Ameraldi - 7.3. La Spagna Documento senza titolo

Oberto Ameraldi:
Una vita di fede per la scuola

Brescia : Fondazione Civiltà Bresciana, 2000. - (Cattolici & Società ; 11), p. 210-231.


7.3. La Spagna (parte terza)

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La nuova sede della Casa del Fascio fu inaugurata il 4 novembre. La cerimonia ebbe inizio alle dieci, nella sede della Diputación Provincial. L’ispettore generale dei fasci all’Estero, Carlo Emanuele Basile aveva invitato tutte le maggiori autorità di Santander: il vescovo, il governatore civile, il comandante della Guardia Civil, il governatore militare, il Jefe de la Falange , il presidente della Diputación Provincial, il rappresentante della Sottodelegazione dello Stato, dell’ Alcaldía, della Audiencia, il delegato provinciale della Falange, quello della Stampa e Propaganda, l’agente consolare italiano a Santander (don Víctor Díez Ceballos), l’agente consolare a Castro Urdiales (Camillo Sclaverani), il rappresentante delle colonie italiane di San Vincente de la Barquera, di Suances, di Santoña, di Laredo, il segretario di zona dei Fasci (Paolo Giacon); questo lungo elenco può dare un’idea del complesso sistema di relazioni in cui la mia attività veniva a inserirsi. Era a metà strada di tutto: cultura, politica, diplomazia, chiesa, esercito e non da ultimo la colonia italiana.

Il discorso più applaudito fu quello del barone Basile. Il commentatore di «Alerta», Vincente Miramar, un grande amico dell’Italia e, frequentandolo in redazione, anche mio personale, ne fece oggetto della sua rubrica, Atalaya (Vedetta). Nel discorso si esaltava il grande trattato di amicizia scritto col sangue fra Spagna e Italia. Molto effetto fece la citazione di una frase del Duce: «Noi non viviamo di apparenze, né di finzioni; viviamo e operiamo dentro la realtà». E concludeva:

Perché questo è certo: oggi, nei cimiteri dei villaggi di Spagna ci sono nomi di Sicilia, di Napoli, di Roma, di Firenze. Nomi che hanno firmato col proprio sangue, altruista e disinteressato, il trattato che unendo i cuori italiani e spagnoli, unisce anche il cuore dei due imperi: quello di Roma e quello che è rinato in Castiglia il 19 di Luglio.

Verso mezzogiorno fu celebrata una messa con musica nella vicina chiesa di Santa Lucia e fu benedetto il gagliardetto, madrina Oliva Pérez. E dopo, in solenne corteo ci si portò in Paseo de Pereda per l’inaugurazione della sede del Fascio seguita da piccolo rinfresco. Ero alle stelle, e perfino commosso, perché tutto era stato organizzato a puntino, perché vedevo tanta simpatia nei confronti dell’Italia e di me, perché mi stavo facendo onore.

Alcuni giorni dopo, don Alberto Dorao, presidente dell’Ateneo di Santander, mi nominava socio onorario:

«para manifestar de algún modo su simpatía por la gran nación italiana, apreciando su leal comportamiento en estos momentos duros y difíciles de nuestra madre Patria».

Fui lusingato vedendo che attraverso me si guardasse a Mussolini in termini di alta deferenza e ammirazione: «el hombre de Estado que ha sabido conducir a Italia al radiante esplendor del Imperio».

La guerra non era ancora terminata, e non era ancora del tutto scontato che potesse volgere a completo favore dei nazionali, e dunque pensare a una riconciliazione, mostrare un interesse per “il nemico” poteva essere considerato nel migliore dei casi disfattismo. Eppure il caso dell’antifascista Nino Nannetti mi aveva impressionato non poco. Non potei conoscere personalmente questo valoroso combattente, perché era morto il 27 luglio: una scheggia di granata lo aveva colpito alla spina dorsale. Il dottor Martinez che lo aveva avuto in cura conservava di lui un ricordo commovente.

Aveva due anni e mezzo più di me, era di Bologna. Durante i primi anni del fascismo si era opposto da vero combattente: nel ’24 era stato gravemente ferito alla testa e di nuovo nel ’25 ad un braccio, subendo numerosi arresti e intimidazioni. Quando scoppiò la guerra di Spagna, si trovava a Tolosa, fra gli emigranti italiani (la famiglia di Paolo Federici di Esine – Paulì de la Francia –, ad esempio, era emigrata lì da pochi anni). Accorse subito al fronte, partecipando ai primi scontri con una “batteria fantasma” che i franchisti non riuscirono mai a localizzare. Era, infatti, un pezzo di artiglieria da 75 montato su un camion che si muoveva lungo il fronte tra Huesca e Tardienta, colpendo le postazioni nemiche e spostandosi prima che avessero il tempo di rispondere al fuoco. Combatté sul fronte di Madrid, a Guadalajara, chiedendo poi di trasferirsi sul fronte di Bilbao. Aveva la completa fiducia dei comandanti repubblicani, tanto che era uno dei pochi italiani che comandassero reparti interamente spagnoli; era riuscito anche a organizzare una efficiente “accademia” per istruire rapidamente ufficiali e sottufficiali. Durante la Resistenza una divisione garibaldina che riuniva varie formazioni partigiane trentine e venete si diede il nome di Divisione “Nannetti”, erano molti infatti coloro che avevano combattuto nelle Brigate internazionali in Spagna.

Come nel caso del figlio della mia governante, avevo usato dell’influenza che potevo avere sulle autorità per chiarire la posizione del dottor Martinez. Trovandosi a Santander il 18 luglio, non poté rientrare a Madrid per tre anni e prestò la sua opera all’ospedale di Valdecilla. Ma poiché nel frattempo, fino cioè al 26 di agosto, non era stato fucilato dai rossi, era sospettato di connivenza. Fu questo medico a parlarmi di Nino Nannetti e a suscitare in me profonda simpatia e anche comprensione per una persona che comunque aveva dato la vita per gli ideali in cui credeva. Soprattutto fu molto toccante per me sapere quanto avesse richiesto i conforti religiosi negli ultimi suoi istanti pur sapendo che sarebbe stato impossibile trovare un sacerdote nella Santander che ormai avvertiva imminente il momento dello scontro decisivo.

Rimanevo allibito dalla facilità con cui i tribunali emettevano sentenze capitali. La sede dei corsi di italiano era nello stesso edificio del tribunale e molto spesso, la sera salendo l’ampio scalone mi capitò di incrociare una fila di condannati che usciva dal tribunale. Sarebbero stati fucilati l’indomani. Mi correva un brivido freddo lungo la schiena, ma nel contempo ammiravo la stoica accettazione di quel che essi consideravano semplicemente mala suerte: non un moto di ribellione, non un tentativo di fuga. Era ben diverso morire davanti a un plotone d’esecuzione che in combattimento, dilaniati da una bomba, colpiti da una pallottola o in uno scontro all’arma bianca. Ci voleva ben più coraggio; non riuscivo ad immaginarmi i pensieri, perché l’orrore mi bloccava prima che anche uno solo si potesse formare.

Ci ripensavo tutta notte, ed era davvero triste il pensiero che tante giovani vite venissero così brutalmente trucidate. Avevo ben voglia di ripetermi che ciò doveva essere fatto; da Italiano non potevo capire fino in fondo, che la guerra non poteva ammettere sentimentalismi. E da quando ero sentimentale?

Tuttavia segretamente li ammiravo, perché vedevo che il loro ideale, la loro fede li sorreggeva anche in quell’attimo estremo.

In nome di questo sacrificio, il supremo bene della Spagna non poteva essere poi così diametralmente opposto se da entrambe le parti si era disposti a mettere in gioco la propria vita. E mi chiedevo se su questa base non si potesse avviare un tentativo di riconciliazione.

Ma era pura velleità, ingenua buona fede. La «guerra di Caino» – come diceva Unamuno – non ammetteva strette di mano, uno dei contendenti era destinato a soccombere. E così stava avvenendo.

Scambiando queste impressioni con i miei alunni, dai loro sorrisi compiacenti e saputi capivo che molta strada dovevo fare ancora prima di riuscire a comprendere un simile comportamento e la mentalità retrostante. La vita era solo un sogno, eppure anche un sogno solo poteva valere una vita. In questo stava tutto l’onore di un vero caballero, la sua hidalguía.

Citavano ad esempio un episodio accaduto nell’inverno precedente. Per rappresaglia contro un bombardamento furono fucilati 287 prigionieri detenuti sulla nave-prigione «Alfonso Pérez», un episodio che ricordava la paurosa esplosione del vapore Cabo Machichaco avvenuta nel 1893 che aveva causato la morte di circa 600 persone ed il ferimento di altre mille.

Due anni dopo l’accaduto, il 27 dicembre 1938 fui invitato dal capo della Falange (y de las JONS, da mai dimenticare) alla messa di suffragio, nella chiesa di Santa Lucia. I discorsi ufficiali, los actos , aggiunsero poco a quel che già avevo saputo dai miei alunni.

Ed erano orgogliosi di ricordarmi l’episodio del colonnello Moscardó durante l’assedio all’Alcázar.

Ecco la descrizione fattane dallo stesso protagonista:

Nel pomeriggio del 23 luglio [1936], squillò il telefono, cercavano me. Sollevai il ricevitore e il capo della Milizia di Toledo disse con voce tonante: «Voi siete responsabile per tutti i crimini e tutto quel che sta accadendo a Toledo; vi do dieci minuti di tempo per arrendervi e consegnare l’Alcázar; diversamente ucciderò vostro figlio che è qui accanto a me».

IO: Non ci credo.

IL CAPO DELLA MILIZIA: Come prova, ora parlerà al telefono.

MIO FIGLIO: Padre!

IO: Che cosa c’è, figliolo?

MIO FIGLIO: Nulla. Dicono che se non ti arrendi mi uccideranno!

IO: Allora raccomanda la tua anima a Dio e muori da vero patriota, al grido di ¡Viva Cristo Rey! e ¡Viva España!

MIO FIGLIO: Un abbraccio di cuore, padre mio!

IO, al Capo della Milizia: Può risparmiarsi la tregua di dieci minuti che mi ha concesso e uccidere mio figlio, perché l’Alcázar non si arrenderà mai.

Non che mi fosse espressamente richiesto, ma ritenevo che alcuni interventi sulla stampa locale potessero servire ad illustrare agli occhi degli Spagnoli ciò che l’Italia andava costruendo, ciò che il Fascismo andava costruendo per l’Italia. Non ritenevo di avere una penna brillante, né di possedere a tal punto la lingua spagnola, eppure mi buttai.

Il mio primo articolo fu per il SEU, il Sindicato Estudiantes Universitarios. Facevo un confronto fra l’organizzazione degli studenti spagnoli e il nostro GUF . Riconosco che fui un po’ truculento quando scrissi: «la sangre generosa y regeneradora de esta espléndida juventud española bañó las primeras camisas azules, haciéndolas sagradas a la Patria », ma era importante mettere in rilievo il ruolo che gli studenti spagnoli avevano avuto e il tributo di sangue che avevano offerto.

Un ruolo simile l’avevano avuto gli studenti interventisti durante la guerra mondiale. E dopo la guerra furono questi stessi giovani ad animare la rivoluzione fascista. Citavo il famoso slogan “libro e moschetto, fascista perfetto”.

Mi lasciavo andare ai miei ricordi, all’atmosfera che avevo respirato durante gli anni di Milano e di Torino: la rivoluzione fascista aveva portato

un clima de fervor y de renovación, debido al encuentro de estas sanas energías revolucionarias con la gran tradición del pensamiento y de la investigación científica… los jóvenes fueron todavía alegres y, si se quiere, más locos que en los tiempos anteriores, pero estudiaron con mayor seriedad y empeño, porque habían comprendido cuán grande era su responsabilidad.

Parlavo indirettamente anche della mia esperienza personale:

desde diez años a esta parte, los hombres que en Italia escalan los puestos de mando de responsabilidad, son jóvenes del … Así se tempran los nervios de los jóvenes, habituándoles al equilibrio constante del hombre entero que debe ser el “fascista perfetto”.

E concludevo con parole che riflettevano un senso di grande ammirazione, e quasi di sgomento di fronte al grande eroismo dei giovani spagnoli:

En esta palestra de trágica grandeza, en medio de la llamarada del cañon y el canto siniestro de la metralladora, la juventud española toda, y en primer lugar los estudiantes, han descubierto y recuperado el alma inmortal de sus antecesores que, purificada por el enorme holocausto de vidas, en este formidable amanecer de la patria, despide resplandores de su antigua virtud anhelando nuevos horizontes de Imperio.

Gli amici da casa mi erano molto vicini. Vittorino stava leggendo le bozze di Natale tunisino scritto l’anno precedente, che gli avevo mandato per «Scuola Italiana Moderna». Mi scriveva:

Ti siamo vicini col cuore e ti auguriamo per il giorno santo molta luce spirituale e di grazia a compenso della lontananza. Scrivici e, se puoi, anche per la Rivista. Ti abbraccio con cuore di fratello.

Anche Marco Agosti aggiungeva i propri auguri: «Nel Natale che passi lontano ti consoli il pensiero e l’affetto degli amici».

Molto belle anche le parole del buon arciprete don Pedrotti, che continuava a darmi del Lei:

Coraggio e sempre avanti. Le auguro ogni bene. Prego che il Signore La protegga e La benedica sempre e possa far tanto del bene a gloria del Signore, ed onore dell’Italia e alla grandezza della Spagna Nazionale.

Mi scrisse anche il professore di disegno, Valentino Bedeschi: ebbe parole di plauso e di ammirazione per il mio lavoro e la “carriera”. E dall’Istituto Gambara mi arrivarono richieste da parte degli studenti che volevano corrispondere con studenti spagnoli. Apprezzai molto anche la lettera di don Sina, aveva letto gli articoli sull’inaugurazione e citava alcune parole, in spagnolo!, che avevo scritto per il supplemento Falanges universitarias del quotidiano «Alerta».

L’origine dell’espressione “far vedere i sorci verdi” si perde indietro nel tempo. Probabilmente deriva dal nomignolo affibbiato dai liberali alle forze dell’ordine borboniche (“sorci di polizia”, era l’epiteto con cui li chiamava De Roberto). Il 24 gennaio del 1938 i tre piloti Attilio Biseo, Bruno Mussolini (figlio del duce) e Nino Moscatelli portarono a termine l’audace trasvolata Guidonia-Dakar-Rio de Janeiroa bordo di tre bombardieri trimotori Savoia-Marchetti S.79C, percorrendo 9850 km in 24 ore e 22 minuti e con un carico di 13.600 chilogrammi ; sulle fusoliere avevano dipinto guardacaso proprio dei “sorci verdi”, come fossero delle mascotte portafortuna.

Su «Alerta» del 27 gennaio lessi il telegramma di Mussolini ai tre aviatori: «Pueblo italiano saluda entusiásticamente fulminante vuelo “ratones verdes”». Nel cielo di Spagna da più di un anno volavano i rata sovietici “perché, come i topi, sembravano sbucare dalla terra». I Marocchini chiamavano invece cucarachas , scarafaggi, i nostri Fiat . E sempre a proposito di topi, il motto della “Pasionaria”«È meglio morire in piedi che vivere in ginocchio» così fu glossato da un’irridente scritta murale: «Miao! Però correte».

In quei giorni passò in secondo piano un altro grande avvenimento, diciamo così, “celeste”, nonostante l’impresa dei tre piloti italiani invitasse a guardare con maggiore attenzione a quanto accadeva in cielo. Infatti nella notte fra il 25 e 26 gennaio 1938 (dalle 20.45 all’1.15) il cielo d’Europa fu illuminato da una “luce sconosciuta”, esattamente come la Madonna di Fatima aveva preannunciato in una delle sue apparizioni a Lucia venti anni prima: era forse quello «il grande segnale» dell’imminenza di un «orribile, orribile» castigo divino – una nuova guerra – e non una semplice aurora boreale come gli astronomi unanimi avevano interpretato?

E anch’io in verità trascurai quel segno celeste perché, come poi avrebbe scritto «Alerta», un «gran número de personas, deseosas de expresar su felicitación y simpatía hacia la nación hermana» affollarono il mio ufficio fra cui il jefe provincial, Ruano, accompagnato da vari esponenti della Falange, l’alcalde, marqués de Pelayo. «Todos fueron recibidos amablemente por el secretario, profesor Oberto Ameraldi, quien agradeció emocionado las muestras de cariño y admiración dedicadas a su patria». Verso sera arrivò anche un famoso e spericolato pilota spagnolo, Juan Ignacio Pombo, «el más joven de los aviadores trasatlánticos», dopo il volo della squadriglia italiana, il “record” passava a Bruno Mussolini. Insieme inviammo un telegramma al ministero dell’Aeronautica.

Giunse anche il messaggio del governatore civile, Augustín Zancajo Osorio, che per la sua importanza in tarda serata portai alla redazione di «Alerta» e del «Diario Montañés». Fu pubblicato infatti nell’edizione del 28 gennaio.

Molto simpatica fu la visita in massa dei miei alunni e alunne che “non tralasciano di approfittare di questa occasione per testimoniare nella persona del loro professore, la propria ammirazione ed affetto verso la nazione, la cui lingua stavano imparando a conoscere” («Alerta» del 28 di gennaio).

Fra il 1937 e il 1938 il regista Goffredo Alessandrini girò il film, Luciano Serra pilota, con Amedeo Nazzari, ispirato alle gesta di Bruno Mussolini. Il rivederlo potrà aiutare a capire quanto a quel tempo si scommetteva sull’aeronautica e soprattutto si comprenderanno i motivi della suggestione e dell’esaltazione legati alle nostre imprese aviatorie.

Tanti segni di apprezzamento erano dovuti anche al fatto che l’aviazione italiana era considerata in quegli anni una delle migliori del mondo e i nostri piloti – fra tutti primeggiava la spavalda figura di Ettore Muti– davan man forte ai nazionali; senza però gli eccessi delle squadriglie tedesche.

La domenica successiva, 30 gennaio ci fu un «espléndido rinfresco» per gli Italiani presso la residenza dell’incaricato della Reale Agenzia Consolare, don Víctor Díez Ceballos. Fummo ricevuti molto amabilmente dalla signora e brindammo alla gloria dell’aviazione italiana.

Dal Ministero dell’Aeronautica italiana era giunto in quei giorni un telegramma di gradimento in risposta a quello inviato dall’aviatore Pombo. Lo portai alla redazione del «Diario Montañés» insieme a un lungo articolo in spagnolo dedicato alla memoria del caro amico Luigi Tempini, il tenente di Pisogne caduto a Guadalajara all’età di soli 26 anni (era nato il 7 giugno 1911). Lo stesso articolo, ma in italiano, fu ripubblicato l’8 di febbraio dal «Legionario».

L’articolo fu barbaramente mutilato, e ciò mi rese, più che triste, arrabbiato. La redazione aveva ritenuto di dover tagliare la lettera di Tempini, ben più importante del mio stesso articolo. Mi sono sfogato con Angelina de Laredo, mia alunna ed amica che mi telefonò dicendomi pure il suo disgusto per la mutilazione dell’articolo. L’articolo uscì poi completo il 10 febbraio.

Conservo ancora una cartolina di saluti che l’eroe camuno mi aveva spedito nel giugno del 1936 dall’Africa all’indirizzo di Brescia (a dir il vero dovette farselo dare da un comune amico, perché mi ero dimenticato di darglielo), proprio nei giorni in cui mi preparavo al colloquio per l’arruolamento. Il portinaio di via Marsala corresse l’indirizzo e me la rispedì a Esine, perché erano già iniziate le vacanze.

L’avevo conosciuto in febbraio, quando avevo deciso di arruolarmi nella Divisione “28 ottobre” per l’Africa Orientale.

L’Italia aveva fatto moltissimo per Santander, e Brescia in particolare. Pensai perciò che fosse doveroso intitolare la Casa del Fascio di Santander a un Bresciano. Il Console e il barone Basile furono favorevoli; fra i possibili candidati la scelta cadde proprio su Luigi Tempini: perché apparteneva alle Camicie Nere e non all’esercito, perché aveva combattuto in Abissinia, perché era caduto a Guadalajara, perché era un ufficiale e perché era giovane. Non sarebbero mancati argomenti agli oratori...

Ne scrissi al mio ex-comandante della 1267 Legione Balilla, Giulio Mora, e si complimentò con me, leggendo la notizia sul «Popolo di Brescia». Fui lieto invece di sapere che stava aiutando mia sorella Margherita nella domanda per insegnare presso le scuole italiane all’estero. Gli avevo scritto per avere notizie più dettagliate sulla “raccolta differenziata”, così da potermi in parte autofinanziare. Già avevo lanciato una sottoscrizione di tessere, ma – come mi scriveva il barone Basile, che tra l’altro e non troppo velatamente mi faceva notare che avevo l’alloggio gratis – dovevo arrangiarmi.

In quegli stessi giorni anche Pisogne si preparava a rendere degno onore al proprio caduto coll’intitolargli la locale Casa del Fascio. Mi scrisse, a nome del Direttorio, Enzo Corna Pellegrini, e prendendola un po’ alla larga («Tu sai che il nostro paese non ha grandi industrie, non ha commercio, e quindi le risorse sono limitate») chiedeva un aiuto («per questo abbiamo pensato che non sarebbe stato male mettere al corrente delle nostre intenzioni anche tutti gli amici dell’indimenticabile nostro Caduto, perché certamente avrebbero avuto piacere di offrire il loro contributo alla costruzione della Casa del Fascio che vogliamo erigere in Suo nome»). Ma più che begli auguri e un modesto contributo personale non riuscii a raccogliere. Nemmeno riuscii ad aiutare il fratello Mario, segretario della Casa degli Italiani di Barcellona, che mi chiedeva di poter venire a Santander come mio collaboratore. Ma le sovvenzioni alla Casa del Fascio non lo permettevano assolutamente. Come di solito accade: grandi promesse, paroloni, ma poi nel concreto bisognava arrabattarsi alla meglio, anche solo per non far brutte figure, essendo in una posizione così in vista.

Il 13 febbraio, per la festa del Papa, fui invitato dal Vescovo di Santander ad assistere alla cerimonia presso il teatro Coliseum Maria Lisarda. Gli oratori parlarono con una grande fede, con eloquenza commovente. Mi resi conto di quanto la religione cattolica fosse per il popolo spagnolo un patrimonio primissimo, il valore assoluto sul quale aveva costruito la sua storia imperiale, la forza pura della tradizione che si apriva sull’avvenire.

Capii nel modo più incontrovertibile che una Spagna unitaria, civile, elemento di equilibrio e di pace nel Mediterraneo non poteva esistere se non concepita come intimamente cattolica, integralmente, coraggiosamente cattolica.

E lo dicevo innanzitutto a me, come Italiano: noi Italiani, non avremmo capito la nuova Spagna a prescindere da questo fatto. Quella mattina, ad esempio, le autorità tutte di Santander avevano fatto la Comunione con Mons. vescovo: ciò dice tutto!

A sera ammainai, solo soletto, la bandiera. Mi ritornò alla memoria l’episodio al “Midi Minuit”: era già trascorso un anno!

Cominciavo a venir assorbito nell’operosità, nell’attività organizzativa, nel lavoro puntuale e delicato della tessitura di una fitta rete di rapporti, mediati, nel bene e nel male dalla mia persona, dal mio carattere, dai miei modi.

Una lettera di Vittorino, che mi chiedeva fra l’altro notizie sulle “scuole che dirigevo” mi riportò al contesto storico:

Seguendo con animo commosso la campagna di Spagna, il pensiero corre agli amici che ne sono testimoni e più da vicino partecipano alle gloriose gesta. Qualche minuto fa – sono le 23 – la radio annunciava che il S. Padre ha provveduto alla trasmissione radio della Messa per i combattenti sprovvisti di assistenza religiosa. Si tratta di una crociata per la difesa della civiltà cristiana.

La lettera mi ricordò innanzitutto che ero e rimanevo fondamentalmente un maestro, di più, un maestro cattolico. Gli amici di «Alerta» mi sollecitavano un articolo per un paginone speciale sulla scuola. Fu l’occasione per riflettere e fare il punto della situazione.

Parlai dell’importanza della scuola elementare nella formazione del carattere e del bambino e anche di tutto un popolo. Perché la scuola primaria è l’istituzione pubblica più vicina al popolo, a tutto il popolo, dalle campagne alla città, dalle classi più umili a quelle più abbienti. Un popolo ignorante è anche un popolo inferiore, perché non sa crearsi i mezzi per difendersi, perché non sa mettere in pratica le fondamentali norme che sono indispensabili per una vita civile degna di tale nome e per la produzione della ricchezza stessa. Un popolo ignorante è anche un popolo privo di vita morale: non essendo dirozzato si comporta in modo primitivo, animalesco quasi. E tantomeno sarà possibile per un popolo ignorante attingere alla vera fede, comprendere intelligentemente la verità evangelica, conformarsi alla pienezza della vita cristiana. L’ignorante non è un credente, è un superstizioso. Teme Dio, non lo ama, e non sapendo amare Dio, non ama nemmeno il prossimo.

Avevo sotto gli occhi i fatti accaduti in Spagna nei mesi appena trascorsi: il «glorioso Governo» spagnolo, pur così impegnato nell’aspra guerra contro il comunismo internazionale aveva mostrato una attenzione particolare alla scuola, con una grande opera di ricostruzione di quanto era stato distrutto dai negatori di Dio e della Patria. Dando con ciò la miglior prova del fatto che una nazione può essere ricostruita partendo dalle sue basi spirituali e pilastri culturali, perché sono i più solidi, i più duraturi, quelli che hanno fatto e continuano una tradizione.

Concludevo il mio scritto con una considerazione sul ruolo del maestro: Il maestro che educa non considera il proprio alunno una cassa da riempire attraverso la fatica quotidiana e ripetitiva dell’“istruire” – in quei giorni il Ministerio de Instrucción cambiava la denominazione in Ministerio de Educación Nacional – ma come una fiamma destinata ad accendere e ingrandirsi alla fiaccola del proprio spirito, della propria fede, nella gioia indicibile della creazione spirituale. In questo modo il maestro non è il lavoratore di una materia bruta, caduca, ma colui che dà vita a una fiamma immortale, che è l’anima. La sua opera si avvicina molto alla missione del sacerdote. E di conseguenza anche la dignità che ne deriva è ben diversa e d’altra levatura.

Nel marzo del 1938 proprio in uno dei corsi di italiano capitò un fatto che mi lasciò perplesso non poco. Avevo come alunno un avvocato, Francisco Castrillo, di 32 anni in procinto di sposarsi con un’allieva del corso, che per la differenza di soli due anni non era stato richiamato alle armi. Una sera, alcune compagne scalmanate per la politica gli consegnarono una busta contenente penne di gallina. Il gesto equivaleva all’insulto di codardia perché non era accorso ad arruolarsi volontario. Di fronte a un messaggio così esplicito, il giovane avvocato si arruolò nella Legione. Due settimane dopo la sua salma faceva ritorno a Santander. Ai funerali la fidanzata si dette a vedere talmente addolorata che temetti seriamente commettesse un atto inconsulto. Quella stessa sera presenziai all’inaugurazione del Hogar del herido, il Focolare del ferito; e quale non fu la mia sorpresa nel trovarvi la stessa giovane. Al buffet che seguì, mangiò di tutto, bevve di più, euforica fino all’esagerazione. Un comportamento che non mi sarei proprio aspettato. Questo episodio mi lasciò esterrefatto; da qui cominciai a correggere il mio giudizio sulle donne spagnole.


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