Kazantzakis, Odysseia (Canto X, 96-257)

Nikos Kazantzakis, Ὀδύσσεια - Odysseia XXI, 1049-1241

Cigno nero

 

 

[durata 18:31]

         Dorme l’Arciere e sogna come d’esser partito alla caccia.

1050 Il leopardo, come un cane da lepri, lo segue agitando la coda per gioco;
         ad ogni passo si allunga pure la terra, muta il mondo il suo aspetto,
         i cipressi son fioriti di rose, il cedro si veste di gigli,
         tutte le pietre nere profuman di brocche-di-gelsomino.

         Le fiere camminan per due, come asceti nella foresta
1055 e gli uccelli, come demoni buoni, cinguettan nella luce.

         Il corvo si ferma ed al merlo fa un cenno; vanno insieme
         a bezzicar grappoli d’uva su un tralcio ricurvo pel peso.

         Il sole con agio si posa sul gambo verde d’un girasole
         e sorride ammiccante alla terra, palpitando-d’amore.

1060 D’un tratto intravede un gran cervo infrascato tra i vèpri (1),
         s’inginocchia l’irsuto, tende il suo arco notturno
         e affonda nella morbida gola il coltello alettato.

         Il cervo dà un sospiro, come fosse persona, le ginocchia gli cedono;
         e quando l’Arciere gli tocca le corna ramose,
1065 l’animale ferito volge in alto i grandi suoi occhi;
         scorron lacrime a terra come polla sorgiva, ansio (2) il petto sospira;
         con muta pena mira negli occhi il suo uccisore.

         Il gauro (3) cacciatore ha un fremito, s’erge attenta la mente:
         anche lui come un cervo, che misteriosa una lama abbia appena ferito.

1070 A lungo, senza una parola, i due fratelli si guardano e piangono.

         «Ah! s’è sviata la freccia e mi ha colpito alla gola!»

         Goccia dopo goccia l’amarezza ancora stillava nel cuor dell’Arciere,
         ma gauro il leopardo balza di scatto sulle viscere fumanti;
         e d’improvviso s’erge nella mente del cacciatore la fame.

1075 Balza pur egli, afferra e strappa al leopardo dai denti
         il grasso coscio del cervo, e rapido lo getta sopra le braci;
         si siede a gambe incrociate per terra e non ne lascia che l’osso.

         E dice, forbendo le labbra e i grossi mustacci:

         «Una tigre molto grande regge il mondo quaggiù!

1080 Carne più buona e saporita di questa giammai ho gustato!»

         Ride e strappa le corna come spade attortigliate.

         A poco a poco tutto si spegne, tutto si cancella nella sua mente;
         e non altro rimane, nella nera notte squarciata sull’oscurità,
         che due mani albicanti (4) che intagliano un nuovo arco di morte.

1085 Il sole batte sugli occhi gravati del cacciatore:
         si alza in piedi, come rondini zinzilulan le corde del suo cervello,
         come ancora stringesse l’arco invisibile con cui combatte Caronte.

         Per l’intera giornata il deicida si aggira in caccia del cervo
         con le lunghe corna, cresciute diritte nel suo sogno;
1090 a sera rientra, – vuoto il carniere –, senza cena, senza pusigno (5) si corica.

         Ma ecco, il cervo s’avanza di nuovo nella selva del sogno;
         lentamente, fieramente, s’avvicina al cacciatore e chinandosi,
         gli lecca con la lingua rugosa le mani incrociate.

         L’Arciere sente il cervo e l’ardente sua alena (6);
1095 non un gesto le mani rugose, per non spaventarlo,
         ché fuggirebbe di nuovo nelle impenetrabili nere foreste del sonno.

         Solo il suo spirito delira e in segreto lo implora:

         «Se sei un demone, aiutami diman a bruzzico (7) nella mia caccia.

         Se sei un incubo capitato per caso, uno sbuffo e svanirai.

1100 Non voglio macchiare in mio cuore coll’aure etesie (8) dei sogni.

         Ma se, amico, sei cervo davvero, fermati, ti prego,
         non fuggire, perché ho bisogno di te, diverrai un bell’arco…

         Vieni, ti apro le braccia, stringiamoci nel bacio fraterno».

         Disse così e socchiuse le palpebre, e il sacro elafuro (9) del sogno sparì.

1105 Ma quando alza gli occhi verso la luce, pensando fra sé
         dove andare per scovare il gran cervo,
         sul pino, dove ogni mattino il popolo appende le offerte,
         scorge le corna gladio-palcute (10) di un gran drago-cervo.

         Balza in piedi con furia; che non s’adombrino e fuggan di nuovo.

1110 Ma i pugni afferran dicatti (11) le corna del cervo
         gocciolanti di sangue addensato, ancora grondanti di grigia materia.

         L’Arciere salta di gioia, pieno di speranza; molto bello gli parve
         il segno or sorgiunto dai liti d’abisso del sogno.

         S’asside sulla sabbia raccolto; e le mani perite,
1115 abili e forti si metton all’opera per fabbricare il nuovo suo arco.

         Mentre lavora, s’odono levarsi vicini dei canti di mare;
         l’Arciere volge lo sguardo verso la riva,
         e vede dei pescatori che tiran le reti, fulgenti nel sole
         e il lento canto di lavoro allevia la loro fatica.

1120 Tesano i sugheri un dopo l’altro, raccolgon le reti;
         è grave fatica, il canto gioioso esala in rapido spiro;
         il vecchio Atleta risente nel fondo del petto una pena,
         come se anch’egli, in squadra con loro, da lungi tirasse le reti (12).

         Scintillan laggiù le scaglie d’argento, le reti sgocciano schiuma
1125 con gli occhi sgranati nel sole si dibattono i pesci.

         La spiaggia tutta odora di buono, i pescatori si siedono stanchi;
         hanno fame, preparano i fuochi, in una canna infilzano i pesci;
         si sfregan le mani ridendo: le fatiche son ben ripagate:
         sette anime gagliarde han faticato, sette famiglie mangeranno!

1130 Un fior di ragazzo snello e sdutto, con occhi ardenti di cerva,
         leva verso il cielo le sue braccia sottili e dice:

         «Benedetta la grazia di Dio, Padre immortale!
         Con amore ha creato il mare e i pesci.
         Lui ha fatto traboccare le nostre reti, ha reso felice il nostro cuore.
1135 Levate le mani in alto, fratelli miei; chiamatelo: Padre!»

         Le mani callose si levano, ancor gemicanti (13) di mare.
         Collo sciabordìo della risacca, s’ode un richiamo dolcissimo.

         Intima gioia e quiete profonda si diffondono sul volto del giovane uomo:

         «Fratelli, come è mutata la terra, come s’è raddolcito il nostro cuore!
1140 Con un tozzo di pan secco si sazia il nostro corpo,
         una sola buona parola e si dissipa l’affanno.

         La nera terra cambia d’aspetto: è come un gran nido;
         si schiude aprìca nel sole e rallumina la notte
         innumerevoli piccoli becchi si protendono aperti all’intorno;
1145 e tutti, affamati, guardano al cielo e pispigliano (14) al Padre.

         L’azzurro cielo è la nostra casa, la terra il sentiero,
         siam tutti fratelli, siam tutti in cammino per giungervi a sera.

         Coraggio, fratelli, già sento il cielo che s’apre!»

         Ma uno di quei pescatori, baldo, rude, bazzuto (15)
1150 stringe i pugni e aggrotta le ciglia di collera:

         «Nel mondo, fratelli, regna ancora la più nera ingiustizia.
         I buoni patiscon la fame su questa puttana di terra, e i cattivi son sazi.

         Non riesco a dormire; la notte salgo in terrazza
         e guardo le stelle: i miliardi di fuochi che mi ardono in testa:

1155 “Holà, spiriti della spada – gemo –, è tempo che discendiate sulla terra!”»

         Armoniosa si leva la voce del pescatore di anime:

         «Gli spiriti son già discesi, fratelli, camminano sulla terra.
         Ma non hanno spade alle mani, né fiamme nel loro cuore;
         hanno una buona parola sulle labbra, hanno aperte le braccia.
1160 Con amore, a poco a poco, la terra si unirà al cielo.»

         Ma gorgoglia e s’affolta (16) il cuore dell’uomo dalla mascella prognata (17).

         «La parola disarmata non potrà mai combattere
         contro la spada a due tagli dell’ingiustizia e uscir vittoriosa.
         Molto mi piace la buona parola, ma con la spada in mano!»

1165 Di nuovo si ode la voce soave, dolente d’amarezza:

         «Da molto tempo, fratello, vivo con te, ma ancora non mi conosci!»

         Tace e abbassa tristemente il volto verso la sabbia.

         Allora un vecchio dai riccioli grigi-come-scaglie-di-pesce concilia i pareri:

         «Io penso fratelli, che nessuno può entrare nella casa del Padre,
1170 se non con la buona azione nella mano, impugnata come una spada.
         Bussa alla porta con quella spada, e il padrone,
         di buon grado o meno, si alzerà per aprirti subito la porta.»

         Si ode ancora una volta la voce soave, le onde si tacciono:

         «In forma di fola, fratelli, vi dirò la pena del mio cuore:
1175 il pensiero, anche il più alto, passa di moda, i regni declinano,
         ma non svanisce il mito, non muore mai la leggenda.

         Un giorno, un grande eremita morì nella sua grotta
         e salì al cielo, prepotente, stringendo nella mano,
         come una lunga spada, la buona azione di tutta una vita intemerata.

1180 Da padrone bussò forte alla porta del Padre.

         “Chi bussa con tanta pretesa al mio grande portone?”

         “Sono io, il grande asceta, che busso alla tua porta, aprimi!”

         “Quali grandi azioni hai compiuto, quali gioie hai goduto nella tua vita,
         perché ora tu venga, con una spada, a bussarmi alla porta?

1185 “Ho osservato tutti i tuoi comandamenti, ho seguito la tua via,
         non ho mai peccato né in atti, né in parole,
         ho dato da mangiare agli affamati, ho dato le mie ricchezze ai poveri,
         non ho toccato né vino né donna. Nel cuore della notte
         levavo le mani verso il cielo santo e gridavo: Padre!
1190 La mia buona azione ora è una spada nella mia mano, e busso!”

         Si udirono delle risa e delle voci nel palazzo chiuso a catenaccio:

         “Tutte le tue buone azioni, asceta, tutte le tue elemosine
         non basteranno, sappilo, a pagare questi due occhi
         che mi son degnato di darti perché tu t’ammirassi del mondo.

1195 E se un giorno anche tu varcherai la soglia fulgente della mia porta,
         lo dovrai alla mia santa grazia e alla mia benevolenza.”»

         La bocca pallida sorride e tace piena di tristezza;
         ma l’uomo dalla forte mascella non si raddolcisce e dice amaro:

         «Ma allora, amici, tagliamoci le mani! A che ci servono?
1200 Fai del bene, non lo calcolano; fai del male, lo dimenticano.
         Siamo sballottati senza guida, andiamo alla deriva senza timone!

         No, Dio non è un padre, non è altro che un duro capitano,
         e noi il suo equipaggio. Guai alle mani che non sanno
         governare le vele e lavorare di remi».

1205 Parlava ancora quando un’ombra si avvicinò sulla sabbia.

         L’Atleta liberato misura la rena a grandi passi,
         portando invòlto sulla spalla l’arco suo nuovo.

         Riverberava sull’acqua la nave, s’alzò un vento disteso,
         cominciò a gonfiare le vele e stringendola appena fra i denti,
1210 come foglia verde teneva sulla bocca la terra, dicendole addio.

         Osserva i pescatori sulla riva e fra di essi spicca, splendido
         come un cigno nero, un giovane uomo che canta tendendo il triste collo:

         «Come un pugnale amaro la tua parola, fratello, ha ferito il mio cuore!

         Guai a chi, ancora attaccato alla terra, osa giudicare
1215 la fame, la sventura, l’ingiustizia, con il cervello di un uomo!
         Non credete ai vostri occhi impastati di fango!
         Né le catene, né le prigioni, né le spade, né la fame
         possono toccare un’anima che rivolge il suo sguardo al cielo.
         Possa il nostro corpo appassire e perire, se è per salvare la nostra anima.
1220 Possano straziarsi i miei piedi sulla terra, se è per danzare nell’eternità!»

         Ma l’uomo con la mascella da fiera parla ancora, lo divora il rimbecco:

         «Dimmi, se un uomo ingiusto alza la mano
         e mi colpisce sulla guancia destra, che cosa devo fare?»

         «Porgigli l’altra guancia, fratello, e sorridigli!»

1225 L’Arciere ascolta e il suo cuore si agita furioso.
         Mai sulla terra ha udito una voce sì dolce.
         Ma già lo spirito ride, beffardo: non crede possa esistere una simil dolcezza:

         «Sa a meraviglia intesser le parole, le sue labbra sono bravi artigiani,
         ma se alzo la mia mano su di lui, balzerà in piedi infuriato…
1230 anche lui alzerà la sua piccola mano per rendermi il torto!
         E tutti se ne andranno nel vento i suoi bei vocalizzi!»

         Si avvicina lentamente da dietro. All’improvviso alza la mano
         e uno schiaffo sferza la guancia dell’ingenuo che-va-sulla-strada-del-cielo.

         Tutti i suoi compagni si alzano con furia e ruggiscono,
1235 ma il giovane uomo sorride e porge l’altra guancia:

         «Esiliato, fratello bianco, colpisci e ne avrai sollievo!»

         L’Arciere-della-luce ha vergogna e la sua mano si inaridisce.

         «Perdonami, fratello, volevo misurare il tuo pensiero,
         gettare la mia sonda per vedere in quale acqua tu navighi.
1240 È profondo il mare dove navighi! Salve, capitano!»

         Disse così e turbato, si sedette vicino al cigno nero.

 

(1) Cespugli.
(2) Ansante, ansimante.
(3) Crudele, spietato; calco linguistico, variante di giaùrro.
(4) Pallide, biancheggianti.
(5) Appetitoso spuntino consumato a tarda sera dopo la cena.
(6) Respiro, alito.
(7) All’alba (toscanismo).
(8) Aure etesie , già in Carducci.
(9) «Genere aberrante di Ruminanti, della famiglia dei Cervidi, sottofamiglia Cervi, rappresentato da un’unica specie: il milu pechinese» (Dizionario Battaglia); scoperto verso il 1860 dal padre missionario Armand David (dal quale prese il nome scientifico di Elaphurus Davidianus ) in una riserva dell’imperatore cinese, dove sopravviveva l’ultimo branco; durante la guerra dei Boxers fu sterminato e mangiato; fortunatamente alcuni esemplari erano stato portati in Inghilterra; attualmente è in serio pericolo di estinzione. Il nome in cinese mílù ( 麋鹿 ) indica metaforicamente una persona rude; ma è conosciuto prevalentemente attraverso la mitologia; viene chiamato anche 四不象 / 像 sìbùxiàng “dalle quatto stranezze”; le più correnti sono: ha gli zoccoli di una mucca ma non è una mucca, la testa di un cavallo ma non è un cavallo, le corna di un cervo ma non è un cervo, il corpo di un asino ma non è un asino.
(10) I palchi delle corna sono diritti come spade.
(11) Avverbio, per colpo di fortuna, potersi ritener fortunati, andar bene, aver di grazia (toscanismo, Nerucci). (12) Come recuperasse dalla memoria i ricordi di una vita.
(13) Gocciolanti.
(14) Pigolano.
(15) Col mento squadrato e sporgente.
(16) Si riempie, si gonfia.
(17) Prominente.


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Nikos Kazantzakis, Odysseia (Canto XXI, 1049-1241) (traduzione) by Vittorio Volpi
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