Kazantzakis, Odysseia (Canto X, 96-257)

Nikos Kazantzakis, Ὀδύσσεια - Odysseia X, 96-257

Rala

 

 

[durata 15:49]

 

         Bevono, mangiano, ridono sulla terrazza: degli dèi si fan beffa,
         ma nel tugurio della vedova si levano intanto grida dolenti:

         «Dio, che mi assassini, che siedi lassù, scendi ed ascoltami!
         Dio mio, cerco con gli occhi d’attorno, ma dove posare
100  il piccolo mio, perchè guardandolo, assassino, non mi ricordi di te?
         Se lo metto nella terra, dirai alla terra di mangiarmelo;
         se lo rimetto nel mio cuore, farai marcire le mie viscere,
         se lo metto sulla tua tavola, verranno gli scalchi
         a coprirlo di alloro, perché non insozzi il tuo sguardo.
105  Ma io lo inchioderò sulla punta di una lancia, come stendardo,
         assassino: tutto il mio dolore mi cammini davanti e la mia forza sia dietro di me.
         Colpitelo, fratelli, forte in testa! Un dio quello non è!
         I bambini muoiono di fame, le madri gridano;
         ti vomita e più non ti vuole, Dio mio, il cuore dell’uomo.»

110  La madre canta il lamento, si batte il seno, varca le soglie
         e sventola come orifiamma nei cortili deserti il garrulo (1) figlio.
         Grida al cielo l’ingiustizia, batte le ali e se ne va.

         Dio mio, quanta laida povertà, un carnaio di trista nudità,
         corpi egri d’infermi, livide labbra, piedi insanguinati.

115  Il popolo soffoca d’afa, con l’alito cattivo della fame,
         portatori, tessitori, imbalsamatori, donne sfiorite
         si riversan dovunque e la polvere sale fino alle ginocchia, nella stretta gola dei morti.

         Ma all’improvviso, ad una svolta nella valle, si fermano ammutoliti.

         È il rullo d’un tamburo di guerra o il battito del loro cuore che fa eco?

120  O forse è il ruggito di Dio, il leone solitario delle dune?
         Tremano, volgono intorno lo sguardo cercando rifugio,
         vedono una ragazza, i capelli scarmigliati, che corre sulla sabbia,
         batte con forza sul tamburo, alta e ardita la testa.

         «Rala, Rala!» gridano, tendon le braccia con gran festerìa.

125  E la ragazza, capelli di fuoco, con lattatissimo (2) invoglio (3),
         batte il tamburo e i suoi occhi scintillano, pieni di cavalli,
         di incendi, di uomini affamati e di bastite che rovinano a terra.

         Batte il tamburo e il suo petto di vergine arde nel deserto
         e tutto il faràngo (4) nero dei morti rimbomba tambureggiante.

130  Dal profondo del corpo dei vivi si levano gli avi,
         non è solo polvere quel che sale a bisciabova (5) e riempie le gole;
         cioncan (6) cadaveri i gozzi, digrignano i denti come sciacalli,
         assaporano melograni amari di morte, melograni pieni di cenere,
         morti e vivi si mescolano. Si erge capofila,
135  irti i capelli, il sangue negli occhi, l’orrido spettro della Fame.

         «Tutti insieme, morti e vivi, fuoco al mondo, fratelli!»
         aizza Rala rubesta (7), ed intona un canto animoso.

         «Avanti! – Quaranta telamoni di quaranta piedi, quaranta prodi arditi,
140  quaranta lamie voraci si mettano in cammino e pongan l’assedio alle mura.
         Avanti! – La Fame li incontra alla porta del re.
         Le danno da mangiare dei bocconcini di cuore per antipasto e sangue per dissetarla,
         e la Fame , si vede, prende forza e alza il suo drappo.
         Avanti! – Issano un drappo nero intriso nel sangue,
145  la Fame ha innalzato il drappo nero e la fortezza è crollata.
         Sorge il sole, brilla la terra ed eccoli i nostri giganti quaranta-piedi.
         Avanti! – Erano quaranta operaie, quaranta lavoranti!»

         Le fosse dei morti mandano un’eco, i morti si destano,
         una turba di anime che spazzan la rena; le mani incrociate sul petto,
150  rompono bende e bindelle; orecchie màrcide
         ridiventano sane, le appuntan per ascoltare il rugghio dei tribolati
         e gli schiavi, in calca l’un dietro l’altro, risalgono.

         È forse mai il richiamo che da migliaia d’anni
         attendono nel ventre della terra? È forse mai la tromba
155  che annuncia la dolce risurrezione sulla terra rifiorita?

         I capelli di Rala prendono fuoco sulle spalle sudate;
         batte il tamburo, raduna in fretta morti e viventi,
         prima che i magi richiudano le porte e corrano all’armi.

         All’improvviso le gole si gonfiano, il canto bellicoso si strozza,
160  le ginocchia vacillano; appaiono le mura merlate
         difese dalla forza schierata degli dèi-giganti-quaranta-piedi.

         Essi tutti stringono nelle mani proterve lunghe corde annodate
         per stringere con nodo scorsoio ogni schiavo collo per collo.

         I ministri del dio, odono il clamore, s’alzano da tavola.

165  A basso, nel crepuscolo, cercan di distinguere
         le ombre frettolose che pullulano urlanti sulla rena.
         Ridono, riconoscendo i propri operai e i servi scarniti.
         Rala in testa, col suo tamburo e i suoi capelli scarmigliati.

         «Son stretti dalla fame ancora una volta; più non stan in cervello.
170  Hanno fame e voglion mangiare il grano del dio, ma è il dio che li mangerà,
         perché lo sappiamo bene, gli dèi non amano la povertà.
         Mi fan compassione. Getterò loro doppia razione di pane.»

         È un sacerdote guance-paffute-gialligne che parla; afferra un sasso pesante
         e con ghignata beffarda lo lancia sui morti di fame.

175  Il popolo ruggisce e si avventa con rabbia contro il portone.
         Ma il gran sacerdote dà ordine di aprire i piombatoi
         e di gettare acqua bollente sulla folla in fermento.
         I corpi incurvati si copriron d’ustioni, le carni gemettero,
         ad una donna già esangue caddero gli occhi per terra.

180  Una ragazza dagli occhi fiammeggianti scivola verso le adorne colonne,
         va dritta alla postierla segreta della cinta muraria,
         tira il paletto della mandata ed esce sulla strada gridando:

         «Rala, sorella mia, ho aperto le porte! Compagni, seguitemi!»

         Rala si slancia, batte il tamburo, raccoglie
185  la folla terrificata degli operai. Hanno varcato la soglia sacrata.
         Il tempio risplende, i falchi del dio aprono ali dorate
         sulle architravi e guardano con collera l’umanità derelitta che entra.
         Ma Rala lancia un grido selvaggio, incoraggia i poveri afflitti:

         «Avanti, fratelli! Portate le torce, adesso tocca a noi!
190  Oggi fratelli, o mai più; anche noi vedremo la libertà!»

         Comprendono, e tutti si accalcano verso i ricchi granai del cortile più grande.

         «Assassini!» grida la madre levando sulle braccia il cadavere del figlioletto.

         Ma rossa una freccia trafigge il suo livido collo,
         il rauco grido si annega nel gorgóglio del sangue
195  e la madre s’accascia riversa per terra, col figlio sul seno.

         Mentre la folla ondeggia china fra le pesanti colonne,
         lentamente la porta del tempio si apre e appare, mostruoso,
         un coccodrillo che apre e serra le rosse mascelle.
         E si sente un terremoto che scuote le buie fondamenta sotterra.

200  Ma Rala afferra una torcia, si precipita verso il tempio per darlo alle fiamme;
         perché sotto l’aspetto del dio ha riconosciuto il volto senza onore dell’uomo.
         Arrivan le guardie. Vogliono catturarla da viva;
         già strappano il bianco zendado, l’afferrano per i capelli,
         con cinghie le legano le mani dietro la schiena, quando Ulisse,
205  schiumante di collera, s’avanza in mezzo al cortile.

         

         L’Arciere, seguendo sulla spiaggia il rumore ed i passi,
         ha percorso veloce l’angusta valle dei morti e raggiunto la fortezza del dio.
         Alla luce delle torce, ha visto la giovane ragazza che resisteva valorosamente
         e la folla intimidita dei lavoratori si sbandava.
210  Una voce di fiera si levò dentro di lui: il suo dio ruggiva;
         la mente-di-volpe si morse le labbra e non diede risposta.
         Di nuovo la voce rauca risuona dal profondo delle sue viscere: «Ulisse.»

         Dà di balta (8) la mente, e ribatte, stringendo le colonne:

         «Non è giusto! Sto per perdermi, e tu ti perderai con me!»

215  Di nuovo si udì la voce nella gola strozzata: «Ulisse».

         Bestemmia il duro assassino, si leva dalle colonne,
         stringe i denti con rabbia, sguaina la spada di ferro
         muggiscon sotto i morsi le labbra caparbie:

         «Avanti, bello mio, se è questo che vuoi! Non potrai dire che ho rifiutato per paura!»

220   Dà una scudisciata al suo corpo. In due salti raggiunge
         i guardiani del dio; trafelati, stanno legando Rala.

         Si ode un ruggito di belva, il cortile tutto ne trema.
         Le cosce risplendono al baglior delle torce, i brandi rutilanti si specchian fra loro.

         Rala alza i grandi neri suoi occhi di damma (9) scampata al terror delle fauci,
225  in tutto quel balenìo vede chi è colui che s’è scelta per dio:
         un uomo dalle membra robuste, un brando di ferro nel pugno.

         Serra le labbra, e senza speranza, cala il suo braccio splendente
         nel mucchio innumeri volte e ancor lo solleva:
         gocce di sangue ancor caldo cadon pesanti sulle lastre di pietra.
230  Come serpi, i corpi umani schiumanti sibilano nella lotta,
         scivolano nell’oscurità, e poi di nuovo risplendon nella luce
         e il sangue sprizza nei cortili fra stridule grida.

         Un grido rauco, all’improvviso, squarcia la gola serrata di Rala:
         lo straniero è arrivato al suo fianco e ritta a mezzo del cranio,
235  ben conficcata, scintilla una spada di bronzo.

         Subito le guardie, come mastini, si accaniscon sul cinghiale ferito.
         Portan le torce, si inginocchiano a terra, lo osservan con meraviglia.

         Non si muove, i suoi occhi palpitano come pozzi coperti;
         poi li socchiude dolcemente, tristi come quelli d’un serpente.

240  Un gemito sordo; leva con gesto rabbioso il braccio alla testa
         e schioda dal cranio la spada che vi era piantata.
         Fiotti di sangue gloglottan e lordano a Rala l’intera figura.

         Ella ha un fremito e prendendo il suo bianco zendado,
         lo immerge nel nero sangue, pronuncia un voto amaro:

245   «Ah! possa io non vedere la morte prima di aver inchiodato sulla loro fortezza,
         questo velo insanguinato, come orifiamma… un giorno!»

         Disse così e leccò dalle sue labbra il sangue caldo e salato.

         Ridendo, le guardie senza difficoltà legano i due corpi,
         li gettano sui lunghi lor scudi, e correndo veloci
250  li portano verso il fiume, nella notte che già incombe, fin poi alla città.

         Le stelle contente danzavan nel cielo come cuori innamorati.

         Rala teneva aperti i grandi suoi occhi vellutati di cerva.

         Acque scorrono sopra di loro, navi, palme affilate,
         alte torri, portali di bronzo, giardini a terrazzo.
255  Poi all’inizio delle umide tambe (10), un pallido lume:
         tre operai agitano le mani callose:

         «Salve, Rala, compagna! Benvenuta, tu che sei la nostra levriera!»

         

 

 

 

 

(1) Allegro, vivace.

(2) Bianchissimo.

(3) Il termine originale, mpolìda , deriva dal veneziano imbòlia, da inbolicàr “avvolgere”; più oltre il termine verrà reso con la voce veneta zendado ); altri traducono semplicemente velo , ma si tratta più probabilmente di una telo da sacco grossolano portato sulle spalle.

(4) Calco dal greco faràngi , “stretta gola, apritura, forra, orrido, canyon; barrancada (Castillo-Didier).

(5) Termine dei pescatori del lago (a bissabóa, letteralmente: “a zig zag”), indica il turbine, una tromba d’aria.

(6) Bevono avidamente, tracannano.

(7) Gagliarda, vigorosa.

(8) Si rovescia.

(9) Cerva.

(10) Tuguri.

 

 


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Nikos Kazantzakis, Odysseia (Canto X, 96-257) (traduzione) by Vittorio Volpi
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