccata d’aria. Sentì arrivare una macchina, passò e ritornò il silenzio. Si sentiva nervosa. Non stava dormendo: la giornata di lavoro sarebbe stata lunga. Già s’immaginava la faccia che avrebbe avuto il mattino.

– Joy, un caffè!

Ma quale Joy? E il nervoso aumentava. Perché proprio a lei?... Anche a lei! Non faceva eccezione. E di nuovo le stava capitando quel che le era già capitato e ben conosceva. La storia con Giulio era durata otto anni e si era conclusa due mesi prima che nascesse Lelio. S’era data delle colpe: si era distratta, aveva pensato troppo al bambino. Non voleva più ripeter quelle storie! Avesse avuto un altro ragazzo, sarebbe stato tutto diverso. Con Francesco durava già da tre anni e prometteva bene. Ogni tanto lui se ne usciva con delle espressioni che la sorprendevano, ma le considerava poco più che battute.

– Non sai la fortuna che hai! – le diceva.

E lei ribatteva:

– Neanche tu! – senza capir bene che cosa avesse voluto dire con quella vanteria.

Sì, Francesco amava i complimenti, amava esser circondato dalla stima e dall’ammirazione…

Due pensieri si collegarono da soli nella mente di Joy: “Francesco amava solo le persone che lo ammiravano, che gli facevano continuamente i complimenti, che gli dicevano bravo, che era un bel ragazzo.”

Joy non capiva questa sua insistenza; gli era un tantino odioso quando girava attorno alle parole fino a strapparle un complimento. Joy l’aveva capito e non gli dava più corda: non poteva sempre essere il più bravo.

Era bello. Le piaceva guardarlo, ma la bellezza non era tutto.

Lui le voleva bene, ma a suo modo, e i complimenti che le faceva sembravano insinceri, quasi a voler mettere in pari quelli che desiderava per sé.

Anche Joy gli voleva bene, ma tutte queste manfrine la annoiavano: sembravano una specie di recita, di ping-pong. Per un po’ l’aveva assecondato, pensando fosse un gioco passeggero. Gliene aveva anche parlato, ma lui non capiva. Secondo lui erano tutte cose che si costruiva lei nella sua testa. Ma da tempo si era stancata di “ricaricargli le batterie”. Le sembrava tutto così esagerato, fuori posto. Effettivamente era anche bravo, era anche un bel ragazzo, ma come mai voleva che continuamente glielo si ripetesse? Qualcosa di lui le stava sfuggendo, un Francesco che lei ancora non conosceva.

“Tutti abbiamo bisogno di sentirci stimati – pensava Joy – di avere dagli altri un riscontro positivo. Ma cercarlo in continuazione…!”

Pensandoci bene, anche col sesso era così: continuava a parlarne, a chiedere se le fosse piaciuto, quasi fosse merito suo… ma quanto!

E la domanda vera, il confronto con Giulio, non era mai uscita, ma Joy avvertiva che sordamente covava, e temeva che prima o poi quella mina vagante sarebbe scoppiata.

Francesco tuttavia non era un tipo orgoglioso: o almeno così sembrava a chi lo conosceva per la prima volta. Allenava una squadra di ragazzini. Ci sapeva fare. Vincevano spesso. Lavorava come disegnatore in una ditta di prefabbricati…

“Gli piacciono un po’ troppo i complimenti – pensava Joy – ma per il resto, non è un cattivo ragazzo. Anzi!” E lo vedeva osannato dalla sua squadretta rientrando agli spogliatoi a partita finita.

Joy non era il tipo che facesse meraviglie per un nonnulla: le cose fatte bene avevano una loro misura, un loro assetto saldo su cui si poteva concretamente contare. Perché continuare a parlarne?

“Che bambino!” si ripeteva ogni tanto fra sé. Scrollava la testa, fiduciosa che un giorno sarebbe cambiato.

“Mica sono sua madre da dovergli correre dietro a lodarlo per ogni minima cosa che fa. È così insicuro di sé, delle proprie capacità, da dover essere continuamente rassicurato, coperto di lodi? Con chi mi son messa?”

E dopo un po’ le giunse il pensiero talmente evidente che la abbagliò, la paralizzò:

“È un immaturo!”

Solo dopo tre anni l’aveva capito. L’intuizione quadrava perfetta; finalmente si spiegava tante cose, grandi e piccole, del suo comportamento, del suo modo di fare con lei. Ma ora? Che cosa stava accadendo? Senz’altro aveva un’altra: “una che lo tiene su a complimenti! Una che gli dice “coccolone mio, bello del tuo amore, occhioni blu”. E smancerie di questo genere.”

Spense con rabbia la cicca della sigaretta pestandola con la ciabatta. Ora tutto le era molto più chiaro. Sapeva che fare.

 

Quando Francesco si svegliò, Joy era già uscita: aveva svegliato Lelio per portarlo all’asilo, lavato, vestito, colazione… tutto in ordine. Il resto della nottata Joy l’aveva trascorso sul divano, non le andava di ritornare da Francesco. Il nervoso le era passato ed era riuscita a dormire qualche ora. Francesco cancellato. Sarebbe vissuta bene anche da sola col suo Lelio.

A sera, dopo il lavoro Francesco passò dal bar di Joy: un aperitivo veloce e poi gli allenamenti. Trovò Joy che scherzava serena e rideva con gli avventori.

“Perché non è tornata a letto? Nemmeno un post-it sul frigorifero, nemmeno un messaggio per tutta la giornata… Si sarà confuso fra i molti inviati da Estrella…”

Vederla così allegra – nonostante tutto – gli faceva piacere.

“Ma perché solo con gli altri? E io chi sono? Dopotutto…” ma non riuscì a formulare con parole precise il pensiero. Voleva dire: “È con me che viene a letto. Non ha nessun altro!”

Ma ora c’era Estrella. Tutt’altra cosa che Joy. Lei sì che lo sapeva apprezzare.

Si eran capiti al volo; un’occhiata al bancone del bar più affollato del lungolago. Perù? Bolivia? Non si ricordava più di dove venisse. Da quasi cinque anni era in Italia e da poco era approdata in questo villaggetto del basso lago, chiamata da un’amica connazionale.

Tutto filava come l’olio. Già la terza sera che uscivano, si erano appartati con l’auto in un viottolo fra i vigneti. Joy, al contrario, era una somma di problemi e lui sinceramente voleva “guardarsi in giro ancora un po’”, prima di chiudersi fra le quattro mura di una casa a fare il bravo marito, il bravo papà.

Estrella era un vulcano: effusioni a non finire, belle parole, un piacere stare con lei: era stato apposta dal barbiere – e lei non finiva di accarezzargli i capelli. Aveva comperato una nuova camicia: era costata, ma ne era valsa la pena. Una sera le aveva portato un profumo muschio e gelsomino che lei aveva molto apprezzato e non finiva più di ringraziarlo. Così doveva essere la vita! Joy, invece, non avrebbe approvato: da tempo aveva smesso di farle regali, per non sentirsi il solito rimprovero che doveva imparare a risparmiare.

Con Estrella si sentiva qualcuno. Si sentiva capito, si sentiva se stesso. Finalmente una che lo apprezzava per quel che sentiva di essere.

 

C’era poi anche un’altra questione, ingarbugliata come non mai, difficile e nuova, ma altrettanto irresistibile. I ragazzini che allenava lo adoravano, così carini e disarmanti, e lui se ne sentiva attirato, ci si ritrovava da dio. Per alcuni sentiva una simpatia particolare, che poco a poco era diventata un affetto, una sintonia perfetta come fuori dal mondo, una gaiezza leggera e spensierata, una dolce torpore drogato. Un legame che si andava rafforzando giorno per giorno, lo vedeva crescere: sempre più li ricercava, vi dedicava tempo e attenzioni.

Ora che usciva con Estrella era sempre su di giri. L’allenamento era un divertimento per tutti. Nell’ultimo incontro avevano vinto per cinque a due. I ragazzini gli stavano sempre attorno, gli prendevano un braccio, volevano farsi portare a cavalluccio o sulle spalle: gli occhi brillavano di ammirazione. E Francesco li assecondava, come fosse un secondo papà, un amico più grande. Si ubriacava di quella felicità così spontanea e fresca, non riusciva più a fare il serio, a pretendere puntualità e disciplina di gioco. Spesso finivano l’allenamento in anticipo, perché lui doveva correre da Estrella.

Uscito quella sera dal bar di Joy era andato in palestra. L’allenamento era stato più che altro uno schiamazzo continuo, finché non arrivarono le nove. Fra urla e spintoni i ragazzini si ammassarono verso gli spogliatoi.

Francesco non aveva chiuso bene il gancio della sua doccia. I ragazzini passando erano soliti spinger tutte le porte per vedere se qualcuna fosse aperta. Due ragazzini stavano facendo proprio questo gioco e la porta di Francesco si era spalancata. I due ragazzini furono sorpresi e un po’ anche spaventati. Erano corsi via, ma poi erano subito ritornati; si misero a ridacchiare con la mano sulla bocca: Francesco era di buonumore, canticchiava sotto la doccia: Estrella lo stava attendendo. Sentendo la maniglia urtare contro il muro si volse e li vide:

– Dai, entrate anche voi, invece di ridere!

– Ma sei nudo!

– E allora? Fra noi sportivi siamo un po’ più liberi, è naturale un po’ di confidenza in più. Dai, spogliatevi, che tanto ce l’abbiamo uguale.

Eccitatissimi, esilaranti e incontenibili, non finivano di spruzzarsi l’acqua addosso, di guardarsi, di ridere, di gridare saltellando festosi, di toccarsi, scherzarsi, stuzzicarsi, solleticarsi, di insaponarsi la schiena, di mostrarselo. Il gioco era nuovo, divertente. Una bella avventura da raccontare!

All’improvviso Francesco sentì che stava avendo un’erezione. Uscì subito da sotto il getto dell’acqua e si avvolse in tutta fretta l’asciugamano attorno ai fianchi. I due ragazzini lo guardarono, sorpresi dell’interruzione. E poi della “prominenza” sotto l’asciugamano.

– Basta adesso, – ordinò Francesco, con una serietà che impressionò i due ragazzini.

– Perché sei diventato così rosso in faccia? – gli chiesero.

– È l’acqua calda, no? E poi che cosa potete saperne, voi?

La doccia insieme non era più divertente. Si cinsero i fianchi con gli asciugamani, raccolsero le loro cose e scapparono via.

– Uch! – sospirò Francesco appena i due ragazzini furono usciti.

Si sedette sullo sgabello squassato da mille pensieri e interrogativi.

“È un caso! – si ripeteva. – Succedono molte cose strane. Si aggiunga anche questa! E poi che cosa c’è stato, in fin dei conti? Proprio nulla!”

Ma intanto sentiva il petto gonfiarsi. Sentì la paura che gli risaliva alle tempie. Si sentì avvampare la nuca. La mandibola cominciò a sbatacchiare senza poterla fermare. Si alzò. L’erezione non accennava a calare, faceva cono sotto l’asciugamano.

“Non posso uscire così.”

Si schiaffeggiò il piripicchio, esortandolo a non fare cazzate. Cercò di comprimerlo col palmo della mano. Nella testa mille pensieri passavano come razzi:

“Pedofilo” – “Carabinieri” – “Estrella”…

Gli venne d’inghiottire, batté i pugni contro le piastrelle. Chiuse bene il gancio e si rimise sotto la doccia. Fredda.

Quando uscì non aveva più voglia di ridere.

Andò verso lo spogliatoio dove i ragazzi stavano animatamente commentando l’accaduto. Alcuni erano muti, chini a legarsi le scarpe.

– Domani anch’io vengo sotto la doccia con te! – disse uno.

– Anch’io! – aggiunse un altro.

– Su! Basta, adesso. Vestitevi che i vostri genitori vi stanno aspettando.

Rivestitosi, Francesco prese il borsone, diede un’occhiata a vedere se nessuno avesse dimenticato nulla:

“Ah! Il solito Fabio: s’è di nuovo dimenticato maglietta e mutande”. Le prese ed uscì, cercando con gli occhi l’auto dei genitori di Fabio. Stava proprio allora uscendo dal parcheggio. La rincorse e la raggiunse allo stop. Porse la biancheria. L’uomo alla guida quasi gliela strappò di mano:

– Mio figlio è l’ultima volta che viene. Stai pur certo. E non è finita qui!

E ripartì con un’accelerata rabbiosa.

Francesco sentì che il mondo gli stava crollando addosso. In un attimo gli era diventato ostile. Incomprensibilmente. Esageratamente. Via via uscivano anche le altre auto. Qualcuno salutava, qualcun altro tirava su il finestrino.

“Che sera! – pensò Francesco. – Che giornata!” ricordando anche quello che era successo con Joy.

“Ma cosa mi sta succedendo? Prima tutti felici e contenti e poi, tutto ad un tratto, mi ritrovo nei guai fin sopra i capelli e io che non ci capisco più niente. E poi questa novità! Ma che scherzi del cazzo sono!? Va be’, avevo un appuntamento con Estrella, ma dopo!, forse avremmo anche combinato qualcosa. Ero già eccitato di mio. Lo so che mi vogliono bene, ma è un modo di dire, puttana Eva! E lui se l’è presa alla lettera! È vero, lascio fare quando mi si aggrappano addosso e non mi mollano più, sono incredibili, sono carini, teneri, sono pieni di entusiasmo, elettrizzati, mi contagiano. Ma il sesso che c’entra? Che storia è? È tutto così collegato?”

Messaggiò a Estrella una scusa qualunque. Salì in macchina e s’allontanò nella notte.

 

Iseo, 29 luglio 2015

 


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