Ameraldi - 7.4. La Spagna Documento senza titolo

Oberto Ameraldi:
Una vita di fede per la scuola

Brescia : Fondazione Civiltà Bresciana, 2000. - (Cattolici & Società ; 11), p. 231-242.


7.4. La Spagna (parte quarta)

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In quegli stessi giorni del marzo del 1938, giunsi persino a ricattare il delegado de orden público, corrispondente alla carica di questore, il señor De Pyray, minacciando di lasciare la Spagna qualora avesse fatto fucilare una telefonista, sospettata di essere una “pedina del Socorso rojo ”.

Ma ecco il fatto: per motivi d’ufficio dovevo trasmettere alle nostre autorità consolari di San Sebastián una comunicazione urgente pervenutami dal ministero dell’Organizzazione sindacale. Quella mattina, nonostante ripetuti tentativi, la centralinista non si decideva a darmi la linea. Redarguita energicamente mi rispose con una risata beffarda, troncando la comunicazione. Mi rivolsi immediatamente al questore, denunciando un sospetto atto di sabotaggio. Nel giro di pochi minuti fui in grado di parlare con San Sebastián. Il giorno seguente fui convocato nell’ufficio del questore per firmare una denuncia a carico della telefonista. Mi ricevette calorosamente offrendo un piccolo rinfresco. Brindò alla collaborazione italiana in favore della cruzada española, e col sapore dei pasticcini ancora in bocca mi invitò a firmare il verbale di denuncia. Quella mia firma sarebbe bastata a portare la povera centralinista davanti al plotone d’esecuzione. Sudai freddo per qualche minuto, rimasi interdetto per un tempo che mi parve infinito; non era uno scherzo: la vita della ragazza dipendeva da quella mia firma. Pensando al rimorso che mi avrebbe accompagnato per il resto della vita, per prendere tempo inventai il pretesto che non potevo sottoscrivere la denuncia senza l’autorizzazione dei miei superiori; e di mio, a rischio di esser fucilato insieme alla centralinista, aggiunsi che se la ragazza fosse stata fucilata avrei lasciato la Spagna , facendo intendere che la sbandierata “collaborazione” aveva per me dei limiti ben precisi, e che non volevo essere corresponsabile della condanna a morte di una persona in nome dell’amicizia fra i nostri Paesi.

La mia reazione, così inaspettata e ferma, impressionò il questore De Pyray. Il quale accolse la mia richiesta: «per non perdere un “amico”» mi disse tranquillizzandomi; ma più probabilmente per ragioni di opportunità, per non farne, cioè, un caso internazionale.

La centralinista, dopo dieci giorni di prigione ritornò al suo lavoro. Non mancò di passare a ringraziarmi per il mio intervento. A mia volta mi scusai per il gravissimo rischio che involontariamente le avevo fatto correre.

Il 20 marzo, sulla rivista «Nacional-sindicalismo. Revista de la central nacional sindicalista de la Montaña » apparve il primo di quattro miei articoli in cui cercavo di mettere a confronto i sistemi economici del fascismo e del Nacional Sindicalismo. Il 30 gennaio Franco aveva formato il primo governo. Uno dei primi importanti provvedimenti (9 marzo) fu l’emanazione del Fuero del trabajo, modellato sulla Carta del lavoro. Per i contenuti programmatici che andavano ben oltre l’ambito della regolazione dei rapporti di lavoro, fu considerato alla stregua di una costituzione. Si ispirava apertamente ai 27 punti della Falange di José Antonio, tuttavia, due fra i più importanti furono eliminati: la nazionalizzazione delle banche e la riforma agraria.

Vincente Miramar, commentatore del «Alerta» mi presentò con parole lusinghiere:

Honra hoy estas columnas la firma de un extranjero. He dicho mal; el profesor Ameraldi no puede serlo para nosotros. Españoles y italianos no se han considerado nunca como extraños y aún menos ahora en que un lazo de sangre y de ideales funde dos pueblos en un anhelo común.

E mi piaceva che avesse sottolineato che non c’erano

vallas ni límites capaces de separar los corazones ni las ideas,

perché nonostante l’amore per il paesello, avevo cercato in tutti i modi di superare quanto ancora ci fosse in me di provinciale, di valligiano.

Nel primo articolo, Que es el corporativismo fascista, delineavo molto sommariamente – tenuto conto dei lettori cui si rivolgeva la rivista – le caratteristiche dello stato corporativo. «El sindicato fué y es una genial creación y una conquista indiscutible», ma col tempo aveva assunto le caratteristiche di uno Stato dentro lo Stato. Nello stato corporativo il sindacato dei proprietari e dei lavoratori (cioè, la corporazione) è un organo dello stato. E concludevo:

En este plan de justicia social fascista y sobre todo cristiana, las energías y los esfuerzos del Partido (sinónimo de buena voluntad) se multiplican en progresión providencial hasta poder conseguir que todos los italianos sean en realidad camaradas y hermanos en el más amplio significado cristiano de la palabra.

Nel secondo articolo, Carta del trabajo y Fuero del trabajo, dicevo innanzitutto che «cada una de estas leyes son el fruto de dos revoluciones» e che ciascuna rifletteva la storia del proprio paese: la Spagna aveva «derrotado en su propia casa, y para siempre el marxismo» mentre l’Italia aveva sconfitto «el liberalismo social-masónico y el capitalismo jud í o, explotador del individuo y del Estado». Carta e Fuero accomunavano

el campesino de Castilla y el colono del Imperio italiano. Ellos, que han sido soldados de la misma Causa antes que trabajadores; ellos, que conservarán siempre las viejas guerreras con que fueron al triunfo, explicarán a sus hijos en las pausas del trabajo en los campos, como dos Caudillos después del haber rechazado la barbarie asiática más allá de los montes que forman el sagrado baluarte de la Patria , recogiendo el mandato y el testamento espiritual de los mil muertos por ella, hicieron la grandeza y el porvenir de las dos naciones hermanas.

Nel terzo articolo, El trabajador fascista en la vida del Estado, riprendevo e approfondivo alcuni punti: dicevo che il capitale «es un instrumento de la producción y es igualmente indispensable que el trabajo» condannando perciò la tendenza del capitalismo a «absorber toda la riqueza fruto del trabajo». Sostenevo che il lavoro era un diritto, un dovere e un onore, perché il lavoratore aveva «intuído el valor nacional y moral de su fatiga». Alla base di questa concezione stava la mia convinzione che una buona politica non fosse «más que la traducción práctica y humana de un mandato divino».

Nell’ultimo articolo, Experimento fascista integral, trattavo dell’Abissinia. La missione civilizzatrice italiana aveva innanzitutto spazzato via la schiavitù; l’occupazione dell’Africa orientale non aveva caratteristiche di sfruttamento, né era una colonia di deportati. Il fascismo aveva instaurato una nuova coscienza coloniale, un «esperimento de Fascismo integral», L’Abissinia

se ha convertido en escuela de virtud, que devuelve a los hombres que allí han trabajado con una nueva y magnífica sensibilidad política y patriótica, con una nueva concepción moral de la vida; esta comprobación nos llena de esperanza y de fe: Corporativismo y Nacionalsindicalismo, llevan en sí los fermentos y las ideas de una reorganización providencial, que hará que resplandezca la paz cristiana en el Mediterráneo, hoy más que nunca “Mare Nostrum”.

Avevo messo molto di personale in questi articoli, non riflettevano in tutto la posizione ufficiale, ma preferivo essere capito, spiegare semplicemente le cose come io stesso le avevo capite, piuttosto che improvvisarmi saggista e scrivere di arida teoria.

Una delle ricorrenze più significative celebrate sotto il regime fascista era la fondazione dei Fasci avvenuta a Milano il 23 marzo 1919, in Piazza del Santo Sepolcro. Per le nostre rappresentanze all’estero era l’occasione per visite ufficiali alle autorità che ci ospitavano e interventi sulla stampa, per ribadire le idee “rivoluzionarie” del fascismo e alcune tappe della storia italiana recente. Come sempre i discorsi ufficiali si adattavano di anno in anno alle diverse opportunità, caricandosi vieppiù di espressioni metaforiche misticheggianti. Gli amici della redazione di «Alerta» mi aiutarono a stendere un articolo per la rubrica Atalaya:

La palabra – dura como el diamante, afilada como un cuchillo [coltello] – de un hombre enérgico, fué un rayo de luz para los reunidos en aquella casa milanesa. […] Tenso el espiritu y el corazón de los “sansepolcristas”. Sobre ellos, como hiciera Cristo sobre la cabeza de Pedro, fundó Mussolini los fascios de combate. Y nuevos apóstolos de una idea redentora se diseminaron por Italia para sembrar [ seminare ] las primeras “escuadras de acción” que en 1922 habían de dar el fruto espléndido de la marcha sobre Roma. […] Hoy conmemora Italia aquella reunión de los hombres que han hecho del Fascismo barrera inconmovible opuesta a la barbarie de los que non tienen Dios, ni Patria, ni ley porque en su alma podrida [putrida] non hay lugar más que para el egoísmo y el odio. […] Y son aquellos “sansepolcristas” de Milán los que al rehacer espiritualmente su Patria levantaron rectamente a la humanidad toda como una flecha que se dispara hacia lo alto…

Altra ricorrenza solenne era il 21 aprile, anniversario della fondazione di Roma. Dopo l’emanazione della Carta del lavoro si celebrava in questo giorno anche la Festa del Lavoro, che le “democrazie” celebravano invece il 1° maggio. Fu l’occasione per riaffermare i vincoli di amicizia e di affinità fra Italia e Spagna. Intervennero le massime autorità culturali di Santander: don José Royo, direttore del Instituto Nacional de Segunda Enseñanza, che ci ospitava, improvvisò un intervento pieno di originalità sul concetto della filosofia della storia; don Alberto Dorao, presidente dell’Ateneo, «vittima della mia insistenza», tenne l’orazione ufficiale su Roma y el Derecho Castellano; don Victor Díez Ceballos; il señor F. Arche della Falange Española Tradicionalista y de las Jons; la dirigente provinciale della sezione femminile e madrina del nostro gagliardetto, la señorita Olivia Pérez; il direttore della biblioteca Menéndez Pelayo, don Enrique Sánchez Reyes; rappresentanti della SEU e un nutrito gruppo di camicie nere.

Nel mio breve discorso mi rivolgevo soprattutto ai giovani: «Vosotros que séis la España del mañana, séis los llamados a tomar parte en esta fiesta». Riuscii ad evitare i paroloni più vieti della solita italica magniloquenza per concentrarmi su concetti molto più sobri ma più chiari e di maggior forza («Os digo ahora con franqueza y dureza de fascista y en pocas palabras, una verdad que todo buen joven español debe tener presente para comprender la Italia de Mussolini, para saber una vez más su deber de trabajar para el resurgir imperial de la España de Franco»):

Nosotros, fascistas, hemos reconstruido, nuevamente, con la sangre de nuestros mejores, de nuestros inmortales, un Imperio teritorial, pero miramos en el campo espiritual a algo más grande y eterno: creemos en la misión eterna de Roma, y por eso miramos para salvaguardar el Imperio espiritual católico de Roma en Europa y en el mundo. Y hemos comprendido que ese Imperio no puede ser extrictamente italiano: debe ser latino, mediterráneo, y por eso hemos saludado con el ímpetu más sincero de nuestros corazones a vuestro invicto Caudillo, cuando, con la sangre de vuestros héroes, escribió la palabra “fin” a la vida de gobierno de los negadores de Dios y de los traidores de vuestra gran Patria, dando comienzo a esta guerra libertadora de España y del mundo. Necesitamos una España grande y libre, una España imperial, imperial en todo el más amplo sentido de la palabra, para que pueda cumplirse nuestro sueño de grandeza y de explendor Mediterráneo. Por eso no hay ninguna doblez en nuestra acción: podemos mirarnos cara a cara, seguros de sabiernos hermanos, más que nunca y para siempre. Italia y España, hermanas por sangre, por religión, por idioma, han salvado y salvaràn en lo futuro la cultura y la civilización europea.

Risentendo questi concetti mentre parola per parola li andavo scandendo mi parevano di una novità di cui io stesso mi stupivo. Mi sembravano inoltre del tutto ripuliti da quella patina di effimero divertissement così evidente nei discorsi di circostanza dei nostri gerarchi.

Concludevo poi, data l’occasione della celebrazione, riprendendo alcuni punti che avevo già sviluppato per gli articoli: il lavoro inteso come diritto-dovere e insieme anche onore, così come il radicamento cristiano sia della Carta del lavoro come del Fuero del trabajo.

La sera ci si riunì presso la Casa del Fascio per ascoltare da Radio Saragoza un discorso del barone Basile.

Arrivavano via via le notizie della inarrestabile avanzata dell’esercito nazionale, validamente coadiuvato dalle nostre truppe. Ad esempio quando cadde Lérida (città fra Saragozza e Barcellona) si ripeterono in Santander le manifestazioni di esultanza ed euforia come il giorno della sua stessa liberazione: i negozi chiusero spontaneamente, nella cattedrale il vescovo cantò il Te Deum, si formò poi un corteo lungo il Paseo de Pereda fino alla sede della falange, contigua alla Casa del Fascio. Il ministro de Obras Públicas (De la Peña) tenne un discorso durante il quale, ricordando il determinante contributo italiano, mi chiamò al balcone e ricevetti da tutta quella grande folla una entusiastica ovazione.

Come avete potuto notare fu una primavera intensissima.

Molti piccoli tasselli di vita che mi era dato di vivere, le stesse manifestazioni ufficiali che organizzavo o a cui ero invitato erano parte e riorganizzavano anche il mio modo di pensare, il mondo dei miei pensieri. Mi sentivo vivo, attivo, ben dentro nei fatti, “nella corrente”; un po’ frastornato, è vero, con un’agenda quanto mai fitta di impegni, ma reggevo magnificamente.

C’è un’espressione molto colorita in spagnolo per indicare la conclusione disordinata e tumultuosa di una riunione per mancanza di accordo fra i partecipanti: acabar como el rosario de la aurora. Mi ricordai di questa espressione il 7 aprile (per coincidenza anche l’ultimo giorno del secondo gabinetto Léon Blum, durato meno di un mese) partecipando al Rosario del Alba, una grande processione notturna in onore della Madonna, che precedeva quelle solenni della Settimana Santa.

Due file di persone si sgranavano lentissimamente cantando preci alla vergine. Nella notte fonda questa interminabile fila mi faceva impressione: nel suo lento incedere c’era qualche cosa di immenso, di fatale che mi lasciava sconcertato. Perché quei devoti non stavano chiedendo nulla, non volevano un impero, non volevano lavare il sangue fraterno di cui ancora erano intrisi fino alla gola. Era semplicemente il popolo di Dio, umile e schietto. Testimoniava la propria fede, la grande tradizione, la profonda unità.

Aggiunsi una quarta serie di misteri al mio rosario personale, i “misteri luminosi”. Il primo dei quali era senza’altro la fede religiosa che vedevo essere forza vitale del popolo semplice.

E riflettevo sul fatto che, nonostante le mille cose cui badare, la fede e la tradizione, valori ad un tempo popolari e spirituali, con la loro sequela di rose e misteri costituivano la grande forza unitaria che mi permetteva di lavorare con serenità e con altrettanta fiducia di guardare al futuro.

Il lampo di un confronto mi percorse la mente: la disgregazione della Spagna aveva avuto origine sostanzialmente perché fede e tradizione erano state snaturate…

Fra l’aprile e il maggio del 1938 dovetti ricorrere una seconda volta al governatore militare. Uno dei nostri soldati, innamoratosi di una giovane santanderina, di nome Amparo, non aveva seguito il reparto di appartenenza, rimanendo da disertore a Santander in casa della sua bella. La giovane Amparo era però sorvegliata perché era stata la compagna di un alto funzionario comunista, fucilato dopo la presa della città. Già alcune volte la Guardia Civil era andata per arrestarlo, ma il soldato italiano, che si era autopromosso tenente, era sempre riuscito a impedire l’arresto. Finché le autorità subodorarono l’imbroglio e arrestarono la giovane Amparo segnalando al mio ufficio la probabile presenza di un disertore italiano. La giovane donna fu tratta in arresto e condannata a morte; essendo però già al sesto mese di gravidanza, la sentenza venne rimandata. Disperato, il soldato italiano, Salvatore C. originario di Palermo, si presentò nel mio ufficio implorando di fare qualcosa per salvare la sua Amparo. L’ambiente del consolato mi aveva reso più familiari le pratiche anagrafiche e quelle relative alla cittadinanza, e così pensai di trovare nella burocrazia un modo per risolvere una situazione ingarbugliata e in fin dei conti anche estremamente seria: entrambi i protagonisti rischiavano il plotone d’esecuzione.

Certo dei sentimenti dei due giovani, suggerii loro di sposarsi, in tal modo Amparo, divenendo cittadina italiana, sarebbe sfuggita ai rigori della legge spagnola.

Consigliai nel contempo a Salvatore di costituirsi al nostro tribunale militare di Vitoria. Vista la buona disposizione a collaborare scrissi una lettera al Tribunale descrivendo dettagliatamente gli avvenimenti e dando ampie assicurazioni sul carattere, sulla buona fede e fondamentale lealtà del nostro connazionale. La sentenza fu mite: cinque anni di carcere militare a Gaeta, in seguito ridotti a tre.

Pochi mesi dopo Amparo partorì un bel maschietto. Fornita di passaporto italiano poté lasciare la Spagna e riabbracciare, a Gaeta, l’amato Salvatore.

Il caso di Salvatore mi ricorda il suo curioso modo di esprimersi e mi offre l’occasione di parlare dell’ idioma de flechas. Erano chiamate flechas due Brigate miste istituite il 31 gennaio 1937: la prima delle Flechas Azules e la seconda delle Flechas Negras. Fra i militari era nato spontaneamente un gergo misto di spagnolo e di italiano che poteva essere usato solo fra soldati. Il Legionario ogni tanto riportava alcune di quelle parole:

ACABAR : in linguaggio legionario “acabar con el enemico”, significa farla finita col medesimo.

ABURRIMIENTO : Stato d’animo che pervade i legionari quando stanno troppo tempo senza scorgere un miliziano.

ACECHAR : Compito generico di tutti i legionari quando aspettano l’uscita delle ragazze, e specifico delle vedette e sentinelle quando aspettano i miliziani. Sotto, ragazzi!

ABANICO : Strumento impiegato dalle donzelle per civettare facendosi aria, e zona di fuoco prodotta dai mitraglieri per «dar aria» ai miliziani

BANDOLERO : Nome tanto bello per brigante che viene voglia di diventarlo.

CURVA : Curva. Ci sono le curvas delle carreteras e le curvas della ragazza procace, di cui si dice che “tiene curvas como las carreteras de Pamplona”.

CANALLA : Canaglia: aggettivo internazionale da impiegarsi con la maggiore larghezza parlando dei capi rossi e russi al servizio dell’agente ufficiale del governo di Mosca Largo “Canallero” .

Dato il carattere semiufficiale dell’istituto che dirigevo, spesso venivo consultato dalle autorità spagnole per questioni che riguardavano italiani residenti o di passaggio. Fu il caso, ad esempio, di un genovese, secondo ufficiale di macchina su una petroliera italiana. Giunto a Santander aveva spedito alla futura sposa un quaderno in cui oltre a dichiarare il proprio appassionato amore aveva anche tracciato il progetto della casa che aveva intenzione di costruire. Il plico fu intercettato dalla polizia e dichiarato sospetto proprio a motivo dei disegni. Mi bastò una scorsa al quaderno per rendermi conto di che cosa si trattasse e tranquillizzai perciò l’ufficiale della Guardia Civil che era venuto a chiedermi spiegazioni sul contenuto. Mi recai in seguito alla petroliera per riconsegnare il quaderno all’ufficiale offrendogli l’opportunità di utilizzare il corriere diplomatico. E così fu fatto.

L’aspetto più curioso di questa vicenda riguarda il luogo dove quell’ufficiale avrebbe voluto costruire la propria casa: era talmente stanco della vita errabonda e piena di pericoli del marinaio, che al suo rientro a Genova si sarebbe inoltrato sulla terraferma con il remo in spalla fino a quando avrebbe incontrato qualcuno che non sapesse che cosa fosse il mare e non ne conoscesse il nome: lì si sarebbe fermato e avrebbe costruito la propria casa. Non so quanta conoscenza dell’Odissea avesse il nostro ufficiale, o se in una notte di burrasca si fosse ricordato del racconto di un qualche vecchio lupo di mare, certo è straordinario il fatto che, per farla davvero finita col mare, avesse pensato a una soluzione del tutto simile a quella indicata ad Ulisse dall’indovino Tiresia.

 


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