Ameraldi - 7.1. La Spagna Documento senza titolo

Oberto Ameraldi:
Una vita di fede per la scuola

Brescia : Fondazione Civiltà Bresciana, 2000. - (Cattolici & Società ; 11), p. 161-193.


7.1. La Spagna (parte prima)

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Oltre alla guerra, che andava sempre più assumendo una dimensione internazionale, in Ispagna c’erano i comunisti, i rossi, come più spesso venivan chiamati.

Non sapevo nulla del “cafarnao”che mi stava aspettando. Anche i più informati, ammettevano che era «difficile orientarsi sulle cose di Spagna», che «l’urto non era più fra un ordine e un disordine, ma fra due disordini» e che «le barbarie rosse e nazionali si equivalgono». Utopisti, anarcoidi, non rispettavano né patria, né chiesa, né famiglia: il caos. E l’avevano dimostrato ampiamente.

Non ne sapevo nulla e mi era difficile capire: Maria Montessori era nella Spagna rossa dal 1934 e aveva deciso di rimanervi. E io? Come cittadino italiano, come fascista, come cattolico non avevo dubbi; ma come insegnante, come patriota, quella scelta mi poneva un dubbio, un certo malessere.

Il papa aveva messo in guardia il mondo cattolico con l’enciclica Dilectissima nobis, nel 1933. Sul berretto da studente avevo la medaglia di Pio XI per l’anno santo del 1925: i suoi interventi mi aiutavano a capire.

Ciò che alcuni «gruppi sovversivi contrari a ogni religione e all’ordine sociale» stavano perpetrando «non offendeva soltanto la Fede e la Chiesa , ma gli stessi principi di libertà sui quali il nuovo regime pretendeva di basarsi». E portava come esempio gli avvenimenti recenti della Russia e del Messico.

La separazione fra Stato e Chiesa istituita per legge offendeva la lunghissima tradizione cattolica della Spagna. Le limitazioni del culto, la soppressione degli ordini religiosi, dell’insegnamento religioso nelle scuole, l’introduzione del divorzio e la requisizione dei beni della Chiesa contraddicevano i principi stessi proclamati dal nuovo governo, che, da laico, – e forse temendoli –, si ergeva a giudice dei più intimi e puri bisogni spirituali della popolazione. Eppure non riuscivo a condividere completamente l’atteggiamento di tanta parte della stampa cattolica che vedeva una “identità di eroismo” fra i martiri delle prime persecuzioni e «i martiri della Spagna flagellata dal bolscevismo»; obiettivamente, infatti, la maggior parte delle atrocità e distruzioni furono perpetrate dopo il 18 luglio, fornendo involontariamente «una giustificazione a posteriori della sollevazione militare».

Condividevo sì l’opinione che le ideologie in campo fossero – almeno a quel tempo – “irreconciliabili”, tuttavia mi pareva eccessivo definire quel conflitto un «plebiscito armato». Non condividevo i toni da cruzada.

Non la consideravo una guerra ispirata da motivi religiosi, come da molte parti si voleva far credere (Franco aveva bisogno di alleanze che gli garantissero in ogni caso la vittoria e un futuro politico incontrastato; inoltre penso che gradisse molto esser chiamato caudillo , titolo che designava i capi militari medievali che avevano lottato contro gli infedeli; in particolare, penso che, data la sua ambizione, gradisse molto il sottaciuto paragone col Cid).

Per quel che mi riguardava, la fede che pur mi animava non giungeva al limite di sentirmi disposto a “professarla col sangue”. Perché in quel contesto l’appello alla fede era troppo sfacciatamente sfruttato a fini politici (instrumentum regni); si trattava di un «abuso della fede» per usare le parole di don Sturzo.

Prima di partire ripassai velocemente gli avvenimenti degli ultimi anni. A riguardo della situazione spagnola, mi stupiva il fatto che per la prima volta l’ascesa di un movimento simile al fascismo venisse contrastata strenuamente fino ad assumere le dimensioni di una guerra. In Italia, in Germania, in Portogallo, in Austria, in Grecia il fascismo era andato al potere quasi senza spargimento di sangue.

Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, ero convinto che la battaglia fra democrazia e fascismo fosse stata anticipata dalla guerra civile spagnola. Ma, a parte le semplificazioni, mi resi conto che quel che era accaduto in Spagna andava ben oltre lo scontro ideologico fra due fazioni.

Noi tutti che abbiamo vissuto quegli anni siam stati abituati a vedere uno scontro fra ideologie: Legionari e Brigate internazionali sono accorsi per le proprie bandiere; influenzati ciascuno dalla propria propaganda non riuscivamo a vedere che il popolo spagnolo andava cercando invece un equilibrio interno. Entrambi i campi avevano una idea propria di libertà, di modernizzazione, di progresso sociale e culturale: gli uni si richiamavano alla tradizione, gli altri all’utopia.

Ma penso che in quegli anni l’Europa intera si vedesse rispecchiata in quel che stava succedendo in Spagna. Vedeva i propri contrasti, le proprie inquietudini, rappresentati su un palcoscenico lontano, con un desiderio febbrile di prendervi parte.

Per parte mia, riconoscevo quel che ero stato nell’ardore che animava le fedi opposte. Protetto dal paravento dell’incarico statale, né volontario, né mercenario, potevo osservare da spettatore neutrale la strenua lotta che, prima di Tunisi, aveva dilaniato anche me.

Era uno scontro che riguardava la società spagnola nel suo complesso, matura per un decisivo cambiamento, per una rivoluzione sociale (come stavano dimostrando le audaci sperimentazioni in Catalogna e Aragona), non tanto una guerra contro il fascismo. Ma rimanevo perplesso ricordando che durante il bombardamento di Madrid (12 novembre 1936, ad opera della legione tedesca Condor ), il quartiere elegante del barrio de Salamanca era stato risparmiato, mentre i quartieri operai, gli ospedali, gli ospizi e i conventi erano stati crudelmente presi di mira. Mi faceva pensare che Franco, pur non giungendo agli estremi del famigerato capitano Gonzalo de Aguilera, per la “sua” nuova Spagna non gradisse né straccioni, né mutilati. A dir il vero non amava nemmeno gli oppositori: una sua vanteria mi è rimasta per sempre nella memoria: «Io non ho nemici, li ho uccisi tutti».

Da noi, al contrario, si continuava a dire, ma con orgoglio men macabro: «Molti nemici, molto onore». A proposito di bombardamenti, andrebbe ricordato anche quello di Barcellona (16-18 marzo 1938), che provocò più di mille morti: i nostri aeroplani avevano bombardato i quartieri residenziali della città, scatenando le ire furibonde di Franco perché ciò aveva rinvigorito la resistenza dei Catalani e colpito le proprietà dei suoi sostenitori.

Nel settembre del 1923, il generale Miguel Primo de Rivera era salito al potere instaurando, quasi senza opposizioni, una dittatura.

Come persona era volubile, estroso, intuitivo, bonario, amava il gentil sesso e i piaceri della tavola, amava anche il popolo (non vi fu alcuna esecuzione sotto la sua dittatura). Ebbe come collaboratori il giovane ministro delle finanze Calvo Sotelo e il socialista Largo Caballero. Col tempo però si alienò molte simpatie: i Catalani non gli perdonarono la soppressione di alcune autonomie, gli uomini d’affari non approvavano i grandi lavori pubblici e la politica sociale, l’intervento diretto dello stato nell’economia. La crisi del ’29 e il crollo della peseta, l’abbandono da parte delle classi dirigenti, dell’esercito e del re lo costrinsero a ritirarsi. Morì l’anno dopo, in un piccolo albergo di Parigi.

Sotto il giogo di pochi latifondisti, i contadini erano fermi a condizioni di vita feudali, costretti a un lavoro durissimo e ridotti alla fame. La crisi economica aveva causato una forte inflazione, la riduzione del salario degli operai, la chiusura di un gran numero di fabbriche. I disoccupati nel 1931 erano circa 600.000 su una popolazione di circa 23 milioni di abitanti. In queste condizioni qualcosa doveva cambiare.

Nell’agosto del 1930, a San Sebastián venne formato un “comitato rivoluzionario” e prima della fine dell’anno insorse la guarnigione militare di Huesca: in risposta venne proclamato lo stato d’assedio. Che a sua volta provocò una serie di altre sollevazioni in tutto il paese fino alle dimissioni del governo. Le elezioni municipali del 12 aprile 1931 furono un plebiscito contro la monarchia. Il re, Alfonso XIII , fuggì all’estero (a Roma), senza però abdicare. Non era un semplice cambio di governo, ma il tentativo di ricostruire la società spagnola su fondamenti “rivoluzionari”: la nuova repubblica era laica, parlamentare, dei lavoratori; con una Costituzione ispirata a quella tedesca di Weimar e molto simile, se si bada alla lettera, alla nostra attuale:

España es una República democrática de trabajadores de toda clase, que se organiza en régimen de Libertad y de Justicia. Los poderes de todos sus órganos emanan del pueblo.

Bisogna però anche aggiungere che le masse operaie si sentivano solo parzialmente rappresentate dal governo repubblicano. Molti operai e contadini avevano collettivizzato fabbriche e terreni, instaurando un nuovo ordine sociale basato sul controllo diretto delle risorse produttive tramite comitati operai o assemblee dei contadini. A differenza dei soviet, questi ‘consigli’ erano ispirati o molto vicini al movimento sindacale anarchico, di lunga tradizionee molto forte in Spagna. Nello stesso tempo mostravano di incidere nella società in modo addirittura «più profondo» della stessa Rivoluzione russa. Per questo motivo furono immediatamente nel mirino della controrivoluzione ispirata da Mosca. L’opposizione fra le diverse fazioni del fronte repubblicano si esacerbarono alcuni anni dopo, durante la guerra civile, cosicché si può pensare che all’interno della guerra civile esistesse un’altra guerra civile.

Il governo Azaña, attuando una politica anticlericale promosse la secolarizzazione dell’insegnamento, espulse i Gesuiti, e introdusse il divorzio. Ma non fu in grado di attuare una effettiva riforma economica, soprattutto agraria.

Con le elezioni del 1933 i partiti di destra ritornarono al potere. Nel frattempo José Antonio Primo de Rivera, figlio dell’ex dittatore, aveva fondato il movimento fascista “di sinistra” della Falange. Nell’ottobre dell’anno seguente, una grande insurrezione dei minatori delle Asturie fu sanguinosamente sedata da Franco. Alle sollevazioni e scioperi il governo rispose con dure repressioni che aumentarono però il malcontento generale.

Alle elezioni del febbraio 1936 i partiti della sinistra si unirono in un Fronte popolare e vinsero. Il 13 luglio, come rappresaglia per l’assassinio di un tenente repubblicano, fu assassinato Calvo Sotelo, leader del partito monarchico. Ciò diede il pretesto ultimo alla controffensiva “franchista”, che covava da mesi. Seguì un periodo di scontri cruenti, furono uccisi militanti d’estrema sinistra e falangisti, furono bruciate o distrutte numerosissime chiese, fucilati migliaia di religiosi.

Nel 1936, quando le istituzioni e l’esercito repubblicano, che non avevano avuto il tempo di consolidarsi, stavano andando allo sbando sotto la pressione delle truppe nazionali di Franco, in molte città si formarono spontaneamente gruppi dirigenti e milizie volontarie. Per questo si può dire che la guerra pur non essendo fino in fondo un “dono di Dio”, come sosteneva un generale franchista, era, tuttavia, un multis utile bellum (“una guerra utile a molti”), perché aveva fatto scoppiare un fermento di rinascita che stava covando da anni.

Il 18 luglio – data tradizionale dell’inizio della guerra di Spagna – truppe ben addestrate e ben pagate di legionari e di mercenari marocchini al comando di Franco aviotrasportate sul continente da aerei tedeschi, invasero le province meridionali della Spagna. Contemporaneamente si sollevarono molte guarnigioni militari, prima fra tutte quella di Pamplona al comando del generale Mola. La fulminea avanzata di Franco fu pari alla irresolutezza e incredulità del governo repubblicano: per rispetto eccessivo della legalità e per evitare maggiori disordini rifiutò di informare il popolo della reale portata degli avvenimenti.

Una delle armi “non-convenzionali” di Franco era il terrore. La sua spietatezza era già stata provata due anni prima durante la permanenza in Marocco e durante la “Rivoluzione d’ottobre” nelle Asturie, dove duemila minatori erano stati passati per le armi e quattordici mila segregati su una nave-prigione.

Pochi giorni dopo, a Burgos, venne insediata una Giunta di difesa nazionale. Francia e Inghilterra rimasero sostanzialmente neutrali. La Germania e l’Italia, invece, alla fine di novembre riconobbero il governo franchista e lo appoggiarono apertamente, mentre la Russia aiutava militarmente il governo repubblicano.

L’avanzata delle truppe dei “ribelli” (los facciosos, “i faziosi”) in pochi mesi giunse alle porte di Madrid, così che il governo fu costretto a trasferirsi a Valencia. Dall’estero iniziavano ad arrivare numerosi “volontari”: i filocomunisti delle Brigate internazionali (los rubios, i “biondi”) in appoggio ai repubblicani, i legionari fascisti in aiuto ai nazionali.

L’Italia inviò circa 50 mila volontari – perché ufficialmente aveva aderito al principio di non intervento –, ma Mussolini fu costretto a svalutare la lira del 41% per finanziare l’aiuto ai franchisti.

Una delle tappe fondamentali fu il 18 marzo 1937: Guadalajara. In questa battaglia le truppe repubblicane sconfissero un consistente distaccamento di legionari italiani. Era una delle prime serie sconfitte subite dal fascismo, proprio mentre a Tripoli Mussolini raccoglieva ovazioni trionfali come fosse un nuovo Cesare.

In quella battaglia caddero anche alcuni legionari bresciani, vorrei ricordare almeno Ippolito Antoniolie Mario Berni, medaglie d’argento alla memoria, Francesco Riva e Ilario Vetti, tutti di Iseo, e Luigi Tempini di Pisogne.

A guerra finita venni a sapere che anche il signor Giulio Gennari, persona conosciutissima di Esine, sposato con la sciùra Clementìna, aveva combattuto in Spagna, nelle file dei nostri legionari, col grado di maggiore, riportandone anche una ferita. Nel libro di Tani sulla Resistenza sono citati anche altri nomi.

Poiché l’assedio di Madrid stava impegnando eccessivamente le truppe franchiste, il fronte venne spostato temporaneamente al nord. Il 26 aprile la Luftwaffe rase al suolo la città di Guernica. Il 29 maggio otto trimotori nazionali bombardarono Santander lanciandovi 150 bombe. In giugno, grazie al tradimento del generale che l’aveva ideato, venne sfondato il “cinturone di ferro” e presa Bilbao.

Il governo repubblicano, percorso al proprio interno da correnti ideologiche violente e inconciliabili – anarchici, solcialdemocratici, trotskisti, stalinisti – si vide costretto ad avvicendare frequentemente i primi ministri (Giral, Caballero, Negrín) e non si oppose alla costituzione di governi autonomisti, come quello di Companys in Catalogna e di Aguirre nel País Vasco.

I contrasti fra le diverse componenti, anteponendo «lo spirito di parte all’unità antifascista», avevano ripercussione anche sulla organizzazione militare e sulla disciplina; scoppiavano furibondi nell’imminenza delle operazioni belliche. I reparti di volontari erano inoltre male organizzati, scarsamente addestrati, poco equipaggiati.

Guerra o non guerra, i rossi si erano poi resi responsabili di atrocità inumane, sia nei confronti dei prigionieri che della popolazione civile. Avevano incendiato villaggi, distrutto tesori d’arte, spogliato chiese, confiscato ricchezze.

Pregiudizio o non pregiudizio, non mi sembravano fossero fenomeni transitori, eccessi quali ogni guerra conosce, la conseguenza inevitabile di ogni grande rivolgimento storico. Mi parevano piuttosto il frutto di un sistema efferato, diabolico, che per il raggiungimento dei propri fini, e per conservarli, non esitava a calpestare senza il minimo scrupolo ogni legge morale e naturale, ogni senso della misura, e l’idea stessa di umanità. Nemmeno i veri barbari erano giunti a tanto. Le parole del vecchio Nestore, mandate a memoria sui banchi di scuola, mi ritornarono un giorno alla mente: «È senza patria, senza leggi e senza lari chi la civile orrenda guerra desidera» (Iliade, libro 9, nella traduzione del Monti), confermandosi eterne e classiche ancora una volta.

Era inoltre diffuso il timore che quel che stava accadendo in Spagna avrebbe potuto contagiare anche altri paesi. E che si trattasse di una “guerra ideologica” era chiaro a molti, primo fra tutti a Galeazzo Ciano: in gioco era anche il prestigio del fascismo in Italia.

Contemporaneamente, dalla Russia, dove Stalin aveva appena varato il primo stato socialista, giungevano notizie che confermavano l’idea che regnasse piuttosto il terrorismo che non il pur freddo materialismo, dove i capi di un tempo si stavano facendo una lotta feroce e dove il popolo viveva sotto il giogo di dittatori più che di “servitori del popolo”.

Il comunismo è per sua natura antireligioso e penso che ciò sia anche la sua debolezza, perché questo suo atteggiamento non gli permette di tener conto della dimensione spirituale dell’uomo.

Nell’agosto del 1937, mentre ero al Campo Dux ai Parioli, sotto i pini del Lido di Roma venivano ospitati al Campo España oltre quattrocento ragazzi fra i sei e i quattordici anni, figli di caduti per la causa spagnola. Vestivano una bella divisa: camicia azzurro-scuro, il colore della Falange, e un ampio basco rosso (la bòina) dei “Requetés” ricadente su una tempia. Mi è sempre piaciuto il basco e proprio una boina rossa (una txapela, come si dice in basco) deve esserci ancora insieme al berretto da universitario e al fez. In quei giorni, mai avrei pensato che una simile coincidenza avrebbe potuto riguardare così da vicino il mio immediato futuro.

Della Spagna avevo tutto sommato un’immagine alquanto folcloristica, piena di luoghi comuni (“nazione sorella”, “sangre caliente”, Don Chisciotte, corride, flamenco, Carmen e via di questo passo). Fin dai primi giorni dovetti ricredermi. In una certa misura tutti quei luoghi comuni erano veri, ma vedendoli concretamente assumevano una dimensione e una complessità insospettata. Inoltre dai volti, dagli sguardi, dalle parole, dai modi traspariva un’anima e un’umanità ben più profonde.

A differenza di noi, nonostante sui nostri gagliardetti portassimo cuciti i teschi come ragazzi cresciuti che giocavano ancora ai pirati, gli Spagnoli avevano maggiore familiarità con la morte. Senza ostentazioni, spavalderie, eroismi di maniera.

Una danza macabra può essere un costante ammonimento contro la vanità del mondo, un vedere la vita attraverso gli occhi della morte, un efficace memento mori. Ma bisogna assistere una volta a una processione della Settimana Santa in Spagna per provare il senso della assoluta tragicità del vivere, dell’impotenza delle umane forze. Ci vuole avventatezza per affrontare la morte a viso aperto, il coraggio dell’eroismo, l’incoscienza del fanatismo: allora, davanti al grande mattatoio della guerra, da entrambe le parti, si sente gridare ¡Viva la muerte!

Mi chiedevo anche se non fossero piuttosto la fame, la povertà, una vita di stenti, di rassegnazione, di disprezzo, a togliere valore alla vita. I veli neri delle vedove, le rughe sui volti delle madri, le labbra che più non parlavano, la durezza di certi sguardi, i corpi provati narravano sofferenze inaudite, tragedie estreme sopportate con una forza d’animo saldissima, fiera, piena di dignità, senza fatalismi, senza melodrammi.

Lo Spagnolo non piange, non grida: è figlio di quella terra brulla, aspra, nuda, senza un’anima per chilometri e chilometri. Questa terra gli ha formato il carattere, il coraggio, la prodezza, quell’arditezza strampalata e donchisciottesca così strana per noi. Non poi così tanto, a dir il vero, perché il cugino di mio nonno, Antonio Giosuè Guadagnini (ve lo ricordate la mattina di Santa Lucia in maniche di camicia con la mola d’arrotino in Caròbe?), potrebbe ben essere definito un «genialoide don Chisciotte camuno».

Non teme la morte: avrebbe già perso in partenza. È pronto a morire per un’idea ma anche per un’utopia. E la vita non è il bene più grande, almeno in certi momenti cruciali. E lì, superata la morte, ritrova una diversa verità, una fraternità nuova, una dimensione mistica, forse la materializzazione della sua fede, della speranza. Come l’artista nel momento più alto della creazione non tiene conto né di logica né di ragione, ed è disposto a pagare anche il prezzo più alto, così, mi pare, erano le parti contendenti, entrambe titanicamente protese a creare una nuova Spagna.

Prima della guerra migliaia di spagnoli seguivano con emozione le corride. La guerra li spinse tutti nell’arena, come eccitati, ubriacati dal sangue, travolti da una forza animalesca che andava oltre la logica e il calcolo.

Mano a mano venivo a conoscenza dei fatti accaduti una parola s’affacciava ricorrente alla mente: «carnaio».

Una delle prime parole d’ordine udite in Spagna fu appunto ¡Viva la muerte!. E sui muri spesso si leggeva Sobre las ruinas del marxismo edificaremos la nueva España. Arriba España. Arriba Cristo. E ciò mi confermava una massima latina secondo la quale ogni guerra civile in fondo non sarebbe altro che una operazione di polizia.

Un inno militare, che ancora mi risuona nella mente, riproponendo l’antico rapporto amore-morte, paragonava il soldato che va incontro alla morte a un novello sposo (il novio) che sta per unirsi in un saldo legame alla compagna straordinaria (le versioni alternano leal a ideal) che mai lo abbandonerà. Fu adottato nel 1921 dalla Legione Straniera spagnola sostituendo la Madélone. Molto del suo successo lo deve alla prima interprete, Lola Montes, che la cantava vestita da infermiera:

Soy un novio de la muerte
que va unirse en lazo fuerte
con tan leal compañera.

Nel decalogo del legionario, un misto di massime che non saprei definire se eroiche o pazzesche, la muerte è il denominatore comune. Come se il dono della vita e della giovinezza trovasse la sua più grande esaltazione non tanto nel sacrificio supremo per un ideale di giustizia e di progresso, quanto nella sfida irrazionale e primitiva, nel gusto stesso del pericolo, nel giocare a farla in barba alla morte, come alla roulette russa. Questo atteggiamento non mi sembra certo né europeo, né cristiano. Trova forse le sue origini nella mentalità fatalista dei Musulmani e che si esprime, specie nelle regioni del sud della Spagna, nel gioco tragico e crudele delle corride.

I volontari del campo avverso, delle brigate internazionali, mi sembravano animati da una forza ideale maggiore della nostra, perché non erano giunti in Spagna attirati dal soldo. Erano stati richiamati da un sogno, da immagini, da paesaggi che all’improvviso li avevano destati dal loro torpore casalingo. «L’anatra domestica ignorava che la sua testolina fosse abbastanza vasta per contenere oceani, continenti, cieli, ma eccola che batte le ali, spregia il grano, spregia il verme, vuole diventare anatra selvatica» scriveva Saint-Exupéry in una corrispondenza dal fronte di Carabancel. Questa nuova stirpe di ulissidi, spogliatasi di ogni accessorio, era accorsa con l’unica loro ricchezza, il proprio corpo, pronti a metterlo in gioco, a spenderlo per un folle volo mai osato. Avevano risposto all’appello di un capitano non mai visto prima, una voce aveva destato «il signore in letargo» dentro ciascuno di loro: avevano scoperto se stessi e, come per un’illuminazione istantanea, avevano capito che l’avvenire non era più così necessario. Era la prima volta, salvo errori, che l’ Internazionale veniva effettivamente cantata da proletari di tutte le nazioni.

Appena giunto in quella hermosa tierra de España (così termina una stupenda poesia di Antonio Machado dedicata alle Orillas del Duero) rimasi attonito di fronte alla efferatezza della guerra.

I simboli stessi del franchismo, il giogo e le frecce mi riportarono offuscato un ricordo di venti anni prima. La prima domenica di settembre del 1917 - non avevo ancora compiuto i nove anni - col papà andai alle scuole a sentire lo zio maestro che teneva un discorso patriottico. Non capivo tanto, naturalmente. Le parole “popolo bastardo” colpirono la mia attenzione, sicuramente parlava degli Austriaci, non avevo mai sentito lo zio così infervorato: mi ricordavo poi solo “ferro” e “giogo”. Eccoli di nuovo riuniti quei due simboli, e questa volta simboleggiano e racchiudono il carattere e le speranze di un popolo amico.

Il popolo, da una parte come dall’altra era animato da fedi, da speranze opposte, perché senza fede e senza speranza il popolo non può vivere. I combattenti erano crociati di fedi diverse, la fede in Cristo e la fede in Lenin. Ma l’accanimento, la tragicità di quella guerra vista così da vicino, mi fecero credere piuttosto che si trattasse di una guerra combattuta d’istinto, appassionatamente, da autentici desperados , animati da una cierta locura santa, che non avevano nulla da perdere se non una vita senza speranza, fatta di fame, fatica, povertà, dove le tragedie non sono altro che un brutto sogno, cui non si può credere: solo in Spagna poteva nascere un capolavoro come La vida es sueño. La parola stessa di crociata veniva spesso rispedita al mittente e completata in cruzada de la adulación dall’innocente semplicità della mezza voce della vox populi.

Per certi versi si era tornati a un nuovo medioevo, dove le ragioni del dialogo, della tolleranza, del rispetto delle convinzioni altrui, della ragione stessa avevano poco spazio nella mente degli uomini, così assorbiti nel turbine della guerra, del combattimento, delle singole azioni militari. Ma le condizioni di vita, soprattutto dei contadini del sud latifondista delle grandi piantagioni, assomigliavano davvero a un medioevo feudale in pieno ventesimo secolo.

Mi pareva, però, che nessuna delle due vie conducesse ad una vera libertà. Bisognava combatter da soli, senza fanatismi, con la propria ragione, con la propria coscienza. Non si poteva… non potevo, io, prender parte. Non potevo essere pro o contro la guerra «non si può essere pro o contro il terremoto». Finalmente capivo la posizione di Croce!

 


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