Ameraldi - 10.2 Iseo, Breno. Esine per sempre Documento senza titolo

Oberto Ameraldi:
Una vita di fede per la scuola

Brescia : Fondazione Civiltà Bresciana, 2000. - (Cattolici & Società ; 11), p. 552-580.


10.2. Iseo, Breno. Esine per sempre (parte seconda)

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Furono anni di intenso lavoro. Si sentiva un grande fermento, con mille cose che una per una andavano a posto: mattone sopra mattone la ricostruzione procedeva. Nella scuola le cose procedevano a gonfie vele: raramente si incontravano difficoltà materiali. Con pochi soldi e molto impegno la scuola nel suo complesso stava cambiando completamente fisionomia. Si era galvanizzati da grande entusiasmo e ottimismo. Le mille novità di ogni giorno ci riempivano di una gioiosa alacrità, di esaltante fervore: il mio temperamento “garibaldino” salì ad un diapason fantastico. Quella generazione di maestri penso abbia trasmesso questo slancio formidabile, questa ventata di progresso alla nuova che un decennio dopo sarà protagonista del boom.

Il caso di un maestro mi portò ad interessare il Comitato Provinciale della Democrazia Cristiana. Qui trovai un uomo straordinario, nel pieno delle sue energie, con uno sguardo proiettato al futuro, due mani su una piccola scrivania con una presa ben salda al presente. Era Mario Pedini. Aveva un modo per affrontare i problemi che molto mi piacque. Come fa uno scultore che tasta con attenzione la creta d’un’opera plastica, prima sondava il problema nelle sue forme, ne scandiva tutte le pieghe, ne coglieva l’insieme e poi ne traeva una rappresentazione che si poteva toccare dal vivo, afferrare e comprendere, con una parola ti faceva capire cos’era il problema in concreto e proponeva come risolverlo.

Era sempre a interrogarsi sul fare e su come potere tradurre i programmi in azione: Brescia e l’Italia erano un grande cantiere; sapeva che una grande risorsa era l’unità delle persone che lavorano insieme per costruire una polis, una res publica una casa/cosa comune; e lui aveva una grande capacità di muovere gli animi, come se tutti condividessero per sé innanzitutto un grande e vario progetto. Questo il suo modo di fare politica, in questo senso intendeva la parola democrazia.

Amava l’Italia, ma era cosciente che essa doveva muoversi nel contesto dell’Europa e del mondo. Era coltissimo, per la cultura, l’arte, la scienza, la storia, la musica aveva un’ardente, giovanile passione e per la scuola la presta sollecitudine di un padre amorevole. Sapeva ascoltare le molte voci che giungevano a lui, perciò sapeva anche parlare, dialogare con tutti.

Era spesso in Valle Camonica, la conosceva bene. A Esine è stato più volte. Per le persone aveva un occhio di riguardo, si gettava nel fuoco per dare una mano. Ma allo stesso tempo evitava ogni estremismo ogni partigianeria. Grazie al suo equilibrio si acquistò la simpatia di molti... direi proprio nel mondo intero.

Fummo subito amici e molto l’uno dall’altro imparammo; fui molto contento quando seppi che aveva sposato una compagna di scuola che avevo alle Magistrali di Brescia, Amalia.

Una volta, era forse il 1959, in una assemblea sindacale qualcuno osò dire che era un inconcludente, che su un democristiano non si poteva fare affidamento, che faceva gli interessi del potere e dei padroni. In malo modo, contro tutte le regole della democrazia strappai il microfono all’incauto oratore e con passione quasi isterica che mi scuoteva tutto il corpo, prizzato di sanguigno le gote, elencai da cima a fondo quel che Pedini aveva fatto per la scuola, per la Valle e per Brescia; invitando tutti ad informarsi bene prima di sparare a zero, a non diffamare chi non era presente e che nemmeno si conosceva.

In una lettera (3 maggio 1966) mi scriveva, ad esempio, parole molto affettuose:

Avrei voluto incontrarTi durante le vacanze pasquali ma non vi sono state per me vacanze bresciane. Spero comunque sia possibile incontrarci una sera di maggio nella pace e nella serenità della nostra amicizia. Sono molto desideroso di vederTi.

Nel settembre del 1949 i paesi della Valgrigna festeggiarono con grande solennità la Madonna Pellegrina . Per la preparazione spirituale furono chiamati don Giovanni Antonioli, vicario di Ponte di Legno e don G. Vender. Al ponte del Grigna il sindaco Luigi Volpi porse il saluto.

Una fotografia ci ritrae lieti e beati il giorno della festa di San Glisente, il 26 luglio del 1950. Quell’aspetto sereno, giocondo, domenicale, era quotidiano per noi in quegli anni. E in seguito pure fu spesso così.

Quante volte ero salito alla cima del monte, con la chiesa, la cripta, il pianoro dolcemente digradante, «fascino e meta d’audaci spiriti»: la cùlma de Hàn Ghidét!

Quel sogno sereno che allora la mente mi svolgeva indistinto per gli anni a venire, che immaginavo oltre quei vasti e profondi orizzonti, dove lo sguardo tendevo vago e incantato a mirare, sospeso nel tempo – tanto quel ciel di germile e l’animo mio eran colmi d’azzurro– ora sedeva al mio fianco, ben vivo e reale... Margherita accoccolata al tepente mio abbraccio; fondevano le anime nostre al calor d’una stupenda parola: insieme.

Durante il mese di settembre due mattacchioni di Esine, Tani Bonettini e Cèhco Gelfi, vollero ripetere le imprese dei binàder del secolo scorso, quegli ardimentosi zattieri che facevan fluitare i tronchi lungo il corso dell’Oglio fino a Pisogne. Dopo varie peripezie in quattro ore giunsero a destinazione. L’esperimento mi interessò molto, anche se tolse un po’ dell’aura mitica che circondava i vecchi binàder.

Durante l’autunno, mentre Pací torchiava le nostre uve, un simpatico personaggio si intrattenne con me, raccontandomi le sue avventure. Aveva un naso sopraffino che lo guidava infallibilmente verso le cantine o gli androni dove si stesse lavorando alle uve e al vino. Si chiamava Püotí, ma il suo vero nome era Antonio Stoppani; aveva allora 56 anni. Come ’l sciòr Giódep de la Hàca, il signor Giuseppe della Sacca, aveva una certa familiarità con le preture e il carcere (il colégio). Sorseggiando il vino nuovo dal bahgiòt, la ciotola di legno, mi raccontava che stava escogitando qualcosa per potersi assicurare “vitto e alloggio” per l’inverno imminente. L’anno precedente gli era andata bene: senza malizia né cattive intenzioni, ma per avere un ricordo del suo benefattore, aveva sottratto l’orologio d’oro al parroco che lo aveva aiutato. Diceva che ’l mónt l’è pròpe pié de búna dét, il mondo è pieno di brava gente, riferendosi al pretore e all’avvocato che gli avevano dato modo di passare tranquillo e beato la cattiva stagione.

Don Sina insisteva perché “entrassi in Comune”, cioè, mi candidassi alle elezioni dell’anno seguente, diceva che era mio preciso dovere, che non potevo non mettere a disposizione del bene comune le mie capacità.

Non avendo tessere di partito, mi candidai nella lista indipendente di Glisente Scalvinoni. Vincemmo. A me fu affidato l’assessorato della Pubblica Istruzione, ma spesso venivo interpellato anche per altre questioni; spesso tracciavo la bozza dei discorsi ufficiali a Glisente; nel 1957, dopo esser stato insignito dell’onorificenza di Cavaliere, il Comune gli offrì una pergamena in riconoscenza della sua opera di amministratore.

Tre anni dopo, nel 1960 anche a me fu conferita la medesima onorificenza. Nel 1972 vi aggiunsi quella di cavaliere ufficiale. Dott. Prof. Cav. Uff. Oberto Ameraldi, c’erano titoli sufficienti per riempire un biglietto da visita.

Fui amministratore pubblico per due tornate. Fra le molte iniziative portate a termine, voglio ricordare l’acquisto della casa Fumagalli in piazza Garibaldi per la nuova sede comunale (1954-55), il consolidamento del ponte sull’Oglio, la solerte attenzione alle condizioni dell’edilizia scolastica, soprattutto nelle frazioni.

Aggiungerei anche l’acquisto da parte del Comune del quadro del pittor Nodari Focolare spento. La migliore realizzazione, della quale andavo fiero anche per il disegno sobrio e funzionale che lo poneva giustamente all’avanguardia nella provincia (ricordo le lunghe discussioni col buon Lisetto), fu però la nuova Scuola Materna. Ma fu proprio durante la costruzione del nuovo asilo che sorsero alcune incomprensioni su questioni amministrative con Glisente. Durante il mese di agosto, al mare, riflettei con calma e ponderatezza: al ritorno, presentai le dimissioni (2 settembre). Due anni dopo, non rifiutai di abbozzare un intervento per un opuscoletto nel 50° della fondazione della Scuola Materna, limitandomi però ai soli temi pedagogici.

Durante le sedute di Giunta e del Consiglio tutti fumavano, ne uscivo con un mal di gola che durava per una settimana, e per di più la mia fobia per il fumo veniva spesso ridicolizzata.

Glisente era buono, generoso, pieno di cordialità, se mi chiedeva un favore non riuscivo a negarglielo.

In quei mesi si stava pensando di iniziare, dall’anno scolastico 1959-60, il primo corso della scuola di Avviamento Professionale – nei locali lasciati liberi dall’asilo – che avrebbe sostituito le Postelementari Comunali(l’on. Mario Pedini, a Roma, stava dando una sostanziale accelerata alla pratica): pur essendo assessore alla Pubblica Istruzione le decisioni dovevano in un certo qual modo avere il beneplacito di Glisente, e sinceramente, avendo constatato che, sia pur spinto dalla fretta o da altre considerazioni, non aveva sempre l’umiltà di affidarsi ai consigli dei competenti, a volte mi faceva sentire di valere come il due di coppe. E questo non era dignitoso personalmente, né decoroso a riguardo del grado che ricoprivo come funzionario scolastico. Nel mio piccolo, avevo anch’io ottenuto un bel riconoscimento: il 30 giugno 1958 mi era stato conferito dal Ministro della P.I., Aldo Moro, il Diploma di 3ª classe «per le benemerenze acquisite nel campo della Scuola, della Cultura e dell’Arte». Per tacere di altre soddisfazioni personali.

Glisente era un uomo navigato in politica, persuasivo, capace, accorto, spiccio, ma a volte costringeva anche i suoi fedelissimi collaboratori a tacere per paura dei suoi rimbrotti; nessuno la vinceva quando si impuntava. Per il nuovo asilo si era dimostrato molto entusiasta, ma in piazza mi aveva rinfacciato l’acquisto dell’area perché in un certo senso lo costringeva a realizzarlo, con tutti i rischi del caso: 20 milioni in quegli anni non eran noccioline, ma chi gli aveva suggerito della possibilità di attingerne altrettanti alle casse dello Stato?

Ci fu però un punto nodale che mi fece riflettere e concludere che non ero adatto alla politica: non avevamo raggiunto la pacificazione degli animi! Per ragioni di opportunità politica dalla minoranza non si accettava nemmeno un suggerimento, eppure stavamo amministrando insieme, la popolazione aveva sì fatto vincere la nostra lista, ma non rispettando la minoranza, se non nel minimo richiesto dalle formalità, stavamo perdendo la sfida di dimostrarci davvero democratici. E i democristiani non erano fiöi de la Pórta de la ’Àrda – guarda caso, l’ex sindaco Luigi Volpi abitava proprio lì –, non erano solo avversari politici, erano anche cittadini, e una Amministrazione dovrebbe governare per il bene di tutti. La scadenza elettorale era vicina, e ci si stava preparando nel modo peggiore, diventando sempre più velenosi verso gli avversari, mentre per carattere e per convincimenti avrei preferito la serenità e l’assenza di rancori.

A onor del vero, in una relazione del 23 ottobre 1960, Glisente mi ringraziò pubblicamente, ma ciò non bastò a rivedere la mia decisione di non candidarmi più.

Questi furono i motivi delle mie dimissioni... la nausea mi rimase in corpo parecchi mesi: nella primavera del 1960 quando l’opposizione mi offrì la candidatura, non me ne ero ancora liberato.

Con Glisente, sul piano dell’amicizia privata e personale, nulla però era cambiato.

Mi ci volle del tempo per ritrovare la mia serenità, lasciar perdere i rancori... e perdonare. Ero stato colpito nell’orgoglio, e l’agro mi pesò sullo stomaco. Dovevo liberarmene, prima che mettesse radici.

Nel frattempo andavo raccogliendo lusinghieri riconoscimenti nel campo professionale. Conoscevo pedagogisti, colleghi, ispettori; continuavo io stesso a studiare e partecipavo a convegni. E coi maestri si andava a gonfie vele: la scuola funzionava a dovere; ero proprio soddisfatto.

Casa mia si trasformava spesso in una piccola corte bandita, gli amici facevano volentieri un salto sul lago: “Iseo sarebbe stata più ariosa per me con la tua presenza, più amabile per la presenza della tua casa”.

Ulteriore testimonianza di questo clima sereno, verso la metà di maggio del 1952, l’amico e collega Aldo Cibaldi mi dedicò una divertente poesia che cominciava così:

Sbianchisìna sterlöca töta, lüna!
E vidì-f miga che ’l penèl el góssa?
E vidì-f miga ch’i sbüsàt la tóla?
E che i ve ciàpa töcc per ’na latéra
Ch’à fat baràca e ch’è restàda ’n vióla?

“Dedicata a Oberto Ameraldi, il più caro degli amici, e che io ricordo sempre dopo nessuno”

Ed ecco come ci vedeva Vittorino scrivendo alla mamma:

Nobile Signora,
giovedì ho avuto la gioia di rivedere il Suo carissimo Oberto e sposa. Sono felici e attendono con tanta generosità all’apostolato della scuola.
L’abbiamo ricordata; per questo mi permetto di scriverLe queste righe e di dirLe che mi inchino con reverenza a baciarLe la mano che ha fatto tanto bene.

Il 13 febbraio del 1953, all’età di 75 anni moriva don Sina. Il giorno dell’Epifania ero stato a trovarlo e mi aveva mostrato le numerose schede di lavoro per il nuovo saggio che stava preparando, una storia religiosa della Valle Camonica, era entusiasta, pieno di energia e di idee. Non so che fine abbiano poi fatto quegli appunti.

Il Comune di Esine partecipò al lutto affiggendo un manifesto. La intricata e tormentata vicenda della sua biblioteca mi videro protagonista: a distanza di anni penso che sia stata la soluzione migliore.

L’episodio mi confermò nell’opinione di quanto fosse difficile metter d’accordo le istituzioni pubbliche della Valle su progetti che riguardassero la cultura, la cultura comune. Di nuovo un problema veniva a cercarmi e richiedeva il mio impegno: avevo in mano due leve, la direzione didattica e l’assessorato; ero animato da una grande passione, ma solo due mani. Bisognava lavorare alla base, dentro e fuori le istituzioni.

Il 9 luglio un violento nubifragio sconvolse la riviera sebina fino al Pian d’Artogne, provocando la morte di sedici persone. Circa un mese dopo (4 agosto) una sarneghéra di eccezionale violenza s’abbatté su Iseo rendendo molto difficile la comunicazione con la Valle Camonica. I disastri continuarono anche durante l’autunno (il porticciolo di Marone sprofondò nel lago, e vi furono allagamenti e frane fin verso il 20 di ottobre). Con la buona volontà si rimediò a tutto cosicché le scuole poterono riprendere a funzionare regolarmente.

L’amicizia con l’ambiente della «Scuola Editrice» continuava feconda e intensa. La rivista «Scuola Italiana Moderna» aveva lanciato l’iniziativa Scuola fraterna per aiutare i giovani candidati al con corso magistrale. L’aiuto consisteva nel fornire indicazioni pratiche e tracce per la prova scritta, schemi di lezione, e nella correzione e valutazione degli elaborati; pomposamente eravamo stati promossi “revisori”. Gli amici della redazione ogni tanto mi dirottavano i piccoli casi un po’ antipatici, dopo avermi adulato scherzando sul mio nome– col proprio nome si è in dialogo per tutta la vita, non sapendo come portarlo, se come profezia, augurio, destino preordinato contro cui combattere, quadro dei nostri difetti, indicazione per migliorarsi:

questa donzella mi pare che esageri: bisognerebbe farglielo capire. Mi rincresce per te, che ti penso oberatissimo di lavoro in questi giorni. Con fraterno cuore

Marco

Non mancarono le belle soddisfazioni e la riconoscenza dei migliori. Questa collaborazione sembrò interrompersi alla fine del 1953, ma fu un equivoco, presto chiarito.

Due righe di una lettera dell’ambasciatore Giusti del Giardino, col quale avevo da poco ripreso i contatti, furono un lampo a ciel sereno e mi misero in subbuglio i pensieri per qualche giorno ai primi di dicembre del 1954:

A Caracas troverò un’organizzazione scolastica in fasce: se avessi bisogno di un pediatra, potrei pensare di trovarne a Iseo?

Ero anche ben fiero dell’ottimo ricordo che l’ambasciatore conservava di me. Non era semplice dare una risposta. La mamma stava bene, ma aveva ormai la sua bella età, 77 anni; l’affetto filiale mi suggeriva di starle vicino, ma alzando il braccio mi disse: «’À-la pür, che nótre ’n he ràngia» (“Vai pure, che noi in qualche modo ce la caveremo”).

Era ben vero che ero il capofamiglia, che Margherita mi avrebbe seguito in capo al mondo, che avrebbe sopportato tutti i disagi di una permanenza all’estero e al diverso clima. Volevo però essere sicuro che non dovesse sacrificare il suo lavoro, che faceva con amore e vera passione.

E per me volevo avere prima un quadro preciso della situazione, per non andare a mettermi nei guai solo per la smania dell’estero. E non ultimo volevo ragguagli sullo stipendio, sul periodo minimo di permanenza obbligatoria.

Già progettavo di raccogliere attorno a me un gruppo di giovani e volenterosi maestri che avrei formato per la didattica e la lingua, disposti a trasferirsi e costituire l’ossatura delle nuove scuole italiane nel Venezuela.

I rosei progetti non si poterono però realizzare. La situazione in Venezuela non era delle più favorevoli per gli Italiani. E così sfumò quella prospettiva che mi aveva riscaldato l’animo per tutto l’inverno.

Nel frattempo, Adriana, figlia dell’amico Agosti, aveva preparato una comunicazione per un convegno di maestri con ottimo risultato.

Partecipai all’amico Marco le mie entusiastiche impressioni sulle ottime qualità e solida preparazione della figlia.

Marco mi rispose con una lettera che mi commosse, per i complimenti senz’altro immeritati. Nello stesso tempo mi offriva un punto di osservazione esterno per conoscermi:

Oberto caro,

ritornato dalle peregrinazioni dei convegni invernali trovo finalmente il momento di rispondere alla tua lettera, che mi ha a volta a volta commosso per la bontà con la quale giudichi Adriana, e divertito per lo spirito con cui tagli amabilmente i panni addosso a suo padre!

Ho trovato nella lettera tutto il tuo cuore e il tuo carattere e, in più, un brio letterario che ti potevo attribuire ma del quale non avevo mai avuto una prova così bella. […]

Quanto a me, caro Oberto, sento di avere una sola qualità che meriti la tua stima – avvezza a tutte le scarnificazioni –: un gran desiderio, sempre contrastato, di studiare, cui si accompagna un senso quasi dolente del bisogno di trasfonderlo nei maestri.

Tu stammi sempre vicino, con la tua ironia di buona tempra, suggerita da un ben ricambiato affetto fraterno. Con i più vivi auguri per te e per la tua Margherita, per i tuoi cari

aff.mo Marco

Durante l’estate del 1955 ebbi un breve periodo di supplenza presso l’Ispettorato Scolastico di Breno: fu un buon assaggio; la supplenza si ripeté abitualmente anche negli anni successiviNell’autunno del 1955, fui nominato commissario al concorso per insegnanti soprannumerari: l’incarico mi avrebbe impegnato per quattro mesi. Sistemata ogni cosa prima dell’inizio della scuola – mi avrebbe sostituito il direttore Battista Gatti –, Margherita e io ci prendemmo dieci giorni di congedo per il nostro «secondo viaggio di nozze» a Parigi.

Fu un periodo elettrizzante: si respirava nell’aria la ventata innovatrice dei nuovi programmi. La Scuola si apriva alle prorompenti innovazioni della scienza e della tecnica: sempre più spesso si sentiva la parola audiovisivi. Ma non trascuravo iniziative più tradizionali, come la raccolta di fondi per la lotta alla tubercolosi.

Durante l’estate del 1956 e 1957 partecipai a due convegni al Passo della Mendola organizzati dall’Università Cattolica. Il secondo, chiamato Paedagogium ebbe una certa risonanza anche sulla stampa. In dicembre, altro convegno a San Remo.

Prendemmo l’abitudine di passare i mesi estivi a Esine – con grande gioia di mia madre, che aveva in Margherita un valido aiuto e una compagnia affettuosa e premurosa. Continuavo con le mie escursioni in montagna. Di ogni cascina conoscevo ogni malgaro, dal prím vachér, il responsabile della mandria, all’ultimo frühca, il garzone tutto fare, vittima spesso degli scherzi grossolani di quegli uomini rudi. Data la frequenza delle mie visite, ero sempre accolto col maggior piacere e con molta simpatia. Alle mie spalle facevano commenti sui calzoncini corti, sul mio fisico corpulento, sul fazzoletto bianco con cui mi asciugavo il copioso sudore. Un giorno, mentre stavo attraversando la Pagherína de la Cadinèta, un’abetaia fitta e ben nota fungaia, spuntando all’improvviso alla sommità di una piccola erta del sentiero, spaventai a morte un ragazzino che stava cercando funghi alzando i rami bassi degli abeti e dei mughi. Atticciato e tangolotto, il petto villoso, il viso accaldato, devo essergli sembrato un orso davvero.

Il “grande avvenimento” di quei mesi si verificò verso la fine di novembre, quando acquistai una Fiat 600: ero emozionato e fiero, contento anche perché tutto era più facile e comodo.

Sembra proprio vero che tutto sia preordinato, sincronizzato: dopo le mie dimissioni da assessore al Comune di Esine, il 17 ottobre 1958 fui nominato Ispettore scolastico reggente a Breno: l’ispettore Toccabelli era stato trasferito infatti ad altra sede.

Durante l’estate del 1959 ritornammo in Ispagna (già avevamo fatto una capatina nell’estate del 1954), sui luoghi dove ero stato durante la guerra civile. Visitammo Santander, Pamplona, Siviglia. Rividi gli amici di un tempo, molto era cambiato da allora, ma immutato l’affetto, il calore della cordialità. Al Puerto del Escudo non riuscii a trattenere una lacrima: lì era sepolta anche una parte del mio passato. Era una Spagna invecchiata, sonnacchiosa, da tipica siesta, come stesse «facendo un chilo agro e stentato» di manzoniana memoria.

Altri concorsi, convegni, corsi di aggiornamento si susseguirono nel giro di pochi anni (uno importante a Sorrento dal 14 al 19 dicembre per Direttori e Ispettori, un secondo a Brescia, organizzato dall’Associazione Italiana Maestri Cattolici).

L’arrivo degli anni Sessanta diede ancora più respiro all’ansito di rinnovamento. Dalla Francia giungevano proposte valide, semplici, di molto buon senso, che coinvolgevano gli alunni in attività pratiche (la “grammatica delle mani”, come riscoprirà anni dopo il linguista Tullio De Mauro); l’imprimerie à l’école “la stamperia scolastica” di Célestin Freinet e il “testo libero”. Nell’agosto del 1962 un gruppo di dodici insegnanti della Circoscrizione di Breno seguirono a Frontale (Macerata) un corso sulle tecniche Freinet, impegnandosi poi a sperimentarle nelle classi. Un altro breve corso di tre giorni fu pure organizzato a Breno. In questa occasione si approfondirono anche i metodi di lettura di Jules Payot, Poriniot e di Dévaud.

In previsione delle elezioni comunali del 1960, la lista di opposizione a Glisente mi chiese se volevo presentarmi candidato. L’invito mi ringalluzzì, perché dimostrava che il mio comportamento era stato trasparente e corretto anche agli occhi degli avversari politici e – cosa importante – che la mia opera di “amministratore” era stata vista come al di sopra della lista “Leutelmonte”; ma per lo stesso motivo non volevo mostrarmi banderuola e ciriola. Rileggendo la lettera di risposta al buon Bortolo Bontempelli (16 febbraio 1960), mi accorsi che avevo imparato a spaccare il pelo in due, pur di far più convincenti i miei argomenti:

Sento che se è stato un bel gesto quello di staccarmi in modo clamoroso dalla amministrazione di cui avevo fatto parte per 8 anni ed alcuni mesi, tutto sarebbe sciupato dal sospetto di invidia e gelosia se mi ponessi apertamente tra gli avversari dei miei, per due volte, compagni di lista.

Non posso permettere che si dica che sono un volta bandiera; se ho sbagliato restando tanto tempo a fianco di qualcuno, l’ho fatto per il bene del paese, ma non sarebbe bello che mi mettessi contro.

Ho forse una sensibilità che non tutti possono capire, ma che tu certamente non puoi condannare.

Se me ne sto fuori forse vi rendo di più in fatto di voti: alla gente potrete dire che me ne sono stato fuori perché avevo ragioni molto gravi e nessuno potrà rinfacciare che queste ragioni erano la brama di comandare – come potrebbe essere detto, a ragione, qualora entrassi in una nuova lista.

Quindi, mentre vi assicuro tutto il mio modesto appoggio morale, bisogna proprio che per la tranquillità del mio animo che può accettare solo ciò che è trasparente e pulito, resti in ombra (almeno per qualche anno) prima di impancarmi ancora in questioni comunali.

Ma il motivo vero era il lavoro che per colpa mia diventava sempre più pesante. Mi sentivo ottimamente, pieno di dinamismo e di efficienza, la mente fervida di iniziative e di progetti.

Sempre nella stessa lettera dicevo:

Mai come in questi mesi sono stato in perfette condizioni di spirito per potere fare il mio dovere quasi interamente, senza trascuratezze e senza facilonerie. Per cui mi pare doveroso di continuare la mia fatica scolastica nelle condizioni migliori per poter non essere troppo inferiore ai miei doveri.

Nei giorni 16, 17 e 18 settembre 1960 – eravamo da poco rientrati da una gita lungo la Costa Dalmata – tutta la Valle Camonica fu colpita da una disastrosa alluvione. I danni furono enormi, molte sedi rischiavano di non poter riaprire il 1° ottobre: l’opera di ricostruzione fu davvero colossale, con generosa partecipazione popolare... e numerose riunioni delle “commissioni” da Brescia e da Roma, le hcaalcàde.

I direttori (soprattutto Luigi Turla a Breno e Nicolò Vucovich di Cedegolo) furono encomiabili per dedizione e capacità. Ma naturalmente l’Ispettorato di Breno fu il fulcro dell’intero coordinamento. Ho conservato un ritaglio del «Giornale di Brescia» di quei giorni:

Il Provveditore agli Studi che ha seguito, attraverso le particolareggiate e tempestive relazioni dei funzionari scolastici dipendenti, con vivo interessamento e sensibilità, lo svolgersi del dramma camuno, con particolare riguardo e attenzione ai riflessi nel campo della scuola, ci prega, tramite l’ispettore scolastico di Breno, prof. Oberto Ameraldi, di comunicare, da queste colonne, ai sindaci, alla benemerita “Comunità montana”, ai reverendi parroci e a tutte le autorità delle zone sinistrate della Vallecamonica, che gli organi competenti del Provveditorato stanno compiendo ogni sforzo al fine di permettere l’inizio regolare delle lezioni alla data stabilita dal Ministero della .., cioè il primo ottobre prossimo.

I comuni del BIM inviarono al Provveditore un folto elenco di scuole bisognose di contributo per un totale di oltre 800 milioni di lire. Ciò può dare la misura dei danni materiali arrecati dall’alluvione.

Dalla fine di agosto attendevo una visita dell’ambasciatore Giusti del Giardino in Valle; avevo già programmato ogni cosa con molto anticipo. Nei mesi precedenti avevo organizzato una raccolta di francobolli italiani da inviare agli alunni della sua nuova sede, Nuova Dehli: voleva ringraziarmene personalmente. Con molto rammarico mi scrisse, invece:

Dopo quanto è successo in Valle non ho più osato – prima della mia partenza dall’Italia – chiederLe di venire costà: spero però che la gita sia possibile nel prossimo anno.

Un buon padre di famiglia, amante del buonumore, che lavorava in quei mesi alla costruzione della metropolitana di Milano, arrivato a casa il venerdì sera, raccontò al proprio figlioletto, in procinto di iniziare la seconda elementare, che l’alluvione aveva provocato una frana sul duomo di Milano trascinando via la Madonnina. Iniziata la scuola, lo scolaretto volle portare questa straordinaria notizia al maestro: da allora l’espressione l’è gnít-do ’nna fràna ho ’l dòm de Milà, divenne proverbiale e sta ad indicare una panzana madornale, uno scherzo “istruttivo” per sciocchi e boccaloni.

Altra espressione dal sapore di proverbio basco, che ha avuto lo stesso sviluppo e nata presumibilmente in quegli anni è «non siam mica ricchi», ’n harà mía sciòri, e vale come convincente invito ad accontentarsi, a non strafare o spendere oltre il necessario e il dignitoso.

L’alluvione richiamò l’attenzione di molti sulle condizioni sociali ed economiche della Valle. Erano imminenti le celebrazioni del Centenario dell’Unità d’Italia e di Roma capitale, e le condizioni della Valle erano lì a dimostrare che tale unità aveva bisogno di un ulteriore sforzo per risanare le sacche di depressione. Una certa unità sotterranea però veniva colta: ironicamente la Valle Camonica era definita la “Calabria del Nord”.

Ognuno si impegnò per la propria parte a promuoverne il rilancio: il senatore Cemmi si batté in Senato per la costituzione della Comunità Montana, monsignor Bonomelli già dal 1946 tuonava dicendo: «È ora di passare ai fatti» ed era in prima fila nelle battaglie sociali; perfino le neglette incisioni rupestri ebbero la meritata attenzione.

Nel frattempo stavano maturando le condizioni per subentrare come ispettore scolastico effettivo a Breno. Già ne avevo avuto la reggenza e Toccabelli, per motivi di salute, sentiva molto oneroso l’incarico.

Avevo buoni amici che potevano sostenere la mia candidatura presso il Ministero. Oltre all’appoggio incondizionato dell’On. Pedini, mi stava aiutando anche l’Ispettore romano Antonio Durante, “comunista” (era effettivamente iscritto al PCI ma bisognerebbe racchiudere quella parola in più di due virgolette), che era stato nominato per la sede di Breno e l’avevo ospitato per tre giorni alla fine di marzo 1961. Al termine del sopralluogo si convinse che la circoscrizione poneva problemi tali che solo chi la conosceva da lunga data poteva comprendere e avviare a una soluzione. In una lettera, senza avergli chiesto nulla di specifico, prima dei saluti, esagerando nei complimenti, mi scriveva:

Onestamente dirò a Mattei, e forse a Comes, che l’ispettore ideale di Breno sarebbe Ameraldi, che alla naturale intelligenza e attività accoppia una profonda conoscenza e – quello che più conta – un grande amore per la sua contrada.


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