Ameraldi - 7.5. La Spagna Documento senza titolo

Oberto Ameraldi:
Una vita di fede per la scuola

Brescia : Fondazione Civiltà Bresciana, 2000. - (Cattolici & Società ; 11), p. 242-265.


7.5. La Spagna (parte quinta)

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Una delle più imponenti manifestazioni della amicizia fra Italia e Spagna che il mio modesto ma costante lavoro aveva forse contribuito ad allacciare ebbe luogo il 9 di maggio presso il grande auditorio Coliseum Maria Lisarda , in occasione delle celebrazioni del II anniversario dell’Impero ed il bimillenario di Augusto. Intervenne da San Sebastián il R. Console d’Italia e il governatore civile Zancajo Osorio. Ma ciò che mi rese sopra ogni cosa contento fu la presenza in sala di circa 3.000 Spagnoli. A detta del console Cavalletti fu la più solenne cerimonia Italo-Spagnola del Nord-Spagna.

Ebbi un ultimo appuntamento ufficiale, il 19 maggio, per la commemorazione del 26° anniversario della morte di un grande montañese, don Marcelino Menendes y Pelayo (l’Oriani spagnolo), presso la biblioteca omonima, alla presenza di tutte le autorità santanderine, e di 3 Ministri del Governo del Generalissimo Franco: Alfonso Peña Boeuf, ministro delle Obras Públicas, P. Gonzales Bueno, ministro dell’ Organización y Acción Sindical e Pedro Sáinz Rodriguez, ministro dell’Educación nacional. Quest’ultimo mi parlò amabilmente in italiano.

Avvicinandosi l’estate gli impegni si andarono un po’ diradando, cosicché nelle ultime due domeniche di maggio feci delle belle escursioni nei dintorni a godermi «sole, aria, mare; o meglio: oceano». Il 29, dopo una festa italo-spagnola in mattinata alle Farolas, visitai i cimiteri di guerra italiani al Passo del Escudo, e poi al Balneario di Corconte. Lungo il percorso mi fermai anche ad Entrambas-Mestas.

L’anno scolastico andava terminando, si sarebbe concluso infatti il 25 maggio. La sera di lunedì 30 maggio le mie alunne mi fecero una graditissima improvvisata alla sede del Fascio. Erano venute in delegazione a testimoniarmi la loro «gran simpatía», offrendomi col «más cumplido elogio por la labor cultural que ha desarrollado en Santander, algunos presentes en recuerdo de este su primer curso». Entrando nel salone dove mi attendevano fui accolto dall’inno nazionale italiano. La più giovane delle corsiste mi porse i regali: una cartella da scrivania con gli angoli in argento, tre libri rilegati in pelle, un album di fotografie con vedute di Santander (riempito nelle pagine iniziali da numerosissime firme - un ricordo che terrò sempre caro) «una colecta para los heridos italianos hospitalizados» e una pergamena con «sentida dedicatoria» seguita dalla firma di tutti gli alunni.

Visibilmente commosso ringraziai «dedicando seguidamente brillantes párrafos a la Causa de la civilisación occidental y de la paz de Europa, que con tanto ahinco defienden los dos pueblos hermanos». Non dimenticai «un piadoso recuerdo para los caídos en la Cruzada ».

Il quotidiano «Alerta» del 1° giugno che riferisce l’episodio concludeva: «A las nueve y media se dió por terminada tan agreable manifestación de simpatía hacia el camerada Ameraldi, que ha sabido conquistar el cariño de cuantos ha tenido el honor de conocerle». Quando lo lessi divenni paonazzo d’imbarazzo.

Il 17 giugno consegnai i diplomi e si concluse così un anno scolastico straordinario e incredibilmente ricco di esperienze, di amicizie, di insegnamenti. Tredici dei miei alunni furono premiati con un viaggio in Italia.

Due giorni dopo rientravo anch’io per il consueto periodo di vacanze e le altrettanto consuete escursioni in montagna, col nuovo bahtù de fradìga, un pedo di bagolaro, con incisi il mio nome e in lunghezza una spira intrecciata (la pianta è anche detta arcidiavolo!), la bella impugnatura ricurva. Al ritorno, spesso mi fermavo a Montedèi per salutare i gemelli Speziari dei Lìsce, Alessio e Natale (Lèscio e Nedàl). Una volta, proprio all’inizio del sentiero che portava alla loro cascina mi chinai a raccogliere delle noci. Mentre ci scambiavamo i saluti ruppi coi denti una di queste noci e mi riempii di cenere la bocca e i vestiti. I due fratelli risero a crepapelle dello scherzo, ma vollero ricompensarmi raccontandomi un episodio davvero straordinario: una danza macabra nei Giólcc.

I Laghetti di Esine cominciavano a diventare un fenomeno geologico che attirava l’attenzione dei geologi. «Il Popolo di Brescia» il 30 luglio segnalò in sunto un importante articolo di Gualtiero Laeng apparso su «L’Universo» del mese precedente.

Durante l’estate mi giunse notizia di un mio eventuale trasferimento a Málaga. Il Console Cavalletti insistette, in via ufficiale, opponendosi al mio trasferimento, e così l’allarme rientrò.

Nel frattempo, venerdì 26 agosto, era stato celebrato in modo solennissimo l’anniversario della liberazione di Santander, come lessi dal resoconto di Dante Pariset su «Il Legionario» del 30 agosto e come già mi aveva preannunciato Miguel Lopez Dorigo della Falange. Alla grandiosa sfilata intervenne anche «applauditissima, la piccola rappresentanza del Fascio italiano di Santander».

Rientrai il 3 settembre.

Fra la montagna di posta arrivata che trovai al mio rientro, mi ricordo di un dotto articolo del giornalista Giovanni Ansaldo su «Il Legionario». L’eroe immortale e spagnolissimo di Cervantes, per quel suo indomito anelito alla giustizia assoluta, a quel senso del dovere che proviene dal profondo della coscienza e che fa dire, trionfalmente: «aquí encaja la ejecución de mi oficio» («è qui che c’è bisogno dell’opera mia», Don Chisciotte , parte prima, cap. 22), sarebbe stato un “anarchico intellettuale” del FAI . «Ma appena avuta notizia dello ammazzamento di Calvo Sotelo, delle prime matanzas di monache, dei primi massacri di gente inerme, avrebbe subito fatto un mutamento di fronte; e […] si sarebbe buttato a combattere per la civiltà dell’antica Spagna, per l’ideale della autorità affermato colla forza del braccio, contro il volgo sanguinario e vile.

Osservate ad esempio la fotografia scattata durante il corteo il giorno della inaugurazione della Casa del Fascio. E ridete di gusto con me: Augustín Zancajo Osorio ed io siamo proprio come Don Chisciotte e Sancio Pancia: lui magrissimo, altissimo, con lo sguardo trasognato. Io invece, piccolo, un poco tracagnotto, infagottato in una divisa troppo nera, con stivali troppo lucidi e un’ombra di sorriso bonaccione e forse troppo compito.

Nella mente mi ritornavano le parole di Don Chisciotte, così semplici e così concrete, e me le traducevo ad uso e consumo personale, pensando ai locali della Casa del Fascio, al mio lavoro, che si muoveva entro gli estremi della più ingessata ufficialità e dei casi concreti e un poco assurdi che quotidianamente mi capitavano. Questi sembravano mi capitassero belli e squadrati proprio solo a me, quasi me li fossi andati a cercare, quasi ci fosse un destino o una mano superiore che puntando l’indice con autorità mi avesse scelto come la persona più adatta a risolverli. Non mi sentivo per questo un eletto, anzi il primo a sorprendersi della buona riuscita ero proprio io, e non mi attribuivo meriti speciali, semplicemente mi trovavo per occasione ad avere sottomano l’incastro perfetto del mosaico, il modo giusto per accomodare le cose, per volgerle a buon fine: “aquí encaja la ejecución de mi oficio”.

Né il carattere semiufficiale del mio lavoro quale rappresentante del Fascio e dell’Italia, né la mia figura di insegnante potevano costringere l’esuberanza giovanile che sul suolo di Spagna pareva aver trovato buona esca per infiammarsi: la Spagna era una terra allegra, ricca di ogni bene e di belle e simpatiche ragazze. Appunto le ragazze, le allieve dei corsi di italiano mi fecero scoprire un lato nascosto di me.

Per qualche tempo sentii di avere una seconda identità, quella che avrei desiderato, ma che inconsciamente – sentendomi ancora impreparato – respingevo mettendola in burla.

Spesso le mie alunne, – per la maggior parte in età da marito – mi chiedevano se fossi sposato, perché non avessi portato mia moglie, se avessi dei figli. Stanco della petulanza, inventai una storia talmente inverosimile, che solo Marco de la Hàca avrebbe potuto darne a bere una più grossa. Raccontai che effettivamente da tre anni ero sposato con una negra di Tunisi: l’avevo messa incinta e Mussolini mi aveva obbligato a sposarla. Era una semiselvaggia, e lì in Spagna mi avrebbe fatto sfigurare. Il bambino poi era addirittura un caso biologico, le leggi di Mendel sull’ereditarietà venivano minate alla base: invece di essere mulatto, aveva la pelle a chiazze bianche e nere e per sommo tocco di stravaganza il culetto era metà bianco metà nero.

Non so quando fu con esattezza, ma l’idea di sposarmi era stata procrastinata sine die. Qualora si fosse presentata la fortunata occasione non avrei esitato a compiere il gran passo. Le ragazze spagnole erano belle e ingenue, il loro sogno era un principe azzurro e una bella casa grande con servitori in guanti bianchi. Riconoscendo la saggezza del proverbio, avrei atteso il rientro in Italia per guardarmi d’attorno e scegliere una moglie dei paesi miei. Temevo che le differenze invece di amalgamarsi sarebbero venute maggiormente allo scoperto, e che un eventuale figlio ne avrebbe portato evidenti le conseguenze, talmente evidenti da essere mostrato a dito come fenomeno da baraccone. È ben vero che in quegli anni andavano maturando schematismi molto rigidi in materia di razza – anche opportunistici, se vogliamo. Ma non direi che fosse il motivo razziale a escludere a priori un matrimonio con una tunisina o una spagnola. Se nella caricatura a mio uso e consumo che mi ero fatto le Tunisine erano “semiselvagge”, le ragazze spagnole erano effettivamente di un candore quasi primitivo.

Amavo molto l’Italia, Brescia, la Valle : il mio proposito era di spendere la mia opportunità con una delle nostre giovani donne, che non erano dammeno rispetto alle molte che avevo conosciuto. Temevo che la differenza fra culture avrebbe portato a uno squilibrio, a una fatale incomprensione, che l’amore non sempre avrebbe avuto la meglio sulle differenze. Andando col pensiero a un eventuale “accordo” delle nostre voci e vite nel matrimonio, prontamente un detto bertoldesco del nonno mi ricordava quanto fossero stonate le “vacche spagnole”.

A proposito di questioni razziali, ho due piccoli episodi che mi sono capitati in Spagna. A Tunisi, davanti al “Midi-Minuit”, avevo già fatto la conoscenza con un ebreo facinoroso: un pugno ben assestato l’aveva ributtato fra la masnada dei suoi degni compari. In quel caso la differenza di razza davvero non c’entrava. Se mai di ideologia.

Il tenente colonnello Giorgio Morpurgo era capo dell’ufficio servizi del Comando del CTV alla vigilia della battaglia di Guadalajara. Circa un anno dopo, in seguito alle leggi razziali, venne destituito del grado e espulso dall’esercito. In attesa della data del rimpatrio ebbe modo di partecipare ad un’ultima battaglia: balzato in testa ai suoi soldati sventolando il tricolore avanzò verso le postazioni nemiche fino a quando una sventagliata di mitragliatrice gli stroncò la vita. Fu un episodio gravissimo e commovente che lasciò un’eco profonda in tutto l’ambiente degli Italiani di Spagna. Ben difficilmente troverete traccia della sua morte eroica negli annali del CTV, né gli storici – anche dopo l’avvento della democrazia – hanno voluto anche solo citarlo, come si fosse voluto tacitamente condannarlo all’oblio.

Il secondo episodio riguarda l’ ingeniero civil José (Giuseppe) Almagià. Ho già ricordato il suo aiuto nei primi giorni dopo il mio arrivo a Santander. Dopo l’emanazione delle leggi razziali (ottobre 1938), ai nostri uffici venivano chieste informazioni su cittadini italiani, “giudei”. L’uso di questa parola suona offensiva al giorno d’oggi; a quel tempo era invece di uso comune, ma al proprio significato aveva aggiunto una vena di quella carica di disprezzo che gli alleati germanici facevano chiaramente intendere pronunciando la parola Jude. L’esempio veniva dall’alto: il 30 gennaio 1939 Hitler aveva dichiarato al Reichstag che, se fosse scoppiata una nuova guerra mondiale, ciò avrebbe provocato l’annientamento della razza giudaica in Europa.

Che ci fosse qualcosa di razzistico anche nella nostra campagna d’Abissinia è oggi innegabile; a quel tempo l’accento veniva posto piuttosto sulla missione civilizzatrice della nuova Roma. Probabilmente non eravamo meno razzisti delle altre potenze coloniali. Mi risultava completamente estraneo il nuovo atteggiamento, ed ero cauto nel dare giudizi definitivi. Viste dall’estero, poi, queste leggi ci sembravano quel che erano: un anacronismo storico inaccettabile e che, alla lunga, avrebbe gravemente screditato il buon nome d’Italia.

Un conto era propagandare quanto fossimo bravi in tutto (forse lo eravamo davvero, a cominciare dal quel “genio” di Mussolini, così ammirato soprattutto dagli Spagnoli – el hombre genial –; ma la storia, col tempo, si incarica di punire i peccati di orgoglio, di rintuzzare le effimere vanaglorie); un conto era discriminare con lo stigma del disprezzo razziale, del sospetto, con le accuse false e infamanti chi per atavica tradizione si era sempre tenuto distinto dal resto dell’umanità.

Riconosco che è ben difficile per un popolo che si autodefinisce eletto da Dio abbassarsi a condividere la sorte dei comuni mortali; ma considerarlo marciume della società, “peste delle nazioni” e diretta minaccia alla eletta purezza della razzami sembrano reazioni altrettanto eccessive e sono senz’altro spia di ben altro: la società fascista, speculare sul piano laico e politico a quella ebraica, dirottava verso gli ebrei le accuse di cui non voleva essere bersaglio.

I due galli nello stesso pollaio non potevano coesistere, e quelle leggi evidenziavano più un estemporaneo e violento moto di stizza, un’invidia malcelata, che non un odio vero e proprio, che l’odio di una nazione intera. E così, per ordine del gallo più forte (ma era poi così forte se si sentiva minacciato da una minoranza?), dovevo segnalare la presenza di “giudei” italiani, stilando un rapporto. Per fortuna mia e loro non ne esistevano molti nella giurisdizione di competenza, e solo nel caso di Giuseppe Almagià fui richiesto di un profilo dettagliato. Ma che potevo dire, se non in bene? Era infatti una persona degnissima, stimata dalle autorità spagnole e dalla colonia italiana. Ricordai il suo grande amore per l’Italia che l’aveva spinto ad arruolarsi volontariamente nel nostro esercito durante la guerra mondiale, quando Trieste era ancora austriaca – gesto che gli sarebbe potuto costare la vita. Misi in rilievo l’aiuto prestato a me personalmente, consigliando i modi più opportuni nelle mie relazioni con le autorità spagnole. Non tralasciavo di dire che la sua era una famiglia modello, dove regnava concordia e affetto. Feci notare che il suo rientro in Italia sarebbe stato un grave danno per la comunità italiana in Spagna e per i buoni rapporti con le autorità locali, e avrebbe compromesso il nostro buon nome.

Sapevo di rischiare la testa e il posto. Ma mentire, mai!

Inviai il mio rapporto all’ambasciata. Due giorni dopo mi chiamò Francesco Cavalletti, nel frattempo promosso a consigliere d’ambasciata. Mi fece rilevare quanto fosse compromettente il mio scritto, che non potevo scherzare col fuoco. Replicai che era tutto vero e che anzi avrei potuto aggiungere altri episodi a favore dell’ingegnere.

L’ingegnere Almagià fu “discriminato”, nonostante le benemerenze di guerra, perché era dipendente di una compagnia di assicurazione, ma ciò non pregiudicò la sua attività in Spagna. Il provvedimento tuttavia offese molto l’interessato, al punto che decise di assumere la nazionalità della moglie, la svedese Brita Carlson e troncare ogni rapporto con la “misera gente italiana”.

A queste parole, anch’io a dir la verità fui un po’ offeso. Dopo essere stato aiutato, per tutta riconoscenza, insultava il popolo italiano.

La moglie rimase italiana. Poco tempo dopo, nel giugno del 1940, lo stesso Almagià, durante un nostro incontro a Barcellona, mi confidò, riferendo le parole della moglie, che in Svezia nessuno avrebbe fatto altrettanto solo per amore di giustizia e per stima verso una persona onesta. La stessa Italia che aveva emanato delle leggi tanto ingiuste, aveva anche persone che vi si opponevano con coraggio e altruismo.

Rientrato dalle vacanze ripresi il mio consueto lavoro. Con me rientravano anche tredici ragazzi e ragazze figli di italiani della provincia di Santander.

In quei giorni arrivò in visita alla città il professor Franco Guidotti, che insegnava diritto corporativo all’Università di Siena. Come prima tappa, lo accompagnai alla redazione del «Diario Montañés», perché da quell’osservatorio privilegiato si sarebbe meglio reso conto della situazione politica e sociale della Spagna.

Il giorno stesso del mio trentesimo compleanno le Brigate internazionali lasciarono ufficialmente il territorio spagnolo. La guerra era ormai finita.

Il primo appuntamento furono le celebrazioni per l’anniversario della marcia su Roma accomunate al ventesimo della Vittoria che si tennero nella Casa del Fascio domenica 30 ottobre – per lo stesso giorno era stata fissata anche una messa alle 11 in cattedrale per celebrare il Segundo Aniversario de la fondación de Auxilio Social. La piccola sala di rappresentanza era adorna delle bandiere italiana e spagnola coi ritratti dei sovrani, del Duce, del Caudillo e di José Antonio.

Erano presenti le autorità consolari italiane e una folta delegazione di camicie nere, delle organizzazioni giovanili di Santander e dei dintorni, da San Vicente de la Barquera, Reinosa, Castro Urdiales, Santoña, Renedo.

Prevedendo che Díez Ceballos avrebbe detto solo alcune parole di circostanza, l’orazione ufficiale sarebbe toccata a me. Ecco dunque “el activo secretario del Fascio italiano” adelantarse alla tribuna, mentre ancora scrosciavano gli applausi all’oratore che mi aveva preceduto.

Iniziai col ricordare le ragioni dell’esistenza del Fascio italiano a Santander. Esistevano sì molti Italiani nella provincia, ma la generosa terra della Montaña custodiva i corpi di alcune centinaia di camerati legionari che avevano dato la vita per salvare la civiltà europea dall’orda marxista (applausi).

«Es la presencia de estos Inmortales, que duermen para siempre su glorioso sueño, lo que justifica nuestra presencia y esplica los lazos fraternales que nos unen a la población santanderina y española como a otros segundos hermanos». Seguirono altri applausi quando accennai che l’Europa delle democrazie di fronte ai presenti gravissimi pericoli stava dormendo mentre Italiani e Spagnoli combattevano per la pace e la giustizia di tutti. Ricordai il continuo appoggio delle autorità e del popolo di Santander che avevano sempre sostenuto le manifestazioni di solidarietà e fraternità organizzate nell’anno precedente. Ringraziavo, naturalmente anche le autorità italiane e gli Italiani che mi avevano coadiuvato.

Continuai poi il mio discorso ricordando i motivi dell’intervento italiano e sottolineai l’importanza del Mediterraneo per entrambi i paesi fratelli, al punto che non esisteva problema italiano che non fosse anche spagnolo e viceversa: «Todos vosotros debéis admitir que una España marxista significaba, entre breve plazo de tiempo una guerra europea contra la Italia fascista, conflicto espantoso y tremendo, que hubiera tenido como trágico teatro el Mare Nostrum y sus litorales italianos». A guerra terminata i legami fra Italia e Spagna diverranno ancora maggiori, migliori. (La seconda Guerra Mondiale confermerà parzialmete questa mia facile profezia: la Spagna – com’è noto – si tenne opportunamente fuori dalla mischia).

Per i fascisti in Spagna esisteva una duplice consegna: esser degni della patria e del paese che ci ospitava, sull’esempio del glorioso caduto Luigi Tempini.

E concludevo il mio discorso con i soliti gritos al Duce e a Franco.

L’inno nazionale attenuò via via il fragore degli applausi che mai avevo sentito così fervidi e calorosi. Era ormai mezzogiorno e ci aspettava un simpatico rinfresco. Alla spicciolata, durante il pomeriggio, le delegazioni rientrarono alle proprie sedi.

Ai primi di novembre, con Díez Ceballos e un amico ingegnere visitai Burgos, Valladolid e Salamanca. In quell’occasione, al Grand Hôtel di Salamanca, conobbi il Generale Queipo de Llano, uno dei più importanti collaboratori di Franco nel sud della Spagna. Era stato ribattezzato General radio, perché ogni sera teneva alla radio un fervorino tutto pepe esaltando i risultati e le “prodezze” dell’avanzata nazionale. Incontrai anche una squadriglia di piloti legionari. Col professor Gasparettidell’università di Palermo, fascista del ’21, visitai poi la città.

Avevo nel frattempo organizzato il nuovo corso di italiano, preparato la sede, raccolto le iscrizioni, formato le classi. Fu inaugurato giovedì 17 novembre.

E non so come, ma la figura del nonno mi venne immediatamente in mente quando le mie adorabili corsiste mi fecero notare che mostravo due facce molto diverse: quella del professore riservato e sussiegoso in classe e quella del giovane uomo di mondo, amante del ballo, del bere e delle belle donne. «Quello è il mio fratello gemello, Antonio» – risposi. E la favola del mio alter ego continuò per diversi mesi. Probabilmente qualcosa era nell’aria: in quei mesi i coniugi Curie avevano provato sperimentalmente la fissione dell’atomo...

Per ben due volte ho vestito addirittura i panni di “rosso”. Sul treno che mi riportava in Italia per una breve licenza feci la conoscenza di una bellissima spagnola che parlava a stento il francese, mi spacciai per francese, sostenitore della repubblica. Parlammo per tutto il tragitto da Narbonne a Marsiglia. Proveniva da Barcellona, ed era in Francia per organizzare il reclutamento di volontari per l’esercito repubblicano. Durante il viaggio di rientro in Spagna, mi fermai a Narbonne in attesa del treno per San Sebastián. Visitando la città mi imbattei in un ristorante con le insegne in italiano e spagnolo. Capii di trovarmi di fronte a uno dei luoghi di reclutamento di cui mi aveva parlato la bellissima spagnola. Con una faccia di bronzo che non sapevo d’avere varcai la soglia e mi trovai in un locale pieno di fumo e affollatissimo di giovanotti col basco in testa e giovani donne procaci che passavano da un tavolo all’altro.

Mi si avvicinò una vecchia marantica e mi chiese che cosa desiderassi. Con un sorriso entusiasta e scanzonato, pur sapendo di mentire spudoratamente, le risposi che volevo arruolarmi, e con me si sarebbe arruolato anche un amico di Parigi che aspettavo col treno delle 21. La vecchia mi diede il benvenuto e mi rispose che l’incaricato sarebbe però ritornato solo verso sera; intanto potevo approfittare dell’ospitalità del locale. Mi vedo ancora salutare col pugno alzato da tutti quei “compagni”. Poco prima di mezzogiorno del giorno dopo giunsi a San Sebastián, dove feci un dettagliato rapporto ai miei superiori. Non elogiarono naturalmente la mia avventatezza, ma si congratularono con me per le informazioni preziose che portavo.

In quel dicembre 1938, il 13, al Gran Cinema venne dato, in proiezione riservata alle autorità, Scipione l’Africano di Carmine Gallone – il regista che nel ’26 aveva girato Gli ultimi giorni di Pompei –, con Camillo Pilotto, Memo Benassi, Francesca Braggiotti, Isa Miranda. A dire il vero, stavo un po’ sulle spine perché già si sapeva dell’orologio al polso del legionario (come il trombettiere nel Ben Hur di 20 anni dopo), dei pali della luce, di Isa Miranda che si affannava a chiedere «Chi vince?» ai soldati in fuga, talché con questo film aveva preso piede l’espressione «è una boiata pazzesca». Temevo piuttosto che il taglio propagandistico fosse eccessivo: l’identificazione di massa con gli antichi Romani poteva essere una questione italiana, non così l’insistenza nel ricordare i reduci della “campagna di Spagna”, la storia del predominio italiano nel Mediterraneo o il saluto, appunto ‘romano’, fin troppo frequente.

Ma tutto andò per il meglio. Anzi, il Ministro de Obras Públicas Peña Boeuf che s’intendeva di cinematografia, mi strinse caldamente la mano e mi ripeté più volte “en hora buena, en hora buena! congratulazioni, felicitazioni!”

In materia di cinema, merita di essere ricordato, per il rilievo dato dalla stampa cittadina, e perché il fatto ha di per sé qualcosa di paradossalmente comico, il film di Stanlio e Ollio, El dictator, il 6 gennaio 1938, per la Festividad de los Reyes.

Per le vacanze di Natale rientrai in Italia; avevo portato con me un tozzo di pane nero spagnolo per far vedere che cosa si mangiava in Spagna prima di Franco. Io stesso ero molto dimagrito e provato. Le “mie donne” non davano tanto bado a quel che raccontavo, forse non mi credevano.

Per l’Epifania ero già di ritorno.

Seppi della eroica, ma pur sempre triste, fine del governatore civile Augustín Zancajo Osorio. Sabato 14 gennaio, nella cattedrale, si celebrarono solenni funerali, come al solito, alle 11 del mattino. Aveva voluto combattere e morire non tanto per ideali patriottici, quanto per non subire l’onta di sopravvivere ai suoi tre fratelli ed a tanti suoi camerati.

In quei giorni la “maestra nazionale” Pilar Mí Ian y De Val rientrava in Spagna dopo un corso che aveva frequentato in Italia. La incoraggiai a scrivere un articolo per “Scuola Italiana Moderna”. Il buon Vittorino non mancò di inviarmene alcune copie per l’autrice:

Ti abbiamo ricordato con molto cuore. Ti mando alcune copie per la Collega Pilar , alla quale, se ci farai avere l’indirizzo, manderemo in omaggio la Rivista fino alla fine dell’anno. Abbiamo ripubblicato il tuo articolo sul dialetto.

Riguardo ai fatti di Spagna – il 26 gennaio era caduta Barcellona – si mostrava più ansioso lui in Italia che io in Spagna:

Ora attendiamo che Franco entri a Madrid! (Se in quel giorno tu ci inviassi una corrispondenza, ci sarebbe molto cara).

Marco Agosti era forse anche più impaziente e con una visione, diciamo, più “imperiale”:

Grandi giornate, Oberto! Dopo le vittorie di Spagna, Roma vincerà forse le guerre puniche senza che l’Italia cinga l’elmo di Scipio? Attenderemo con ansia. Auguri e saluti.

Eco delle vittorie sono anche in una lettera che mi scrisse l'avvocato De Michelis di Breno. Gli avevo mandato delle tessere da distribuire a buoni camerati. Quando lessi la sua lettera, fui davvero orgoglioso che una fosse andata al glorioso capitano Luigi Romelli.

Il 9 febbraio venne pubblicato un decreto, la Legge sulle responsabilità politiche, che mi lasciò sconcertato, sia perché aveva effetto retroattivo fino al 1934, sia perché introduceva un nuovo tipo di reato “politico”: la “passività grave”. Un conto era considerare “ribelli”, paradossalmente e senza il minimo fondamento giuridico, coloro che erano rimasti fedeli alla repubblica e combattevano per la legalità – in guerra, si sa, le ragioni del diritto valgono meno delle ragioni delle armi – ma voler estendere anche oltre i limiti eccezionali dello stato di guerra un clima di sospetto e di guerra aperta non solo ai dissidenti, ma a coloro che semplicemente non se la sentivano di applaudire, mi parve sinceramente esagerato.

Da uomo di scuola, che vedeva come una meraviglia divina il formarsi graduale del “giudizio” nelle piccole menti, e dopo più di 40 anni di repubblica, pacifica e democratica, mi chiedo se questo modo militaresco di governare fosse il più adatto a far risorgere la Spagna, che aveva bisogno sì di una direzione competente e lungimirante, ma anche dell’inventiva, della creatività e della libera energia di migliaia di menti. Ma non potevamo interferire. E tenni per me solo quell’appunto. Era chiaro che Franco si stava preparando a far piazza pulita dei propri avversari civili, ora che quelli militari erano stati uccisi in battaglia, in prigionia, eliminati col “caffè” o avviati al paseo, alla passeggiata, come si diceva – cioè fucilati.

Nel frattempo a Roma veniva creata una «Commissione per la penetrazione culturale in Spagna» (10 marzo) gli artefici erano Alessandro Pavolini, il neo-ministro della Cultura popolare, e una giovane testa pensante (ma anche pluridecorato della campagna d’Africa), Carlo Alberto Biggini. Quest’ultimo era venuto diverse volte a Madrid a tenere conferenze sul diritto corporativo. Era molto influente presso la «Segreteria dei fasci all’estero» alla DIE e all’Istituto per le relazioni culturali con l’estero (IRCE).

Con la routine del corso di italiano e delle ricorrenze degli anniversari, (il 23 marzo la fondazione dei Fasci) i mesi passarono in fretta.

Il 25 marzo, “dalla retroguardia spagnola” e contagiato dalla generale euforia, scrissi un articolo sull’imminente entrata delle truppe nazionaliin Madrid, che aveva “bevuto il calice più amaro, in questa tragedia spagnola”. L’articolo apparve cinque giorni dopo sulla rivista «Scuola Italiana Moderna», il giorno stesso del grandioso e incontenibile trionfo organizzato in tutta la Spagna per la fine della guerra. Il tradizionale saludo a Franco fu sostituito dalla acclamazione ¡Franco! ¡Franco! ¡Franco!

A Pasqua feci ancora una puntatina a casa, dal 3 al 15 aprile (la Pasqua cadeva il 9). Il nostro nuovo Console, Justo Giusti del Giardino, mi affidò l’incarico di acquistare dei libri per le biblioteche dei vari corsi di italiano. Il Console era più giovane di me di due anni. Fummo subito ottimi amici. Era di carattere gentile, arguto e con tratti di bonaria ironia: ero il suo missus sapiens.

Al mio rientro ebbi tutto l’agio di organizzare la commemorazione, e il piccolo discorso, per il Terzo Anniversario dell’Impero Italiano, abbinato alla nuova Festa dell’esercito, che si sarebbe celebrata il 9 maggio.

Dovetti però camuffare sotto parole generiche e misticheggianti, valide comunque a confezionare un discorso accettabile, un doppio senso che persone intelligenti, e soprattutto i giovani studenti del SEU avrebbero potuto cogliere.

La festa dell’Impero, iniziai, dopo i ringraziamenti di prammatica, era una festa di giovani, perché nella concezione fascista la parola Impero significava grande anelito verso le conquiste ideali, significava valore, giovinezza, supremazia latina, cioè romana e cristiana.

L’impero era un impero dello spirito e non un impero grettamente coloniale, da qui la missione civilizzatrice, perché la storia insegnava che un impero muore quando ha esaurito la sua forza creatrice, la carica spirituale. Per questo la rivoluzione fascista aveva “finito di cominciare”, come aveva detto Mussolini il 28 di marzo, era giunta al suo compimento dando vita all’Impero, che ne esaltava e continuava la potenza spirituale.

L’esercito, quello italiano, come quello spagnolo, era animato dallo spirito di gioventù, dall’aspirazione ai grandi ideali. Entrambi erano stati concreta esaltazione dello spirito sulla materia, della ragione sulla violenza, della legge sopra il disordine, dell’ideale sopra il tornaconto. Perché l’esercito, dicevo, era espressione delle energie migliori del proprio popolo.

L’esercito era una scuola: «Escuela sublime de virtud, donde se rechaza la falsa literatura, que no es ni Arte, ni belleza, donde se busca solamente la Verdad , la honestad de pensamiento y de acción». L’esercito era al servizio di un ideale, «al sueño de grandeza imperial de nuestros Jefes». Nella parola “servire” nobilitava di luce nuova la vita di noi giovani italiani e spagnoli e l’esercito, inteso come scuola di valore e di volontà, ci offriva un esempio mirabile e immortale.

Come fulgido e immortale era l’eroismo dei Caduti. E la loro fede. Perché altrimenti le vittorie di oggi e di domani non sarebbero che mere conquiste materiali, che non valevano certo l’olocausto di tante giovani vite. «El Ejército encierra en sí algo de sagrado, de íntimamente religioso». Concludevo con un riferimento alla guerra appena conclusa, constatando che si giunge alla pace, quando si lotta per un ideale, quando per questo ideale si lotta e si muore: «Desde este inquebrantable bosque de bayonetas […] surge la rama de olivo de la paz justa y decorosa que conocemos hoy y que será más perfecta mañana; paz digna, de pueblos viriles que vencen, porque saben luchar y saben morir». Fui tentato, trascinato dalle parole stesse di indicare il parallelismo eroismo-fascismo, ma uno scrupolo oscuro mi trattenne. E penso fu bene.

Il pubblico gradì le mie parole e mentre scendevo dal podio fui accompagnato da “una cariñosa y atronadora salva de aplausos”.

L’“atto” proseguì con i discorsi degli ospiti e si concluse col canto degli inni nazionali, dell’inno della Falange, di Giovinezza, e di Oriamendi, l’inno dei Requetés.

In un attimo finì anche il secondo anno scolastico. La sera di sabato 27 maggio organizzai una piccola cerimonia di chiusura del corso di italiano, durante la quale si sarebbe estratto a sorte uno fra i dieci migliori alunni premiandolo con un viaggio in Italia. Il 31 maggio ritornai a Esine per le vacanze.

Ero ansioso di sapere quel che si diceva in Italia del «Patto d’acciaio» firmato il 22 maggio. Non mi convinceva: a mio parere, prima bisognava consolidare la nostra politica mediterranea. Preferivo la nostra pur ingloriosa invasione dell’Albania (7 aprile) allo strapotere esibito dal Reich con l’annessione della Cecoslovacchia (15 marzo).

Ai primi di luglio prestavo servizio, da soli due giorni!, nella colonia dei figli degli italiani all’estero, a Cattolica. Ero il comandante della “nave” Sauro, gli edifici avevano infatti la forma di navi. Lì mi raggiunse un telegramma, e analogo era stato recapitato anche a Esine: dovevo rientrare a Santander: Galeazzo Ciano sarebbe arrivato in Spagna in visita ufficiale: un viaggio che si preannunciava trionfale. Il nostro ministro degli esteri veniva a raccogliere i ringraziamenti ufficiali per l’aiuto prestato nella guerra (e a predisporre il rapido rientro delle truppe, ormai ‘ingombranti’). Anni dopo, ma non dal Diario di Ciano che riporta laconicamente: «9 luglio. Parto per la Spagna », si seppe che la visita di Ciano aveva una finalità di riorganizzazione geopolitica di primissima importanza: ridurre l’importanza di Gibilterra, garantire all’Italia uno sbocco sull’Atlantico e tagliare i ponti fra la Francia e il nord Africa maghrebino.


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Ultimo aggiornamento 17 marzo 2010

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