Ameraldi - 8.2. A Tunisi durante la guerra Documento senza titolo

Oberto Ameraldi:
Una vita di fede per la scuola

Brescia : Fondazione Civiltà Bresciana, 2000. - (Cattolici & Società ; 11), p. 316-347.


8.2. A Tunisi durante la guerra (parte seconda)

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Appunto! È dunque proprio vero che la “storia” la fanno i vincitori. Da buon laureato in storia e filosofia riflettevo che se perfino la Storia può essere storia di parte, allora non è più la storia degli uomini, di tutti gli uomini, di quanti più uomini possibile, con buona pace di Antonio Gramsci.

Parrò forse barbogio e moralista, mi viene però da osservare che è un poco da vigliacchi, da presuntuosi, scrollarsi sprezzantemente di dosso debiti di riconoscenza in nome di un rinnovamento, di una promessa, senza il becco d’un’arra, lanciata verso un futuro del tutto ipotetico e nebuloso. Dove sono la fantasia, il misurato azzardo, l’ideazione, la determinazione che il buon fine naturalmente ci ispira se accettiamo fatalisticamente ciò che accade, procedendo con la testa nel sacco?

Venendo dalla Spagna constatavo la straordinaria somiglianza del paesaggio. In certi punti sorprendentemente identico alla costa del Mar Cantabrico.

Dopo l’occupazione tedesca della Francia e la nascita del governo di Vichy la situazione nel protettorato si era a dir poco complicata: non ci si poteva più fidare di nessuno. Alla vigilia della partenza dall’Italia, avevo letto notizie poco rassicuranti, si parlava addirittura di focolai di ribellione armata.

Le cose si sarebbero ulteriormente complicate dopo lo sbarco americano (8 novembre 1942): Darlan in Algeria, Estéva a Tunisidetenevano formalmente la rappresentanza francese e filo-tedesca, ma tolleravano la presenza delle truppe delle due armate francesi che combattevano a fianco degli Alleati: le Forces françaises libres del generale De Gaullee l’Armée d’Afrique, forte di 116 mila uomini, di Giraud, che fu per un certo periodo fedele a Vichy e antigollista.

Le truppe francesi di Tunisia passarono in massa dalla parte degli anglo-americani senza che il Residente muovesse un dito.

Ancora non riesco a spiegarmi come questa baraonda e il clima cupo, per l’incombenza della guerra che stringeva Tunisi, non siano sfociati disordinatamente in guerra civile: Arabi contro Europei, Italiani contro Francesi, militari contro civili. La guerra si svolgeva sul campo neutro dell’Africa, i contendenti avevano mandato a combattere i propri reparti migliori, i leader (Rommel e Montgomery, carismatici entrambi) erano avvolti da un alone di leggenda: a questi due campioni era in un certo senso demandata una sfida epocale.

Per comprendere inoltre compiutamente ciò che nel frattempo era accaduto, è necessario un breve accenno alla situazione degli Ebrei.

Avendo conosciuto personalmente persone di religione ebraica, – o israelitica, come allora si diceva – amici, professori, colleghi, alunni, mi era difficile crearmi una categoria astratta fondata su una differenza razziale.

Lo stesso Mussolini lo aveva recisamente proclamato: «Non esistono razze» e così come «non esiste una razza ariana (e dire che esiste è il più grande degli errori)», altrettanto «non esiste né tipo ebraico, né razza ebraica», perché «la stessa civiltà cosiddetta “ebraica” si integra perfettamente nella civiltà del mondo moderno».

Era diffusa però una varietà di razzismo che definirei “scientifico” sempre che di scientifico avesse anche solo la parvenza. Si trattava di raccomandazioni “eugenetiche” che mettevano in guardia dall’inquinare la nostra razza con una inferiore.

Ispirato a ponderatezza e anche buon gusto, un decreto beylicale aveva proibito fin dal 1939 la diffusione della rivista «Die Wehrmacht» [L’Esercito] e del settimanale nazista, antisemita e pornografico, «Der Stürmer» [L’Attaccante].

Non comprendevo il senso delle leggi razziali, italiane e germaniche - nella vicina Tripoli c’era addirittura una scuola italiana israelitica, ma proprio da lì vennero le prime notizie di aggressioni (sempre se si vuol credere, ma perché no?, all’«Italiano di Tunisi»). Intuivo per conto mio che forme drastiche di “discriminazione” avrebbero portato a un maggiore perturbamento sociale. Era comprensibile che saremmo stati colpiti a nostra volta da contromisure e discriminazioni a livello internazionale oppure da una immancabile nemesi storica.

Le prime avvisaglie di una qualche reazione erano assurde e sproporzionatamente vendicative. Durante le vacanze dell’estate del 1941, per fare un solo esempio, lessi un trafiletto del «Popolo d’Italia» che segnalava l’uscita di un libro scritto da un certo Theodore Kaufman, dove si propugnava la sterilizzazione totale del popolo tedesco.

Il console Salimbeni era ben al corrente della importanza del nucleo ebraico italiano, che andava ben oltre il relativo peso percentuale: pur essendo poco più di cinque mila individui, possedeva la metà circa delle ricchezze della comunità italiana. E perciò rappresentava un elemento di notevole coesione, identità e di difesa per l’intera colonia: permettere che gli Ebrei venissero espropriati dei loro beni o allontanati dalle loro professioni avrebbe minato alla base ogni aspirazione italiana sulla Tunisia (a tutto vantaggio di quelle francesi). E questo mentre i megafoni della propaganda martellavano «Tunisia! Tunisia!».

Oltretutto alcuni Ebrei erano fascisti ed avevano sostenuto la “rivoluzione”, avevano combattuto durante la guerra mondiale. Altri erano antifascisti e patriottici, “mazziniani” (come Giulio Barresi, presidente della Lega Italiana dei diritti dell’uomo, che pubblicava «L’Italiano di Tunisi»). Erano ben radicati nel paese ospitante, ma sognavano di abbattere il regime di Mussolini e introdurre la “democrazia” e il bolscevismo in Italia.

Gli Ebrei tunisini e i naturalizzati francesi, che mal sopportavano il fascismo - specie dopo il 1938 -, si trovarono a fare i conti col governo di Vichy, che il 3 ottobre 1940 aveva emanato lo Statut des Juifs; mentre gli Ebrei cittadini italiani che erano rimasti fedeli al regime si vennero a trovare in una situazione, se non migliore, sicuramente meno ostile. Dopo lo sbarco americano alcuni di essi ottennero la cittadinanza inglese.

Una direttiva segreta del Ministero degli Esteri disponeva infatti che «nei confronti di questi [scil. degli Ebrei con cittadinanza italiana] le leggi razziali potrebbero essere applicate con una certa tolleranza, aumentando i casi di discriminazione, in relazione alle benemerenze acquisite in Tunisia». I Tedeschi si riservarono di riconsiderare la questione a guerra finita, quando avrebbero preteso dall’Italia un comportamento generalizzato secondo le direttive germaniche.

Ma la Tunisia non era zona d’occupazione italiana, come la Croazia , la Grecia , la Francia Meridionale (dove l’Italia aveva “salvato” molti Ebrei in pericolo di vita), e perciò il governo poteva fare ben poco per la sorte degli Ebrei non italiani. Tuttavia «molti capitoli delle leggi razziali antisemite non vennero applicati in Tunisia, e ciò non solo nei confronti dei cittadini italiani, ma di tutta la popolazione ebraica locale. […] I risultati raggiunti dagli sforzi italiani per proteggere la popolazione ebraica tunisina costituiscono un notevole successo politico, uno dei pochi che l’Italia potesse vantare a quel tempo».

Dopo lo sbarco americano il comando tedesco (generale Nehring) richiese alla comunità ebraica un contingente di uomini da adibire a lavori forzati per la costruzione di fortificazioni lungo i vari fronti (Bizerta, Tunisi, fronte meridionale). La comunità stessa costituì un Comité de recrutement de la main-d’oeuvre Juive e provvide all’invio di circa 3/4 mila uomini. I Tedeschi giunsero perfino a richiedere un assurdo risarcimento di 20 milioni di franchi per i danni arrecati dai bombardamenti ai beni degli arabi! Gli ebrei italiani non furono rastrellati, né ebbero mai l’obbligo di portare la stella gialla.

Tutto questo e altro ancora mi raccontava la cara collega Nelly Soria. Era stata discriminata dall’insegnamento, ma per «generosa concessione delle patrie autorità», disse l’usciere del Consolato sputando per terra al sentir pronunciare il nome della “giudea”, poteva lavorare come guardarobiera nello scantinato del Consolato. Nel rivederla ci abbracciammo piangendo: sapevo del suo dramma, delle sue umiliazioni e della difficile situazione familiare e della dignità con cui tutto sopportava. Memore dei suoi preziosi consigli, tornai spesso a trovarla.

Quando cominciarono a scarseggiare i generi alimentari, grazie all’esperienza spagnola, ero sempre in grado di trovare carne, pesce fresco, pane. Se per lei riuscivo sempre a trovare qualcosa, come un mago che pesca da un cappello a cilindro, non così per i suoi colleghi di lavoro, che pur mi avrebbero pagato profumatamente.

Questi miei atteggiamenti di solidarietà spontanea e di fraterno aiuto venivano intanto segnati da Qualcuno che per i suoi disegni non usa di solito pagar di sabato: fà del bé e bütel an de l’Ói, al vé ’l dé che ’l he rebói (“Fai del bene e buttalo nell’Oglio, un bel giorno, ribollendo, verrà a galla”) diceva il proverbio, mille volte sentito e mille volte confermato.

Il mio impegno politico, la mia fede nel rinnovamento dell’Italia, la mia lealtà nei confronti dello stato, nei momenti delle “decisioni irrevocabili”, cedevano il passo alla carità cristiana, all’amorevole soccorso dei più deboli, di coloro che erano ingiustamente, arrogantemente vessati.

Diamine! Est modus in rebus!

L’estate del 1941 fu davvero memorabile.

Cominciai il 19 giugno – ero ancora a Tunisi – coll’inviare una richiesta di mobilitazione alla MVSN di Brescia: dopo aver adempiuto al mio dovere di educatore fascista volevo compiere anche il mio compito di fascista combattente. La domanda non venne però accolta. Non mi rimaneva che trascorrere le mie abituali vacanze, come già avevo fatto l’anno precedente.

All’inizio di agosto lessi dai giornali della morte di Bruno Mussolini, caduto durante un volo sperimentale. E riandai con la memoria al gennaio di tre anni prima, quando aveva conquistato cieli e folle con la sua impresa.

Intanto, nella chiesa quattrocentesca di Santa Maria, allora in deplorevole stato, col tetto che minacciava di crollare e gli affreschi in completo abbandono, minacciati dall’umidità, ricoperti di polvere e di fumo, erano iniziati i lavori di restauro degli affreschi del presbiterio e dell’arco trionfale, affidati al maestro Ottemi della Rotta, che si trovava a Esine come sfollato (una delle figlie era scolara di Garitì).

Ricordo benissimo che il grande affresco della Crocifissione dipinto sulla parete di fondo dell’abside era coperto da uno strato di calce, così che nessuno se lo sognava. Si vedeva solo un frammento della bardatura di un cavallo sul lato sinistro. Don Sina aveva scovato il contratto di committenza e le relative ricevute di pagamento, era perciò certissimo che sotto la superficiale scialbatura si celasse un’opera d’arte straordinaria da riportare alla luce. Rimossa fin dal 1934 l’ancona settecentesca con la pala dell’Assunta, si poteva ammirare la grandiosa Crocifissione, in tutto simile alle altre, dell’Annunciata e di Bagolino.

La vicenda del povero Simonino da Trento, raffigurato in alto sulla parete destra della chiesa, pur nel vortice dei rimandi in cui mi attirava, mi sembrava attuale più che mai, mi induceva a riflettere, mi ammoniva a non eccedere. Era sì importante la lealtà verso lo Stato, verso il partito, il ruolo e quant’altro. Ma di fronte agli eccessi, che così apertamente stridevano con l’esperienza personale, con la realtà delle persone che avevo conosciuto, non potevo se non muovermi con misurata prudenza.

Andavo spesso, durante quell’estate, a dare un’occhiata e mi intrattenevo a lungo col caro amico don Sina: fin dal 1908 aveva attirato l’attenzione degli studiosi su Giovan Pietro da Cemmo. Aveva trovato nei signori Renato e Marina Buelli di Lovere («benemeriti pionieri dell’industria del cemento sul lago d’Iseo») - cui era unito anche da vincoli di parentela -, e nella famiglia di Francesco Rusconi di Esine dei generosi e partecipi sostenitori. I signori Franchi di Marone avevano invece fornito i mezzi per il rifacimento del pavimento della chiesa.

Rimasi molto colpito da quel clima di lavoro fervido, di sfida, di liberalità profusa senza pensiero di tornaconto alcuno, di progetto audace (molti, non troppo bonariamente, davano addirittura del matto al cüràt de la Madóna perché pretendeva, da solo e senza aiuto, di rimetter tutto a nuovo). Penso che da lì, da quell’esempio, appresi a sostenere quelle iniziative e soprattutto quelle persone che avessero bisogno di un aiuto «largamente e nascostamente caritatevole».

Rientrato a Tunisi, mi dedicai con maggior lena al mio lavoro.

Nel frattempo si era sparsa la voce che fosse imminente la pubblicazione del bando di concorso per direttori didattici. Il buon Vittorino, dalla sua postazione privilegiata, mi teneva costantemente informato e mi aiutava con utili ed efficaci consigli.

Durante l’estate del 1942 passai alcuni giorni di meritato riposo a Esine: una fotografia mi ritrae con alcuni amici mentre nuoto nel Laghetú. Sostenni poi – e questo era il principale motivo del rientro – le prove del concorso per Direttore Didattico. In quegli stessi giorni (23 agosto), un segno premonitore annunciava la fine di un’epoca: un bresciano, il colonnello Alessandro Bettoni, a Isbuschenskij, comandava l’ultima carica del Savoia cavalleria.

Verso la metà di ottobre furono pubblicati i risultati: avevo superato il concorso, 12° in graduatoria. Ero direttore.

Rientrato nel frattempo a Tunisi dopo le vacanze estive, mi fu assegnata una prima elementare di ben sessanta alunni. Grazie a un collega non rientrato per paura della guerra, mi furono aggiunte tre ore pomeridiane di italiano, storia e geografia, non retribuite, presso il nostro liceo.

Dato il posto occupato in graduatoria ritenevo imminente la nomina a direttore in prova in una sede metropolitana, cioè contavo in un imminente rientro in Italia, e non protestai. Anche perché in quella situazione, l’essenziale era il buon funzionamento della scuola. In secondo luogo in città avevo molti buoni amici; ottimi rapporti stavano nascendo anche con le famiglie dei liceali.

Contro ogni aspettativa, il 15 ottobre, un telegramma cifrato del Ministro degli Esteri mi nominava direttore didattico a Le Kef, la Sicca Venerea dei Romani, una cittadina sulle alture quasi ai confini con l’Algeria. Molti alunni delle scuole di Tunisi vi passavano in colonia i mesi estivi.

La sospirata nomina mi costò una bottiglia di champagne ai colleghi, ma fu anche l’occasione per una burla ai loro danni: sul telegramma di nomina, feci aggiungere, prima della firma di Ciano un noncurante «Tuo», lasciando intendere che il Ministro, che avevo incontrato e conosciuto in Spagna, mi considerasse della cerchia dei suoi amici. Quando mi parve che lo scherzo fosse durato abbastanza e mi ero confermato che i colleghi, non tutti, nei confronti del potere avevano un atteggiamento esageratamente ossequioso e servile, confessai la burla. Mi si scagliarono addosso, solo pochi infatti si erano gustosamente divertiti.

Il provveditore, prof. Giuliano Giulianini, mi chiese di restare per qualche tempo, dicendo che mi considerava come il prezzemolo, di utile impiego per ogni necessità. Lusingato dal paragone, accettai la proroga di buon grado, ma fui altrettanto fermo nel porre come termine le vacanze di Natale. Prendendo servizio a Le Kef avevo intenzione di andare a sciare sui vicini monti dell’Atlante!

Vale forse la pena ricordare, di passaggio, che per due anni era stato direttore a Tunisi un collega, più noto come scrittore che come uomo di scuola: Francesco Jovine. Ho la sensazione che abbia avuto le sue brave difficoltà: sicuramente antifascista, non poteva certo mostrarlo nella sua posizione; nella selva di relazioni coltivate quasi solo per ottenere dei privilegi, che si riscontra spesso nell’entourage dei consolati, penso si sia trovato come un pesce fuor d’acqua.

Il direttore di Le Kef era stato nominato come reggente. All’arrivo del direttore effettivo avrebbe dovuto cedere il posto. Sarebbe stato molto imbarazzante per lui, così ben introdotto presso le autorità francesi locali. Il giorno 7 novembre scese a Tunisi e mi supplicò di ritardare di un paio di mesi l’arrivo a Le Kef: in cambio del favore mi avrebbe dato quanto avessi chiesto. Molto bruscamente, com’è nella mia natura, gli dissi chiaro che in questo modo non ci saremmo assolutamente intesi. Lo assicurai che sarei subentrato a Natale; nel frattempo avrebbe dovuto prepararmi una dettagliata relazione sulla situazione delle scuole della città.

Quella stessa notte sull’otto novembre gli americani sbarcarono in Marocco e Algeria, mentre le forze armate tunisine si schieravano con gli Alleati e le truppe del Generale De Gaulle si disponevano a dar loro man forte.

Il povero direttore fu catturato e, con i maggiorenti della colonia italiana, internato in un campo di concentramento fino al termine della guerra.

Lo sbarco alleato aveva fatto rientrare in tutta fretta le nostre autorità e quanti avevano potuto trovar posto sui piroscafi. Provenendo dalla Spagna, mi sentivo sufficientemente vaccinato per non allarmarmi più di tanto: con animo tranquillo e pacato preferivo attendere i fatti.

Nel contempo truppe e rifornimenti – insufficienti – venivano inviate in Tunisia.

E mi capitò una domenica sera di fine novembre di cenare con due militari di Orzinuovi, riconosciuti dalla parlata dialettale. L’anno successivo avrei avuto occasione di rievocare con uno dei due (il secondo era ancora trattenuto in prigionia dagli Inglesi) i drammatici momenti di quel “lontano” novembre 1942.

Poche ora più tardi, come al solito era una notte di luna piena, iniziò il bombardamento dell’aeroporto di El Aounia. Per tutto il mese di dicembre il porto e la città furono presi di mira. Più tardi, il 3 marzo l’avenue Jules Ferry verrà bombardata dagli anglo-americani; morirono oltre 300 persone, uscite per strada a dare il benvenuto agli aerei.

Il 12 dicembre, a poche miglia da Capo Bon gli incrociatori Da Barbiano e Da Giussano, impiegati per il trasporto veloce di carburante, furono affondati da quattro caccia inglesi. Il carburante fuoriuscito si incendiò e dei poveri marinai, chi non annegò fu seriamente o mortalmente ustionato. I naufraghi furono accolti negli ospedali di Tunisi e in un nostro ex-convitto scolastico a Radès. L’ospedale italiano «Garibaldi» non brillava per efficienza e gli ospedali militari erano insufficienti. Fra i naufraghi era un cannoniere di Coccaglio e un giovane tenente di vascello con gravissime ustioni. Quest’ultimo era tormentato più dal rimorso di aver abbandonato un compagno ferito che dalle ustioni. Morì dopo tre giorni di strazianti sofferenze.

Nelle mie Memorie ho scritto che si trattava dell’incrociatore leggero Montecuccoli: la fama delle sue imprese anche dopo la guerra deve aver giocato un brutto tiro alla mia povera memoria di quasi ottuagenario.

Nel frattempo l’attività scolastica era stata interrotta. E nell’impossibilità di poterla riprendere in città, sotto i continui bombardamenti, decisi, in qualità di direttore didattico – e in assenza anche di superiori autorità, bellamente rifugiatesi in Italia – di trasferirmi nella scuola di Hamman Lif, sede anche della Casa d’Italia, del Dopolavoroe della Croce Rossa (grazie ad essa potevo prelevare viveri e generi di prima necessità - i Tedeschi avevano requisito tutto fin dall’inizio); la città era stata riconosciuta residenza del bey e perciò non era bersaglio di bombardamenti. Era comunque un crocevia importante. La divisione Superga si era saldamente acquartierata nella regione circostante e controllava le grandi direttrici viarie. La stessa divisione aveva avuto incarico di reclutare cittadini italiani per costituire unità di complemento. Il compito non era difficile, perché i nostri soldati erano visti come liberatori.

La voce del trasferimento si era diffusa molto rapidamente. I colleghi che non erano potuti rientrare in Italia o non avevano potuto sfollare in campagna, trovarono vitto e alloggio presso la scuola. La convivenza fra le diverse famiglie fu sin dall’inizio molto problematica. Talché decisi di cercare altrove un alloggio per me, onde lasciare a disposizione la stanza che occupavo. Trovai una camera nella villa di tale mister Douglas, lungo la strada del monte Bou Kornine, la meta delle mie prime gite domenicali. La situazione d’emergenza durò solo poche settimane. Nell’imminenza del Natale si riaprì lo spiraglio dei rimpatri ed entro i primi di febbraio tutte le famiglie (44 persone) se n’erano andate, salvo tre, che avevano avuto la casa danneggiata in un bombardamento, ospitate sul palcoscenico e sul loggione del teatro del Dopolavoro. In tal modo potei ritornare nel mio alloggio, una stanzetta al primo piano. Dalla scuola «Principe di Napoli» era con me anche il fedele bidello Tahar; dormiva nel ripostiglio del terrazzo facendo così anche da custode. Gli sono molto riconoscente per il grande aiuto che mi ha dato.

D’intesa col Consolato – che nel frattempo aveva ripreso le sue funzioni – durante il mese di gennaio abbozzai un piano di attività scolastica che sarebbe dovuto durare almeno quattro mesi, con tanto di programmi mensili e, perché no?, un saggio ginnico-corale a fine anno: cinque classi elementari miste (con 254 alunni, alcuni provenienti anche da scuole francesi) e tre classi per la Media. Le cinque maestre erano al quinto anno di incarico provvisorio all’estero: il servizio di quest’ultimo anno avrebbe permesso loro di accedere ai ruoli metropolitani.

Riuscii a tenere anche un sommario protocollo della corrispondenza, fin dal primo giorno di inizio delle lezioni, il 9 febbraio 1943. Nella prima lettera chiedevo al Preside delle R. Scuole Italiane della Tunisia «di ricorrere alle autorità competenti al fine di ottenere ad Hamman El Lif l’istituzione di un comando di tappa». Infatti, nella Casa d’Italia, quasi ogni sera, venivano a chiedere asilo soldati italiani o tedeschi che, viaggiando con mezzi di fortuna e, sorpresi dalla notte ad Hamman Lif od in località viciniori, erano indirizzati alla Croce Rossa per passare la notte.

L’orario osservato dalla scuola era il seguente: Ingresso in cortile ore 13,30 - Entrata in classe ed inizio delle lezioni ore 13,45. - Fine delle lezioni ore 16,30. Al mattino le aule erano occupate dalle tre classi della Scuola Media.

Non appena riuscii a organizzare anche la refezione scolastica (2 marzo) le prime due classi avevano lezioni anche al mattino. Sono particolarmente contento di aver potuto organizzare anche la refezione. Consistente in un abbondante e sostanzioso piatto di minestra veniva consumata nel salone del teatro, in un ambiente veramente decoroso ed allegro. Per eliminare sia pure il richiamo alle tristi tavolate delle mense per poveri ed abbandonati, avendo a mia disposizione tutto lo spazio richiesto, avevo distribuito i singoli tavolini ben distanziati l’uno dall’altro, destinandovi 4 alunni per ognuno. Tale armonica e razionale distribuzione che ricordava quella di un grande ristorante moderno, aveva una sua innegabile importanza educativa nella formazione della personalità dell’alunno, del senso di responsabilità e di autodisciplina individuale.

La scuola aveva ottenuto dalla CRI , la distribuzione di oltre 40 paia di scarpe, 35 paia di calzoncini e 60 giacche di lana a maglia. La GILE dal canto suo aveva inviato altre 20 paia di scarpe. Il Comando GILE di Tunisi aveva anche fornito in prestito 159 grembiuli, dietro una cauzione di 20 franchi.

Il lunedì sera ed il sabato, tempo permettendolo, aveva luogo la cerimonia dell’ammaina-bandiera.

Gli alunni furono prontamente forniti di libri e di quaderni, grazie al sollecito interessamento del Comando GILE .

Ogni Insegnante – scrivevo nella relazione del 14 marzo al Preside –, sia per preparazione professionale che per entusiasmo posto nell’insegnamento e nelle attività complementari della scuola dà il massimo affidamento.

Oltre all’impegno di direzione e organizzazione della scuola elementare, facevo funzioni di preside e insegnavo alla scuola media per complessive 16 ore settimanali: 12 ore in prima media, insegnando materie letterarie (italiano e latino) e 2 ore in seconda e in terza insegnando storia e geografia. Ero coadiuvato da professori locali e dall’anziano (era vicino ai settanta) ma validissimo professore Gaspare Aragozzini.

Il 23 marzo il Console venne in visita alla scuola. Fui davvero orgoglioso poter mostrare che ogni cosa stava funzionando alla perfezione (avevo inoltre sottoposto tutti gli alunni a una necessaria visita medica: scabbia, tracoma, tigna; denutrizione)

Ho conservato una lettera scrittami da Vittorino in quei giorni, che mi è una autentica testimonianza di affetto e di sincera amicizia:

Brescia, li 17/3/1943

Carissimo Oberto,

Puoi pensare con quali sentimenti, in questi mesi, ti abbiamo ricordato.
Ho avuto più volte tue notizie da tua sorella, ed anche ieri una telefonata.
La prima linea della scuola coincide con la prima linea del fronte.
Su tutt’e due ti trovi a combattere da buon soldato.
Tutti ti ricordiamo e ti siamo vicini col cuore.

Con grande affetto.

Oltre tutto questo, nonostante ben tre solleciti, da due mesi e mezzo la Banca d’Italia non mi trasferiva lo stipendio sul conto che avevo presso la banca Italo-Francese di Credito di Tunisi. Probabilmente riteneva imminente il mio rientro, ma fin da gennaio avevo precisato che a differenza di molti insegnanti di Tunisi che rimpatriavano, io sarei rimasto al mio posto e in servizio. Il Ministero era anche riuscito a combinare un bel pasticcio con la determinazione delle mie indennità.

Ma pure dalle retrovie “pacifiche” in cui mi trovavo, vedevo con tutta evidenza che il piombo migliore era ancora la carne dei poveri cristiani. Potevo solo immaginarmi gli orrori. Mi chiedevo, come si poteva abbandonare al proprio destino un’armata intera, votarla al macello sicuro, lasciarla senza armamento, perfino senza benzina; costringendo migliaia di giovani uomini, la prima generazione interamente fascista, a farsi scudo col proprio petto, letteralmente.

Questo mi raccontavano i soldati che capitavano alla scuola: il bersagliere artista nel trafugare mansueti capretti dalla mensa ufficiali; il galante motociclista Scarsi che imprecava se i bombardieri ritardavano perché in tal modo non poteva prestare “aiuto” alle giovani impaurite; il mitragliere Jim Faccchetti di Travagliato e tanti altri. E ascoltandoli, pur così parchi di parole, montava dentro di me una rabbia che mal contenevo: mentre questi magnifici giovani si offrivano con totale dedizione al proprio dovere, in Italia, immenso populo teste , una peste morale, un disfattismo vergognoso stava distruggendo i valori patriottici che per un breve tratto della sua storia l’avevano resa grande nazione.

Talvolta capitava che qualche aereo nemico sorvolasse radente la scuola e le case sventagliandole con la mitragliatrice. Allora i bambini di quarta e la loro maestra, che già era rimasta per tre ore sotto le macerie, venivano a rifugiarsi nella mia stanzetta. Li incoraggiavo con sorrisi, bonari predicozzi e con carezze: meglio di me sapevano cosa poteva significare un’incursione aerea.

Fu proprio a causa delle frequenti incursioni aeree che la scuola venne chiusa in anticipo, il 12 aprile. Il giorno prima ben 15 Junker tedeschi che trasportavano profughi italiani erano stati attaccati dai caccia americani. La metà circa fu colpita e precipitò in mare: vi furono circa 400 vittime civili. Cosicché quasi nessuno osava più presentarsi all’aeroporto per tentare la trasvolata.

Il giorno 13 aprile, fra le lacrime d’addio del fedele Tahar, mi diressi al campo d’aviazione di El Aounia. Con me erano il prof. Aragozzini con la nipote Maddalena, il prof. Gianni Dalla Pozza e il prof. Giulianini e altre cinque persone. Sulla pista squadre di sterratori, rastrellati nel quartiere ebraico, nella mezz’ora fra un passaggio e l’altro, ricoprivano le buche provocate dai bombardamenti aerei.

Sull’aereo che sorvolava il Canale di Sicilia riportandomi a casa, mi ritornava insistente la domanda se i nostri soldati non avessero dato la loro vita per astratti splendori, per un duce lontano dai campi di battaglia, tradendo il proprio nome: e una associazione di parole, assurda e ricorrente, mi riportava alla Spagna dell’inquisizione e al saio penitenziale dei condannati, il sanbenito. I prigionieri tedeschi stracciavano la fotografia del loro Führer, del loro condottiero, perché non lo era più, perché li aveva condotti alla disfatta. Il mitragliere del nostro Junker aveva con sé un libro di poesie di Goethe: non Walkirie, non eroi Wagneriani rasserenavano quel giovane animo nell’imminenza dell’apocalittica Götterdämmerung che si andava profilando. Les dieux s’en vont!

E finiva anche il sogno di una Grande Italia mediterranea con la Tunisia , la Libia , il Dodecaneso, l’Eptaneso, Malta, la Corsica. Sul giornaletto delle vacanze della Colonia XXVIII ottobre per i figli degli Italiani all’estero un rappresentante del GUF di Tunisi tre anni prima aveva scritto:

Io vorrei immedesimarmi, poter godere, leggere, nel cuore di ogni operaio, di ogni artigiano e di ogni agricoltore, che con il duro lavoro e la costanza ha fecondato e domato questa ribelle e ubertosa terra africana, la gioia di vedere la loro opera non sacrificata e sfruttata dallo straniero, ma riconosciuta e utilizzata al profitto e al benessere della Patria adorata. […] Io immagino Tunisi, tutta bianca, le vie formicolanti di gente felice che si avvia verso il corso principale dove avverrà la sfilata militare. Tutti i volti sono accesi, trepidanti, quasi trasfigurati. Un bandierone tricolore sventola su quella che sarà stata la “Porta di Francia”, una massa enorme di soldati in grigio-verde che sfila a ranghi serrati per il corso principale al suono di una nostra marcia militare. Uno stormo di aeroplani romba nel cielo azzurrissimo sollevando un cantico glorioso per tutto l’azzurro. Sarà quella un’ora, un giorno che rimarrà per sempre nel cuore di ogni tunisino.

Deluso, disorientato, rammaricato, rimanevo sospeso in questi pensieri, come venti di cupa burrasca che increspavano d’onde spumose l’acqua del mare.

Ma sentivo tuttavia, nel più intimo di me stesso, che la mia fede non ne era intaccata. Non saprei dire se fu più fortuna, provvidenza

o incoscienza, i fatti degli ultimi mesi me n’avevano dato certezza: la mia fede mi aveva salvato, era stata la spina dorsale del mio agire, la forza del mio animo, il fondamento della mia convinzione, l’essenza di quel che ero diventato.

Il giusto vivrà per la sua fede, sta scritto infatti nella Bibbia.

Non ero abituato a fuggire, non l’avevo mai fatto in vita mia: quell’ultimo volo da El Aounia significava - ne avevo sicuro presentimento - la fine di un’era, una svolta nella mia vita.

Sorvolata la costa settentrionale della Sicilia, verso mezzanotte atterrammo all’aeroporto di Reggio Calabria.

Era il 14 aprile: in coincidenza perfetta, che meglio non si sarebbe potuto predisporre, ultimavo il semestre come direttore didattico in prova. E che prova!

Gli alleati entrarono in Tunisi alle 16.45 del 7 maggio. Il Comando tedesco (generale Schnarremberg), pur avendo predisposto un accurato piano di difesa, non tentò la pur minima difesa, né diede ordini al presidio italiano: gli Anglo-americani troveranno soldati tedeschi e italiani oziosamente seduti ai tavolini dei caffè. Nel frattempo, la 26th Armoured Brigade attaccava Hamman Lif.

Testimone d’eccezione degli ultimi tragici giorni della campagna tunisina, oltre ai nostri Giuseppe Berto e Gaetano Tumiati, è André Gide. In appendice alle Interviews imaginaires pubblicò alcune pages de journal che sono un densissimo e straordinario resoconto della “liberazione” di Tunisi.

7 maggio . – Esplosioni e incendi per ogni dove ai margini della città. Ho contato più di venti focolai. Non sono dovuti all’aviazione americana: i Tedeschi, incalzati, prima di evacuare la città fanno saltare i loro depositi. È il loro modo di far fagotto. Dense fumate oscurano tragicamente il cielo. Verso sera gli incendi si moltiplicano. Grosse nuvole nere ricoprono la città. Attraverso il rumore incessante delle esplosioni, si sentono mitraglie vicinissime crepitare in modo strano. Inizia a piovere. Le grandi arterie che si incrociano sotto la nostra terrazza, così animate nei due giorni scorsi per il continuo andirivieni di carri, di tanks, di veicoli d’ogni tipo, sono al momento deserte. Si sono svuotate all’improvviso; il loro silenzio è impressionante.

8 maggio – […] Questa mattina, svegliato all’alba da un rumore sordo, indistinto, continuo; come il fragore di un torrente. Mi rivesto in fretta e subito vedo avvicinarsi i primi carri alleati e la gente delle case vicine scesa in istrada li sta acclamando. Si fa fatica a credere che quel che si stava aspettando da tanto tempo è successo: che loro sono qui ; non si ha ancora il coraggio di crederci. Sarà vero? Finita la resistenza, le battaglie, i combattimenti? … È finita: sono arrivati! Ma la meraviglia aumenta ancor di più quando si viene a sapere dai primi liberatori che vengono interrogati che questi carri, questi soldati sono quelli dell’Armata; quella stessa che era creduta trattenuta alle porte di Zaguan; questo esercito glorioso arrivato fin qui dalla frontiera dell’Egitto, dopo aver ripulito la Libia, la Tripolitania, trionfato sulla Linea Mareth, sulla Linea dell’Oued Akarit e dei quali si sono seguiti giorno per giorno l’avanzata nel sud della Tunisia. Come hanno fatto ad essere i primi? Di dove sono arrivati? Sembra un miracolo. Si erano immaginate la liberazione e l’ingresso a Tunisi in molte maniere, ma non così. In fretta allaccio il sacco, la valigia e mi dirigo verso il Corso Roustan: non c’è più motivo di rimanere nascosti. Tutti coloro che ieri erano braccati, oggi escono dall’ombra. Ci abbracciamo; ridiamo, piangiamo di gioia. Questo quartiere lo si credeva popolato quasi solo d’Italiani, ma ora sfoggia bandiere francesi quasi ad ogni finestra. Velocemente, prima di lasciare la mia topaia, mi rado la barba di quattro settimane, poi scendo coi compagni di prigionia per la strada dove non si erano fatti vedere da sei mesi. Ci inoltriamo nella città in delirio. Da notare: in questa città dove si parlavano tutte le lingue, oggi si sente parlare solo francese. Gli Italiani non parlano, si nascondono, e pochi sono anche gli Arabi. […] Non stanno nascosti, ma, per così dire, non partecipano per nulla alla festa, rimangono buoni buoni, confinati nel quartiere arabo. Per modo che questo brulichio trepidante di folla acclamante è composto per la maggior parte (e in alcuni quartieri quasi totalmente) da Ebrei. Tutti gridano Viva la Francia! Non appena un carro si ferma, viene circondato, assediato da un’orda di folla; alcuni ragazzini vi salgono e prendono posto accanto ai trionfatori. E, come segno di conferma del cielo, tutte le nubi di ieri sono scomparse; c’è un tempo splendido.

10 maggio – […] Una resistenza disperata è stata tentata a Hamman-Lif, e durante tutta la mattinata del giorno 8 si sentiva tuonare il cannone, poi anche quest’ultima sacca di resistenza è stata sgominata dalle raffiche dell’artiglieria. […] [I bollettini di guerra tedeschi] avranno ancora il coraggio di “minimizzare” la disfatta subìta come hanno fatto con Stalingrado? Ad ogni modo, questa riconquista del litorale africano per tutta la sua lunghezza minerà il morale alla Germania. Già minato dai successi in Russia, comincia a intravedere, ormai, a presagire il crollo delle proprie speranze.

13 maggio – […] La strada è sbarrata da una fila interminabile di autocarri e di carri, carichi di prigionieri tedeschi che arrivano da Hamman-Lif dove ieri si è avuta una tremenda battaglia, prima della resa delle truppe dell’asse.

 


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Ultimo aggiornamento 18 marzo 2010

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