Ameraldi - 6.2. Maestro a Tunisi Documento senza titolo

Oberto Ameraldi:
Una vita di fede per la scuola

Brescia : Fondazione Civiltà Bresciana, 2000. - (Cattolici & Società ; 11), p. 144-160.


6.2. Maestro a Tunisi (parte seconda)

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Alcune settimane più tardi fui protagonista di un atto “eroico”che mi meritò di essere presentato a Mussolini.

Il tredici di febbraio, sabato, molti italiani si erano riuniti presso il “Circolo Artistico Italiano” per festeggiare la nascita del principe ereditario Vittorio Emanuele di Savoia. Per l’occasione era stata preparata dalla locale filodrammatica una versione teatrale del Conte di Montecristo.

Durante la rappresentazione fui chiamato da Francesco Jovinelli, collaboratore presso il quotidiano «L’Unione». Una quindicina di fascisti italiani, guidati dal direttore dello stesso giornale, Enrico Santamaria, preparavano un’azione squadrista. Era corsa voce, infatti, che al cinema Midi-Minuit, sulla centralissima Avenue Jules Ferry, di fronte alla cattedrale, una quarantina di “comunistoidi” italiani avevano fischiato il duce e Ciano durante il cinegiornale “Luce”. Nei giorni precedenti il giornale filocomunista «Tunis Socialiste» aveva lanciato un invito a boicottare e protestare contro la proiezione delle notizie di attualità nei cinematografi.

Verso mezzanotte, all’uscita degli spettatori dal cinema, iniziarono i tafferugli. Io mi assunsi il compito di controllare l’uscita sul retro; qui mi trovai di fronte a cinque comunisti. Uno di loro mi gridò: «Où sont le cochons de fascistes?». «Sono qui, rinnegato» risposi io. «Qui c’est?» chiese. «Sono io che l’ho detto» replicai. Al che mi sferrò un pugno che mi colpì sopra l’occhio destro. Lo afferrai per la gola e con un pugno lo buttai fra i suoi compagni. Questi mi furono addosso immediatamente con pugni e calci. Mi difesi come potevo, a mia volta con pugni e calci, cercando contemporaneamente di allontanarmi dal vicolo.

Afferrai di nuovo per la gola uno di essi, ma, spinto dagli altri quattro, caddi all’indietro su un’aiuola del corso Jules Ferry, trascinando nella caduta il comunista. Gli assestai un calcio poderoso nel basso ventre e me ne liberai. I suoi compagni mi colpirono con una gragnola di calci. Un tassista italiano, fermo con la sua automobile lungo il viale, che probabilmente aveva seguito tutta la scena armato di sbarra di ferro, accorse in mio aiuto gridando: «Vigliacchi». In men che non si dica li aveva messi tutti fuori combattimento. E ancora avevano il coraggio di replicare: «C’est lui qui nous a provoqué».

Il bravo tassista mi consigliò di allontanarmi subito per non finire alla gendarmeria francese. Barcollante, mi diressi verso il mio alloggio, che distava solo qualche decina di metri, nella strada a fianco della cattedrale, mentre i miei aggressori venivano fermati dalla polizia.

I giornali riportarono l’episodio, ma il mio nome non fu fatto, pur avendo riportato la ferita più grave: temevo infatti di aver perso l’occhio.

L’indomani, il Console Corrias passò a trovarmi ed elogiò il mio contegno, aggiungendo che, onde evitare complicazioni con la Surété (la polizia) e la Reggenza , era bene che la mia partecipazione ai fatti del Midi-Minuit fosse ignorata.

Il 10 aprile si ebbe la prima udienza del processo. La sentenza, pronunciata il 27 aprile, condannò il direttore dell’«Unione» a otto giorni di carcere con la condizionale e al pagamento di una multa di cento franchi effettivi.

Due anni più tardi, il 12 aprile 1939 mi verrà inviato il «distintivo d’onore per ferita o mutilazione fascista» e il modulo per l’iscrizione all’Associazione Feriti e Mutilati per la rivoluzione.

Un mese esatto dopo questi fatti il Duce veniva in visita ufficiale a Tripoli, nella vicina Libia, per inaugurare la strada litoranea, chiamata Balbia, la XI Fiera di Tripoli e per assistere a varie esercitazioni delle forze armate.

Mio papà Emilio aveva abbozzato alcune epigrafi per i caduti della guerra di Libia. Eccone una:

PER LA GRAN MADRE ITALIA
VOI OFFRISTE IN OLOCAUSTO
LE VOSTRE GIOVANI VITE.

IL POPOLO DI ESINE
MEMORE E RICONOSCENTE
BENEDICENDO
VI PREGA DA DIO
IL PREMIO DEI FORTI

 

In previsione delle manovre sul mare, il porto di Tripoli era fitto di navi italiane. C’era anche il grande piroscafo «Conte Biancamano» - lo stesso che nel settembre del 1935 aveva trasportato in Africa i volontari della “ XXVIII Ottobre”, noleggiato dal nostro Consolato per ospitare le autorità tunisine in visita al Duce. Con una modica spesa anche gli italiani di Tunisi avevano la possibilità di partecipare alla piccola crociera. Anch’io vi presi parte.

Nell’attesa, mentre Mussolini visitava la Cirenaica (Derna, Bengasi, Arae Philaenorum – dove la litoranea libica passava sotto un arco di trionfo) approfittai per visitare gli scavi di Sabrata, l’oasi della Mehalla – famosa per il circuito automobilistico e la lotteria – e le altre località che erano state tappe della conquista italiana. Tripoli aveva un suo fascino romantico che risaliva alla guerra del 1911-12. Il nome stesso richiamava una canzone in voga: «Tripoli bel suol d’amore».

Il 16 marzo, verso sera, Mussolini fece il suo ingresso a Tripoli da trionfatore. La città era completamente pavesata a festa. A lato della piazza principale era stata issata una altissima torre metallica, con un enorme braciere sulla sommità, su di un lato giganteggiava la scritta Dux. Innumerevoli festoni lungo le vie, e poi bandiere, fotografie, parole d’ordine, anche in arabo, inneggianti al Duce, fondatore dell’Impero. Nella piazza della cattedrale campeggiava un ritratto gigantesco.

La sfilata fu imponente. L’arrivo del Duce venne annunciato da salve di cannone e da bengala dai bagliori rossastri. Lo precedevano i tamburini della Gioventù del littorio, meharisti con torce in mano che sembravano veri centauri del deserto e poi gli zaptiè con i fez rossi. In questa trionfale coreografia non potevano mancare lo squillo delle buccine d’argento e le continue assordanti acclamazioni della folla vociante che gridava Duce! Duce! e Uled! In piedi, nell’auto scoperta, in atteggiamento di augusta fierezza, ma anche sereno, egli volgeva lo sguardo alla folla, salutando romanamente.

Fu un’apoteosi.

Il giorno dopo il Duce presenziò nella mattinata alle esercitazioni di fuoco, dopo aver inaugurato la Casa del fascio di Fornaci e di Aim Zara.

Nel pomeriggio raggiunse la radura di Bugara. Qui lo attendevano 2000 cavalieri arabi provenienti da tutte le province libiche per offrirgli la spada dell’Islam.

Nonostante il clima festoso e, in un certo modo anche di vacanza, leggendo i titoli dei giornali e scambiando impressioni coi compagni di viaggio, cominciai a capire quale fosse l’importanza del Mediterraneo per l’Italia: una zona vitale per la sua potenza, per il suo futuro. Un Mare nostrum di civiltà e prosperità. Come lo era stato sotto l’Impero romano al tempo del suo massimo splendore.

Verso le 18 sull’ampia spianata in terra battuta davanti al castello, il Duce pronunciò un solenne discorso. La Gioventù araba del Littorio e le truppe indigene durarono fatica a trattenere la folla che gremiva la piazza all’inverosimile.

Il Duce ringraziò innanzitutto le migliaia di “volontari” libici impegnati in Etiopia. Prendendo spunto dai valori simbolici rappresentati dalla spada – la forza e la giustizia – disse che con la forza l’Italia aveva portato ordine e pace e che con la giustizia iniziava una nuova epoca per la Libia. Nominò anche il Profeta, promettendo il pieno rispetto della legge coranica.

L’attenzione, l’apertura, la simpatia verso il mondo musulmano mostravano un atteggiamento completamente nuovo che mi sorprendeva, ma nello stesso momento mi confermava nelle convinzioni che avevo maturato nei pochi mesi precedenti, e capivo che tale atteggiamento era utilissimo nel quadro della nostra politica coloniale e mediterranea. Nel frattempo il mondo era spettatore dell’aiuto che i “mauri”, le truppe marocchine, stavano dando a Franco.

Non sarebbe trascorso molto tempo, del resto, prima di vedere un completo capovolgimento. Il Gran Consiglio Fascista del 6 ottobre 1938, in una Dichiarazione sulla razza, avrebbe esteso le restrizioni razziali (principalmente in materia di matrimoni) a tutti gli «elementi appartenenti alle razze camita, semita e altre razze non ariane», e in primo luogo agli Arabi della Libia. La stessa designazione di semiti raggruppava per definizione tanto gli Ebrei quanto gli Arabi. Lo stigma avrebbe inoltre colpito gli Etiopi (semiti), i Somali e i Berberi (camiti). E dire che la nonna materna di Ciano era ebrea, della famiglia Arbib.

In serata ci fu poi un gran ricevimento nei giardini della residenza del governatore: una festa con lo sfarzo da mille e una notte.

Verso la dieci e mezza, dopo l’incontro con gli inviati dei giornali stranieri, il Duce ricevette anche la nostra delegazione.

Mi fece un’impressione strana: si muoveva con una rigidità innaturale, era nervoso, quasi arrabbiato, freddo con tutti. Il Console di Tunisi a uno a uno ci chiamava, noi facevamo il saluto romano e il Duce, senza un commento, rispondeva al saluto. Tutto qui.

Alcuni giorni dopo seppi della sconfitta a Guadalajara – dove le nostre truppe erano state respinte nella loro marcia su Madrid –, e pensai che questo fosse il motivo di un atteggiamento così inusuale per lui.

L’anno scolastico volgeva ormai al termine.

L’amico Rizzini stava costruendo per la sua ditta delle piccole linee Maginot lungo il confine libico (la cosiddetta Linea Mareth, costruita dai Francesi, smantellata parzialmente dopo l’armistizio del 1940 e di nuovo riattivata dagli Italiani durante il ripiegamento) e a difesa di altri punti strategici. Un po’ per patriottismo, un po’ per sventatezza, decise di realizzare un colpo spionistico fornendo al governo italiano l’ubicazione di queste opere di difesa e in particolare la pianta di una base militare ancora in costruzione.

Dopo averlo inutilmente sconsigliato dato il rischio altissimo che correva, pur con somma riluttanza accettai di collaborare al suo piano. Alloggiava presso una famiglia francese e se il plico dei disegni fosse stato scoperto dai suoi ospiti, sarebbe stato immediatamente denunciato. Al contrario i miei padroni di casa erano italianissimi, non correvo alcun pericolo. Nascosi i disegni in fondo al baule dei miei libri in attesa di rientrare in Italia per le vacanze. Ma più le settimane passavano, aumentava in me l’inquietudine: data la nostra amicizia, se Rizzini fosse stato sospettato, certamente il controspionaggio francese avrebbe perquisito anche il mio alloggio.

Finalmente arrivò giugno. Preparai coi miei scolari un riuscitissimo saggio ginnico-sportivo. Anche l’amica Nelly Soria aveva dato ottima prova delle proprie capacità, tanto che la sua squadra sportiva aveva vinto un viaggio premio in Italia. Mi propose di prendere lo stesso piroscafo per il rientro in Italia. Acconsentii immediatamente: i disegni di Rizzini mi tenevano sulle braci.

Alla dogana francese, fra la confusione creata dalle ragazze di Nelly, dichiarai di essere l’accompagnatore della squadra sportiva femminile. I doganieri non fecero difficoltà e mi imbarcai. Tuttavia non fui completamente tranquillo finché non entrammo nelle acque territoriali italiane. Giungemmo a Roma la sera del giorno successivo.

In agosto frequentai il Campo Dux a Monte Mario. Rizzini mi aveva fatto sapere che sarebbe rientrato in Italia proprio verso la metà del mese, perciò avevo portato i suoi disegni. Li consegnammo al Comando dei Carabinieri. Pur essendo già noto per altra fonte il loro contenuto, la nostra opera fu degnamente apprezzata, tanto che ci fu proposto di continuare. Sapendo fin troppo bene che il nostro successo era dovuto più al caso fortuito che alle nostre capacità, non potevamo onestamente accettare. Oltre a questo, l’amico Rizzini nel frattempo aveva avuto un’offerta di lavoro a Milano davvero allettante.

Per motivi di prudenza, il Ministero decise di assegnarmi ad altra sede: Santander! Confesso che sulle prime fui davvero sorpreso, sentivo su di me tutta la responsabilità di una cambiale in bianco.

Mussolini stava rinnovando profondamente i rapporti con i paesi esteri, immetteva linfa nuova nella turris eburnea dei quadri della diplomazia, nominando nuovi funzionari provenienti dalla politica e dal partito.

Di fronte al nuovo incarico, che portava un certo sconvolgimento nelle consuetudini e mentalità di umile servitore dello Stato, mi sentivo in certa misura anche spaventato. In Spagna c’era la guerra!

 


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Ultimo aggiornamento 15 marzo 2010

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