Ameraldi - 9.07 Orzinuovi, la guerra, l'epurazione Documento senza titolo

Oberto Ameraldi:
Una vita di fede per la scuola

Brescia : Fondazione Civiltà Bresciana, 2000. - (Cattolici & Società ; 11), p. 473-496.


9.07. Orzinuovi, la guerra, l’epurazione (parte settima)

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Appena rientrato dalle vacanze di Natale, avevo trovato fra la posta una lettera del commissario prefettizio di Orzinuovi, Federico Magugliani: avvertiva che «la assegnazione di legna fatta all’inizio della corrente stagione invernale alla scuola della frazione Barco – erano quasi 28 quintali – non poteva essere in alcun modo aumentata». Suggeriva di fare economia... «E deve bastare anche per l’asilo?» mi chiesi.

Avevo appena assicurato il Provveditore che «in nessuna sede si era adottata una riduzione d’orario per mancanza di riscaldamento» che cominciarono a piovere richieste di riduzione d’orario e di drammatiche segnalazioni di esaurimento delle scorte di combustibile.

Il Ministro aveva dato disposizioni precise: la mancanza di riscaldamento, come già e a maggior ragione per i bombardamenti non erano motivi sufficienti per vacanze supplementari: «La scuola elementare deve continuare le proprie attività anche fra i pericoli e le vicende dell’ora, svolgendo la sua opera didattica, assistenziale e rasserenatrice a vantaggio delle masse popolari». Veniva suggerito di ridurre l’orario anche a un minimo di un’ora al giorno, alternando le classi nel medesimo locale.

Nel comune di Pedergnaga-Oriano non c’erano gli alimenti per far funzionare la refezione, perciò i bambini delle cascine e delle frazioni dovevano ritornare alle loro case distanti uno-due chilometri per consumare il pasto e poi ritornare di corsa alla scuola – ah, quelle labbra screpolate, quei poveri piedini tormentati dai pedignoni. Al pomeriggio le classi erano dimezzate, un po’ per il freddo, un po’ per il pericolo continuo dei mitragliamenti.

Bene o male si arrivò alla fine di gennaio: i giorni della merla, cascavano i corvi dal freddo, l’ìa delàt la cornàgia.

A Quinzano il Comando Germanico aveva requisito le ultime preziose riserve, non c’era più neanche un ciocco, neanche una mattonella di carbone. Alcuni insegnanti si portarono i bambini a casa; altri recuperarono un po’ di legna appena tagliata che faceva solo fumo e non riscaldava, ma meglio di niente. Il Podestà per parte sua aveva già fatto l’impossibile. Anche gli uffici del municipio erano al freddo.

La fiduciaria di Borgo S. Giacomo, Chiara Carcano, con la laconicità che hanno sempre le brutte notizie, mi comunicava:

Vi notifico che abbiamo legna solo per domani. Stamane le nostre aule erano quasi gelate. Alunni presenti pochissimi e per il freddo e per la presenza di vari autocarri tedeschi, i quali, si dice, sosteranno proprio di fianco alle scuole, per un paio di giorni.

Il Commissario Prefettizio di Borgo con una lettera arrivata lo stesso giorno mi spiegava che «per ragioni diverse ed imprevedute, dipendenti dalla guerra, si dovette cedere per altri scopi il combustibile destinato alle scuole», e non gli rimaneva che legna verde. Mi suggeriva pertanto di «studiare la possibilità di voler sospendere per il mese di febbraio le scuole, dato anche che previdenzialmente esse vennero iniziate con notevole anticipo».

Ma non potevo dare una simile concessione. Un maestro, Adriano Benedini, sempre di Borgo, di nuovo mi scriveva:

Caro Direttore,

Ti scrivo con carta quadrettata, ma non ho di meglio. Sono stato a nome dei Colleghi in Comune. Il Segretario mi dice che per il Comune è assolutamente impossibile provvedere alla somministrazione della legna secca da ardere. Pertanto da oggi 30 funzioniamo a freddo.

Comprendevo benissimo la situazione, ma non potevo fare altro:

Ricevo la lettera del Collega Benedini.

Quanto mi riferisce mi dispiace; ad ogni buon conto, qualunque siano le condizioni del riscaldamento le scuole non e ciò per ordine ministeriale.
A Brescia, mi diceva ieri il Provveditore funzionano completamente al freddo e così pure gli uffici del Provveditorato.
Perciò l’orario ridotto che Vi ho concesso resta in vigore anche se non avete legna.
Domani non posso essere da Voi: andrò probabilmente per altre ragioni a Brescia e prospetterò la nuova situazione al Provveditore.
Resta inteso che i Maestri devono restare sul posto anche se gli alunni possono essere pochi o mancare. Non posso interpretare diversamente gli ordini del Ministro confermati dal Provveditore.

Ad Orzinuovi la situazione non era diversa. Le classi delle cascine e quelle ospitate nelle abitazioni degli stessi insegnanti continuavano l’orario normale, ma per le classi del Castello e presso le suore dovetti ridurre l’orario a due ore giornaliere. Anche a Gerolanuova e Pompiano si dovette ridurre l’orario. Nei giorni successivi si aggiunsero le scuole di Villachiara, con le frazioni di Villagana e Bonpensiero; qui il Commissario prefettizio era giunto a rimproverarci di aver usato il combustibile “in modo troppo abbondante nei mesi di dicembre e gennaio”.

Avevo suggerito che le classi quarte e quinte avessero lezione dalle 8.30 alle 10.30 perché mi sembrava logico che fossero gli alunni piùalti ad uscire di casa (e dal letto) nelle ore più fredde, cioè le prime della mattinata.

Si viveva quasi sempre aspettando brutte notizie. Ma quando davvero arrivavano, ci prendevano alla sprovvista, in anticipo. Vittorino Chizzolini mi scrisse della morte di un giovanissimo maestro che lavorava alla «Scuola Editrice», Emi Rinaldini, fucilato presso la chiesa di S. Bernardo di Belprato, il sangue macchiò le pagine dell’ Imitazione di Cristo che aveva con sé: come il libro aveva modellato cristianamente e marcato indelebilmente l’anima del giovane maestro, così ora quella macchia rosso vivo suggellava il suo cammino di perfezione con «il sigillo del sangue». Per chi l’ha conosciuto fu la perdita di un amico, di un’anima buona che non conosceva il male, l’odio, la cattiveria, la vendetta. Nel dittico commemorativo che Vittorino mi inviò sono ripresi alcuni bei pensieri tratti dal Diario:

Due bimbi bastano a fugare tanto male, tanto odio, e lasciano adito a una pace che rasserena. Da un po’ di tempo sento maggiore in me il bisogno di stare coi bimbi; forse c’è un presentimento. Domani andrò anch’io assieme con tanti compagni alla guerra, anch’io contro altri fratelli. In quei momenti di lotta mi sarà tanto caro vedere il volto dei miei bimbi, scorgerne altri vicino al nemico e allora, pur compiendo il mio dovere, saprò non odiare il russo, l’inglese o anche il povero africano, ma fra me e loro ci sarà un vincolo d’amore. Tutti ci ameremo, pensando ai nostri bimbi lontani.

Altra brutta notizia riguardò il bidello della scuola di Orzinuovi, Giuseppe Micheli. Durante la Prima Guerra Mondiale – vedi un po’ le combinazioni! – era stato attendente del barone Basile, allora tenente di cavalleria; ne aveva conservato il ricordo di un superiore coraggioso e generoso. Finita la guerra aveva trovato impiego come autista presso la famiglia Calcini, che più tardi si sarebbe trasferita a Esine.

Il figlio si trovava in carcere, a Canton Mombello, in attesa di processo con un’accusa gravissima: era stato tratto in arresto mentre tentava di far scoppiare una bomba d’aereo inesplosa, vicino al ponte della ferrovia tra Orzinuovi e Soncino. Dopo aver anticipato la mia visita al barone Basile, diventato Ministro della Guerra della RSI , ero andato a Brescia con questo mio bidello. Chiedemmo al Ministro di intervenire a favore del figlio partigiano. Grazie anche all’aiuto dell’avvocato Gheza, il giovane poté ritornare a casa. Raccomandai al giovane di non esporsi fino alla fine del conflitto. Alla presenza del padre, più o meno gli proposi il patto seguente: «Tu resti a casa o addirittura nascosto in queste ultime settimane. Poi mi nasconderò io e tu mi proteggerai».

Arrivò anche marzo, finalmente. E mentre si attendeva con ansia il tepore della bella stagione per scacciare altre ansie e lenire un poco le sofferenze distendendo lo sguardo aperto a mirare come ogni anno il miracolo della primavera – perché, penso, mai primavera fu più desiderata di quella – caccia nemici tante volte passati nei cieli, da non badarci quasi ormai più, sganciavano il loro carico di morte e distruzione in varie parti della città: via S. Francesco, via Dante, Chiesa di S. Afra, Via Cadorna, Via Pusterla. In quest’ultima via, sotto il Castello, era la casa di Vittorino. Ottanta furono le vittime, e fra queste la madre e la sorella del mio caro amico. Gli scrissi con tutto il dolore e l’affetto di cui fui capace, sapendo che le parole d’un amico spesso sono un aloe che tempera amarezza e afflizione entro misure che l’uomo può ancora sopportare. Mi mandò qualche tempo dopo un pieghevole stampato con le fotografie insieme a una lettera, dalla quale compresi che era di molto avanzato sulla via della santità:

Carissimo Oberto,

ti ringrazio di cuore per la tua lettera tanto affettuosa e luminosa di cristiano conforto che mi tiene compagnia in questo tempo ancor greve di ricordi troppo vicini, ma già tutt’aperto alla fiducia che il dolore ceda il posto a qualche cosa di più grande.
Ti ringrazio soprattutto per le preghiere per le mie Care che il Signore ha scelto per il sacrificio di sangue che solo può purificare il mondo dal male di cui amaramente trabocca e ricondurlo sulla via dell’Amore.
Mi ha commosso quanto dici della bontà della tua cara mamma e delle tue sorelle. Non dimenticherò mai quanto hanno fatto. Ringraziale, dici loro che ricambierò con la preghiera affinchè molto a lungo siano conservate al tuo affetto.

Buon Oberto, ti abbraccio proprio con il cuore,

Vittorino

Ho detto “caccia nemici”, avrei dovuto dire più precisamente caccia “americani” del tipo Liberators. Quegli stessi che pochi giorni dopo bombarderanno anche la sede della Scuola Editrice. So per certo che il buon Vittorino (per rendergli l’immeritato “buon Oberto”) ha perdonato a coloro che gli hanno distrutto casa, famiglia e lavoro, e non ha considerato “nemici” gli eserciti dell’“altra” Italia per questo motivo.

Ora capisco meglio le cose per averle viste nel loro svolgersi e negli esiti cui sono sfociate e so per certo che la proposta evangelica mostra una via dolorosa, irta di ostacoli e sacrifici, per certi versi inumana, sopraumana, ma di tanto appunto supera le nostre anguste vedute quanto al fine ripaga la buona volontà di coloro che ad essa si sono affidati, ricolmando il loro cuore di pace, di concordia, di soprannaturale serenità.

Al suo posto, non so se avrei continuato a lottare, come lui ha fatto, al fianco di chi mi avesse ucciso e madre e sorelle. La stoffa del santo si tesse giorno per giorno e dove non costa sangue, tormento, tensione e fatica vuole comunque il suo buon tributo di lacrime. Ma “così si è uomini, così al mondo si sta”, direbbe Faust, che per noi ha provato la tentazione di seguire la via dell’umana comodità.

Gli avvenimenti stavano precipitando. Me ne accorsi dal mio stesso atteggiamento, usando parole che m’erano sfuggite in avanti, precorrendo i tempi e il cambiamento di mentalità. Il 4 marzo tenni una relazione ai genitori. Esordii con queste parole:

Il mio non sarà un discorso - ma una semplice relazione con molti numeri.

Non sarete obbligati ad inneggiare alla Repubblica - però ho ritenuto opportuno che ognuno di Voi sapesse quanto ha fatto l’ Opera Balilla – seguendo le direttive del Duce - per l’assistenza morale e fisica dei V. figli, in Orzinuovi dal mese di giugno 1944 fino ad oggi.

Pochi giorni dopo, sollecitando al provveditorato il pagamento delle indennità ai maestri, prendevo ad esempio quanto si faceva nell’esecrata «Italia libera»:

Di più qui siamo in zona di confine e sappiamo come nel Cremonese le cose filino diversamente: anche i 2 maestri del Provveditorato di Milano hanno percepito stipendio ed indennità fino al 31 gennaio. Col 1° febbraio anch’essi provano la gioia di appartenere alla “Leonessa”.

Non ero presente il 7 marzo in località Croce, sulle Coste di S. Eusebio, dove Mussolini presenziò al giuramento degli ultimi reparti di brigate nere. Dovette interrompere più volte il proprio discorso, aveva la voce rotta dalla commozione:

Fratelli, soldati, camerati: la guerra non è ancora persa. Ci sono le armi segrete e la ragione è dalla nostra parte. Io sono qui per incoraggiarvi. Vi raccomando di rispettare le donne, i vecchi, i bambini; non dovete essere voi ad impugnare l’arma per primi contro di loro…

Con questa nota umana del Duce, per una volta fuori copione, il fascismo era veramente finito. I comandi della GNR non riuscivano più a controllare la situazione. Spadini a Breno, dopo il momento di gloria della cattura di Giacomo Cappellini (21 gennaio), dovette fronteggiare continue fulminee incursioni dei partigiani, organizzare infruttuosi rastrellamenti e odiose rappresaglie. Il coordinamento coi Comandi Tedeschi era inesistente, come se ciascuno degli alleati dell’Asse stesse combattendo una guerra per proprio conto. In completa autonomia agivano poi le brigate nere.

Le notizie si susseguivano incalzanti e febbrili giorno dopo giorno: dicevano della inarrestabile ma lentissima avanzata degli Alleati, dei furiosi bombardamenti che radevano al suolo intere città nel cuore stesso della Germania, di morti ammazzati, di esecuzioni sommarie. Aveva creato – almeno qui da noi – nella popolazione un senso di apatia, di disinteresse, forse anche di sfiducia. Da buoni italiani, si aspettava di vedere chi fosse il vincitore per inneggiare esultanti al suo trionfo.

Per tutto il mese di marzo le giornate si susseguirono frenetiche, “pazzerelle”, dove in ritmo casuale si alternavano lo spasmo delle apprensioni, l’evidenza grottesca di tutta la messinscena, la tensione e l’inquietudine d’un’incerta attesa, la fede e il fanatismo, i fatti e il misticismo, la vita pulsante d’energica determinazione, il desiderio che tutto finisse al più presto, la banalità di certe incombenze d’ufficio, come la prenotazione dei bachi da seta, il comico involontario e innocente che sempre hanno le reazioni degl’ignari fanciulli.

Mi parve assolutamente strano che dal Ministero non fosse giunta per tempo la comunicazione della data delle vacanze pasquali. Ogni giorno aumentava il presentimento che le cose non andassero bene, che la pentola stesse per scoppiare. Ma che addirittura non si pensasse di poter durare fino alla Pasqua, era segno che gli avvenimenti stavano bruciando le tappe.

Il pomeriggio di Pasqua, di nuovo don Bontempi si recò dai partigiani, in Val Poma, a celebrare la messa: la Risurrezione era già nei cuori di tutti e la fine della guerra si avvertiva molto vicina. E tutti sopportavano di buon animo d’esser per un giorno burlati di pesce d’aprile col credere che la guerra fosse finita, tanto era il desiderio di vedere rinascere tutto. Si fremeva per ogni parola, l’orecchio teso e curioso ad ogni novità, ad ogni buon vento.

Ma piuttosto come un braér, una violenta improvvisa bufera, il 10 d’aprile giunsero a Esine reparti tedeschi e fascisti per un rastrellamento:

Il paese è bloccato dai tedeschi e repubblichini e si fa un minuto rastrellamento. Tutti gli uomini vennero concentrati nel cortile delle scuole e poi ne condussero una sessantina a Breno - per controllarli meglio - ma poi vennero rilasciati.

Era il classico colpo di coda. Dalla bassa già risaliva le valli il cigolio dei carri armati. Si vissero quegli ultimi giorni come un’imminenza senza fine.

Pollini dorati nel baluginio del controluce facevano starnutire. Che cosa sarà la libertà? Abituati ad obbedire, ad essere braccia per la volontà di altri, ad essere replica seriale in un disegno coreografico sui piazzali, che faremo da bruscoli sospesi nel sole della nostra totale libertà? Che sarà di noi: dopo le bombe e i mitragliamenti, come possiamo credere che quegli stessi apparecchi ci lanceranno oggi la libertà? Ma quale? Una libertà solo esteriore che ci farà sentire poi esuli in casa nostra?Un lusso per pochi? Libertà è unaparola che si aggira eslege per l’Italia senza potersi posare, troppo desiderata, idealizzata per ritenerla possibile e reale, senza accento da potersi pronunciare, balbettante e incerta come un antico prestito greco: Graeca per Ausoniae fines sine lege vagantur. Che faremo da liberi, noi note perdute senza un pentagramma?

Come cantando in coro un grande Magnificat , un feriale mercoledì della fine di aprile, l’ultimo possibile perché vi cadesse una pasqua, il popolo insorse, risorse dopo anni di dolori e passioni. Lasciando lungo i sentieri della Storia, memento e trofeo dopo la muta, una vecchia pelle di serpente, simbolo della tentazione inseguita per un ventennio e alla fine pur vinta.

E constatavo però che la mano del destino aveva dato un nuovo prillo alla medaglia: se cadeva sul recto mostrava la tonsa testa di un esecrando tiranno, punito dal popolo per la tracotanza di aver voluto fare a suo modo la Storia e l’Italia, trascinando il popolo a scempio, strazio, rovina ed orrenda mattanza; se cadeva sul verso si vedeva il medesimo popolo che, guidato da nuovi tribuni, marciava sui cadaveri dei vinti nemici commettendo esso stesso quanto nell’altro lato puniva. Per questo – pensavo tra me – non ci poteva essere mai pace a ’sto mondo.

Libertà sarà dunque sottrarsi al lancio dei dadi con cui il destino si fa gioco di noi? Ma… non fu forse questa la superbia di Adamo?

Il bravo Olivelli ci aveva ricordato che «non esistono “liberatori” ma solo uomini che si liberano». Giustissimo. Indossata per un attimo la facile giornea di chi vuol sempre avere l’ultima parola a mia volta vorrei aggiungere che la libertà può solo cominciare dalla verità. Che prima bisogna esser uomini giusti, sinceri, di buona volontà, uomini che vogliono e sono alla ricerca del bene (cognoscetis veritatem et veritas liberabit vos), uomini animati dalla speranza e fidenti nell’aiuto della provvidenza (quoniam in me speravit et liberabo eum).

Per me, così l’Italia poteva ritrovare la sua dignità, la sua libertà. Perché un uomo veramente libero è colui che attinge forza e sicurezza dalla propria coscienza. Egli, più facilmente di altri trova la strada per fare del bene pur in mezzo alle difficoltà. E mai come in quei momenti le occasioni non mancavano: fare del bene in mezzo al prossimo voleva dire liberarlo dal bisogno, dalla paura, restituire la serenità, ridargli la fiducia in se stesso, nell’immediato futuro.

Bisognava cominciare dal basso per risollevare l’Italia. Non ero un Atlante, la mia leva non avrebbe sollevato gran che. Però capii che da qui dovevo cominciare, dal piccolo della situazione alla mia portata, dalle emergenze più semplici e quotidiane. C’era bisogno del costante, appassionato, volenteroso lavoro di ogni giorno per rendere l’Italia di nuovo libera e degna: in tal modo anche gli Italiani avrebbero riconquistato libertà e dignità.

Dopo aver usato male la nostra libertà, il Padre Eterno ci aveva dato il lavoro per riscattarci. Arbeit macht frei, “il lavoro rende liberi”: alla medesima conclusione era giunta paradossalmente anche l’ideologia pagana dei nazisti. Il motto suona certo come una spietata, bestiale presa in giro per quanti erano costretti a lavorare fino all’ultimo lumicino di forza. Nella sua apparente ingenuità, la frase contiene, su un altro versante, una certa dose di apodittico misticismo, che porta a vedere nella totale consunzione di sé (olocausto) la sublimazione verso una liberazione dello spirito.

Per quel segreto e illuminante legame che sempre lega le parole alla propria etimologia, mi veniva d’accostare l’apocalisse della guerra e dei campi di prigionia alla speranza di una rivelazione, che mi mostrasse il perché e il fine di tanta sofferenza. Compresi che risposta non c’era. Non mi rimaneva che scommettere, come il buon Manzoni, disincantato e concreto quanto mai, sulla lungimirante e imperscrutabile Provvidenza divina.

Una frase di continuo mi ritornava alla mente: «La c’è la Provvidenza!» e mi rassicurava. Come Renzo con queste parole aveva rassicurato la famigliola di mendicanti, «tutti del color della morte», mettendo gli ultimi spiccioli che gli eran rimasti «nella mano che si trovò più vicina».

Ah, - dissi tra me, battendomi la fronte – così dunque agiva! Non muoveva eserciti, non si curava di popoli e nazioni, non predisponeva la Storia. Mille fatti mi avevano teso come un arco, fin quasi a spezzarmi; e in quella estrema tensione avevo capito che il sommo Bene poteva solo consistere nel legame che ci rendeva consorti col prossimo nostro, nella tensione amorevole verso di esso.

Nel pieno dell’altra guerra “lo zio maestro” profeticamente aveva detto:

Io intravedo che le genti ravvedutesi ed accortesi di essersi dilaniate a vicenda per passione di potenti o di governi autocrati, deposto il ferro e l’ira, si riavvieranno sempre più negli ideali di pace e la vera democrazia prenderà il suo benefico impero al disopra delle teste coronate avide di potere, d’oro e di sangue. – Spenta la guerra, vedremo un nuovo rifiorire di commerci, di studi, di invenzioni che animerà la terra e affratellerà le genti avide di pace.

Estinto il fuoco che ora ci divora gli uomini e le ricchezze, le opere di carità e di assistenza, imposte dalla guerra, continueranno sempre più a lenire i dolori dei sofferenti e degli infelici, nuovi fiori di pubbliche virtù germoglieranno sulla terra ad abbellire la vita degli uomini; lieve compenso per noi che della tempesta ne abbiamo sentito e ne sentiremo tutti gli orrori e gli spasimi; generoso compenso ai posteri che dei nostri dolori non ne serberanno che lo storico ricordo.

 

I gà copàt el s-cèt del bidèl! I gà copàt el s-cèt del bidèl!

– No, non può essere! La guerra è finita! Chi l’ha ucciso?

– I fascisti! Sulla piazza, davanti al comune.

– Vado a vedere.

– Ma dove andate? È pericoloso, possono ammazzare anche voi!

– Devo andare!

 

Il 26 aprile sulla piazza di Orzinuovi i militi della Brigata Nera uccisero, poco prima delle dieci, il giovane Severino Micheli.

La notte prima era ritornato a casa verso le tre, portando la notizia: l’è finìda la guèra, l’è finida la guèra!

Nella gran confusione i locali dell’Oratorio, dove erano accantonati armi e materiali della Brigata Nera “Monterosa”, erano stati presi d’assalto e saccheggiati.

Il mattino dopo, la madre era salita a chiamarlo verso le nove, vedendo che dormiva ancora. Balzato dal letto, era corso alla piazza del paese e si era messo a scrivere motti antifascisti sul muro del municipio. Sorpreso dai militi della Brigata Nera fu ucciso all’istante. Il suo cadavere, piantonato dagli armigeri neri, rimase esposto per pubblico ammonimento.

Inutile, superflua, crudele, stupida esecuzione.

La voce si diffuse in un baleno per tutto il paese. La madre era nel frattempo corsa in piazza, ma era stata allontanata come un cane. Passai dalla casa dei bidelli per sapere notizie più precise. Purtroppo era tutto vero. Giuseppe, il padre, mi implorò di chiedere alle autorità che gli lasciassero portare a casa il corpo del figlio. Raggiunsi la piazza. Mi feci avanti deciso. Mostrai il distintivo fascista, ma i militi non vollero sapere nulla della mia richiesta: dovevo chiedere al Comando della Brigata Nera. Vi andai, la sede era poco lontana dal teatro. Con parole adatte, per non irritare la suscettibilità di chi già si sentiva con l’acqua alla gola, feci capire che ormai la guerra era finita per tutti e che non aveva più senso uccidere, che il cadavere esposto non avrebbe fatto cambiare idea più a nessuno, che per pietà cristiana consentissero che fosse riconsegnato alla famiglia. Ricordai che il padre era stato decorato di medaglia d’argento al valor militare, che il figlio poteva esser stato trascinato dall’avventatezza giovanile, dall’euforia, dall’esaltazione incontrollata... Non so dove presi tutte le parole, né per quale miracolo risultarono convincenti le mie argomentazioni. Fu piuttosto la sicurezza, il convincimento, l’energia che videro in me, che li portò a riflettere che l’esibizione di forza in quel momento poteva esser ormai solo patetica.

Con l’aiuto dei portantini dell’ospedale la salma venne portata a casa.

Ma la giornata doveva essere ancora lunga. Prima di sera altre persone venivano uccise: due furono colpite da una sventagliata di mitra sul ponte che porta a Soncino, mentre andavano per disarmare i Tedeschi; la terza era un semplice contadino, poveretto, che stava andando a comprare delle bestie a Orzivecchi: imbattutosi nella colonna di Farinacci che risaliva verso Palazzolo, tentò di fuggire fra i campi, ma fu colpito e cadde in un fossato.

Dalla mia stanzetta, presso la famiglia Picco, vidi la ritirata della “colonna Farinacci” che si stava dirigendo verso Milano per un’ultima estrema resistenza. Urlavano di chiudere le finestre e sparavano verso le finestre aperte. Uno spettacolo spaventoso, terrificante, di disperati e deliranti, avviati verso una tristissima fine. Stetti per un po’ perplesso a riflettere sul da farsi… Avrei dovuto unirmi a loro. Per la prima volta disubbidii al partito. Mi sentivo profondamente turbato dai tanti e gravi avvenimenti della giornata.

Mentre ad occhi spalancati e sovrappensiero guardavo il tramonto di quella lunghissima giornata… Ah, Leopardi:

...e intanto il guardo
Steso nell’aria aprica
Mi fere il Sol che tra lontani monti,
Dopo il giorno sereno,
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.

… si presentò alla porta un gruppo di giovanotti di Orzinuovi, capitanati dal figlio del professor Ziletti (noto antifascista che si era rifugiato a Orzinuovi). Erano venuti ad arrestarmi. Mi portarono sotto scorta armata alla prigione della caserma della GNR .

Nel frattempo, altri si muovevano per me. Il farmacista, antifascista, chiese che venissi liberato, assumendosi la responsabilità di custodirmi in casa sua. Lì trovai anche un noto gerarca di Iseo, Alghisi, che aveva trovato rifugio in casa dell’amico e compaesano (entrambi erano di Verolanuova).

Nei giorni a seguire furono uccisi anche dieci militari tedeschi, soltanto le lapidi di Costermano tramandano ormai il loro ricordo.

Nel frattempo, il 28 aprile, a Esine – non saprei dire se agisse più una fatale nemesi storica o una superiore giustizia –, nel luogo stesso in cui era stato ammazzato il povero Móha , anche il suo uccisore scontò con un rigurgito di sangue la tracotante risata con cui ottanta giorni prima aveva siglato quel suo gesto brutale. Fu davvero il capro portato al centro dell’arengo ed ucciso in espiazione: con lui si volevano uccidere tutti i Tedeschi, ossessione costante per tutti quei mesi; causa prima della guerra, dei lutti, della fame e persino del sido invernale che mai fu tanto pungente. Ma la nostra gente non avrebbe infierito con cattiveria, coi bastoni, coi calci, gli sputi e perfino gli ombrelli. La buona gente non fa vendette contro chi chiede pietà. Penso che alcuni fra quanti han preso parte al linciaggio temessero di essere smascherati come spie e collaboratori, che si venisse a sapere che avevano goduto vantaggi e ricevuto favori. Temessero lo sguardo accusatore: Tu quoque… da portare per tutta la vita come infamia segreta e perenne rimorso.

Arrivò poi anche la notizia della fucilazione di Mussolini e dello scempio vergognoso di Piazzale Loreto. Era davvero finita un’epoca. Non riuscii a serbargli rancore per quel che aveva fatto. L’avevo idolatrato acriticamente come molti Italiani. Mi sentivo piuttosto come un innamorato deluso e non corrisposto, dopo innumerevoli prove di fedeltà, dedizione, abnegazione. Per lui avevo corso seri pericoli durante la missione a Siviglia, per lui avevo corso il rischio di dieci anni di travaux forcés in Tunisia, per lui divenni un sorvegliato speciale nel mio stesso paese natale.

Le scuole in quei giorni rimasero chiuse, riaprirono il 2 maggio. Tutti avevano bisogno di un po’ di vacanza, chi per esultare e chi per rassettare i pensieri.

Il giorno 30, un lunedì, mi arrischiai a chiedere il permesso di rientrare a Esine. Non so quale santo mise la sua buona intercessione, fatto sta che ottenni una specie di salvacondotto da presentare ai posti di blocco che avrei incontrato. La circolazione degli automezzi civili e le corse del treno erano state sospese: l’unico mezzo disponibile era rimasta la bicicletta.

Temevo che durante la ritirata dei Tedeschi, fosse successo qualcosa alla mamma o alle sorelle.

Passai in Direzione per avvisare della mia assenza e disporre per la supplenza. Scrissi le due ultime circolari, la n. 306 e 307 che prevedevano la riapertura delle scuole appunto per il 2 maggio (a Quinzano le scuole erano parzialmente distrutte; a Borgo San Giacomo erano state utilizzate come deposito per il bottino di guerra tolto ai Tedeschi. Qui le lezioni sarebbero riprese a orario ridotto...) Balzai in sella alla bicicletta e partii: ad Orzinuovi non avrei più rimesso piede!

Il Comando di Liberazione si pentì quasi subito di avermi lasciato partire. Incaricarono il figlio della mia buona padrona di casa di cercarmi e di riportarmi indietro. Il buon giovanotto nell’inseguirmi percorse strade dove sicuramente non mi avrebbe mai raggiunto. Ritornò a Orzinuovi dicendo che ormai ero uccel di bosco.

Giunto ad Iseo, mi fermai a riprendere fiato e mangiare qualcosa alla “Guada”, all’inizio del paese. Qui venni a sapere che in piazza stavano tosando alcune donne fasciste. Finsi entusiasmo alla notizia. Uscendo però mi morsi il labbro, pensando a San Pietro... Era la seconda volta che rinnegavo il partito. Alla trattoria “Tesor” era stato allestito un punto di controllo: una giovane signorina bionda diede un’occhiata al “salvacondotto” e mi lasciò andare. Dopo varie altre soste giunsi a Darfo. Ancora lungo la strada incontrai un partigiano di Esine, il Barbù, che mi accompagnò al Comando, presso l’asilo. Il comandante, proprio il ten. Bruno, timbrò nuovamente il foglio di viae aggiunse a mano: «Il Sig. Ameraldi Oberto può proseguire. Il Comandante del Presidio». Mi augurò buona fortuna e mi lasciò andare.

Al ponte di Esine un gruppo di ragazze stava attendendo l’arrivo degli Americani. Notai un certo sguardo di sorpresa nel vedermi ancora vivo e in circolazione... Interminabili mi parvero i pochi minuti che impiegai a percorrere il Tir, lo stretto rettilineo dal ponte al paese. Finalmente arrivai a casa e riabbracciai mia madre e le mie sorelle, come fossimo tutti sopravvissuti a un grande pericolo. Beh, era mancato poco che tosassero Margherita ed Emilia, ma qualcuno fermò i facinorosi.


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