Ameraldi - 9.08 Orzinuovi, la guerra, l'epurazione Documento senza titolo

Oberto Ameraldi:
Una vita di fede per la scuola

Brescia : Fondazione Civiltà Bresciana, 2000. - (Cattolici & Società ; 11), p. 496-513.


9.08. Orzinuovi, la guerra, l’epurazione (parte ottava)

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Nel frattempo, il Comandante Romolo Ragnoli (Vittorio) aveva disposto che tutti coloro che avevano ricoperto cariche nell’ex- PFR dovessero presentarsi al più vicino Comando delle Fiamme Verdi. Il 2 maggio fui convocato al comando di distaccamento di Pian di Borno, presso le scuole, dal Comandante Giulio Mazzon (Silvio):

Ameraldi Uberto deve essere condotto al comando presidio di Pian Borno per comunicazioni che lo riguardano.

(Silvio)

Qui ebbi un primo interrogatorio; c’erano quasi tutti i partigiani di Esine: Gelfi, Salvetti, Mazzoli e Gelsomini.

Passai alcuni giorni in gattabuiain attesa del processo in Pretura. Presidente era l’avv. Raffaglio, coadiuvato dal maestro Gianni Guaini di Ceto. Pubblico ministero il col. Giulio Gennari, che si era rivolto al Comando Partigiano per reclamare il mio arresto. Grazie alla “confessione” dell’ex podestà di Breno, l’ing. Giovanni Ronchi (cognato dello stesso Gennari!), fui scagionato da ogni accusa. Ebbi anche il conforto di vedere che alcuni fra coloro che avevo aiutato si presentarono spontaneamente a testimoniare in mio favore, nonostante fosse rischioso per loro difendere un fascista. Gli insegnanti del Circolo di Orzinuovi firmarono una dichiarazione che mi fu di molto aiuto.

Nel frattempo (30 aprile) il CLN di Brescia, d’intesa col Governo militare alleato, aveva nominato un nuovo Provveditore, il prof. Mario Marcazzan. Era destino che le nostre strade si dovessero incrociare: nell’autunno del 1928 (l’anno in cui mi sono diplomato) aveva avuto un incarico di latino al “Gambara”; nel 1940 mi aveva preceduto come direttore dell’Istituto di Cultura Italiano a Sofia.

Soltanto il 12 giugno riuscii a leggere una sua lettera, scritta a mano e non protocollata – da intendere perciò come ufficiosa –:

Per ragioni che Lei potrà facilmente comprendere è opportuno che in questi giorni Lei si faccia sostituire, in attesa di disposizioni che questo Provveditorato invierà, nel suo posto di Direttore didattico del Circolo di Orzinuovi, da elemento di ruolo il quale per il suo comportamento morale e politico sia al di sopra d’ogni critica, e accetto al Comitato di Liberazione locale.

Spiacente di quanto sopra, penso si renderà conto dell’opportunità di quanto ho deciso nel suo stesso interesse.

Il grottesco era all’ordine del giorno e per me era difficile raccapezzarmi. Mi riferisco, per esempio, alla cerimonia di ringraziamento celebrata nel Duomo Vecchio di Brescia. Nelle prime file le nuove autorità: il sindaco Guglielmo Ghislandi (originario di Breno), il tenente colonnello canadese Homer S. Robinson del Governo militare alleato, il CLN al completo e il vescovo. «Il triplice scandire della liturgica sequenza “Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat”» mi suonava familiare alle orecchie, e come altre volte, in altre occasioni, il vescovo intonò il solenne Te Deum.

Secondo il vescovo il territorio bresciano era stato risparmiato dagli orrori della guerra! Aveva poi «innalzato al cielo per il popolo un solenne giuramento: ora che l’Italia è libera, tutti diano valida prova di civismo, disciplina, concordia al di sopra di ogni competizione di parte, carità cristiana e amor fraterno, affinché si possa incominciare una efficace e laboriosa opera di ricostruzione morale e materiale.»

Non lo dico per vana blaga del mio operato, ma ciò che il vescovo chiedeva ai Bresciani per iniziare la ricostruzione, l’avevo fatto giorno per giorno. Mi confermavo così nell’idea che si fosse voluto far piazza pulita di una fetta di Italiani, incredibilmente sparuta dopo la Liberazione , che avevan opinioni politiche diverse. Non mi sentivo tanto ingenuo da non comprendere che effettivamente una contrapposizione sostanziale esistesse: ma lavorando nella Scuola in modo “patriottico” ci si abitua a non far differenze.

Civismo, disciplina e concordia erano valori che potevo sottoscrivere senza batter ciglio. Su queste basi si può costruire una società e una nazione di cui esser fieri di appartenere.

Non avevo nulla di cui rimproverarmi; all’indomani del 25 aprile non mi sono annodato un fazzoletto rosso, verde o giallo che fosse. Mi mantenni fedele alle mie convinzioni, ai miei impegni, non per amore di una coerenza solo apparente, ma semplicemente perché mi era impossibile agire diversamente, avrei tradito me stesso. E quand’anche si perdesse la patria e l’ideale per cui si è disposti a dare la vita, a se stessi non si può mentire, non si può tradire impunemente la propria coscienza. Specie quando per professione si è scelto di essere modello educativo alle nuove generazioni: per questo ideale si può dare la vita, una vita di lavoro, di sacrosanto impegno: è col sacrificio quotidiano, col dovere assolto fino in fondo che a quell’ideale si dà finalmente la vita.

Questa fedeltà, o meglio, questa fede (infatti è un convincimento talmente radicato che resiste a tutte le smentite cui l’esperienza ci potrebbe condurre, che sopravvive alle scelte di comodo, di necessità, compiute in buona fede) attinge a qualcosa di più grande di noi e che superandoci scusa le nostre imperfezioni, dà ali ai nostri tentativi, alle nostre aspirazioni. In questo campo la parola “tornaconto”, la parola “vantaggio” non esistono. Sono griglie materiali, terrene, che non riescono a immettere il soffio creatore e vitale che dà spirito alla vita dell’uomo.

Certo, considerando con sguardo complessivo come ho vissuto quegli anni di guerra, si può pensare che abbia fatto il doppio gioco, tradendo chi mi dava da mangiare e facendo la spia, che abbia da un canto salvato la pancia ai fichi, come si dice, e dall’altro che abbia tenuto il piede in due scarpe, così da rifarmi una rispettabilità e prepararmi con le carte in regola per il “dopo”.

Gli amici dell’infanzia mi conoscevano bene: quel che potevo fare non aveva secondi fini, se non quello immediato di tentare tutto il possibile per alleviare sofferenze, aiutare chi era ne guai, prevenire. Difatti la loro amicizia non mi è venuta meno. Ero una quinta colonna? Non credo. Quel che facevo non era qualcosa di organizzato, episodi di un piano preordinato, ma gesti suggeriti dall’immediatezza dell’occasione. Aiutavo anch’io, come Renzo, la mano tesa che trovavo a me più vicina.

Vi sembra bello e democratico trasformare una direzione didattica in un ufficio di delazione? Una scuola in sala da ballo domenicale? Usare della propria carica per vendette personali? Sono cose successe, a Orzinuovi come in altri luoghi. Questa fu la ricompensa per aver fatto onestamente il proprio dovere, per aver preservato dal saccheggio e dall’incuria gli edifici pubblici. Non ce l’ho con la democrazia e i partiti. So bene che ci vuole forza e pazienza per domare un puledro morbinoso come è l’improvvisa libertà – vi ricordate dei “45 giorni”? – Per alcuni mesi è stata la giungla, dove nuovi Tarzan dominavano perché il loro urlo sovrastava perfino il ruggito del leone. Le troppe voci procuravano fastidio e sordia, rendendo difficile il comprendere quel che stava davvero succedendo.

Ancora una volta il Ministro Biggini aveva previsto che «vinta la guerra bisogna vincere la pace», cominciando nell’immediato con una buona scuola e con le riforme.

Venni a sapere che uno dei due maestri di Pompiano che erano stati sospesi era divenuto capo del CLN di Pompiano. Alla notizia, l’angolo della bocca si storse da sé, presagendo nulla di buono. Il 29 aprile era venuto infatti a cercarmi in direzione, pieno di una baldanza che non gli conoscevo e di rimostranze, sostenendo di essere stato danneggiato da me sul piano politico. Probabilmente l’essere stato aiutato da un iscritto al PFR era divenuto un marchio infamante o per lo meno di sospetto.

Mentre ero agli arresti a Breno, mi fu comunicato che ero stato da lui denunciato alla Commissione Provinciale per l’epurazione.

Non ho mai sbandierato le mie benemerenze: chi doveva sapere sapeva. E perciò il fatto di essere oggetto di una denuncia, paradossalmente mi dichiarava innocente. Fu il miglior attestato di aver fatto molto, di aver fatto bene il mio dovere, di essere stato fedele a me stesso.

Puntualissima la solidarietà di Vittorino Chizzolini. In una lettera alla direttrice supplente, scriveva:

La notizia mi ha veramente contristato. Sono vicino a lui e a Voi con cuore di vero amico. Prego e confido in una rapida soluzione.

Fui sospeso a partire dal 1° giugno 1945. Compilai una «scheda personale»rispondendo a oltre quaranta domande e cominciai a prepararmi l’autodifesa, o meglio una specie di ricorso diretto alla Commissione per l’Epurazione affinché avesse ulteriori elementi di giudizio oltre alla «scheda personale» e ai pretesi capi d’accusa contenuti nella denuncia.

Richiesi a chi mi aveva conosciuto e che in qualche modo avevo potuto aiutare un’attestazione del mio operato in loro favore. Fu consolante e mi sorpresi nel vedere il gran numero di quanti risposero al mio appello: per la maggior parte erano antifascisti, ma prima di tutto buona gente che sapeva che cos’è la riconoscenza, che era pronta ad aiutare nel momento del bisogno. Il mio stupore nasceva dal fatto che si vedevano troppi “antifascisti” dell’ultim’ora, troppe banderuole. Chiamai questo periodo l’“alluvione dell’amicizia”.

Anche la legge sull’epurazione aveva del grottesco. Nata come legge Sugli illeciti arricchimenti, finì con l’essere un grande pasticcio ingovernabile, che come al solito colpiva i pesci piccoli e lasciava scappare i pesci grossi, aveva “fatto volare gli stracci”. Finché Togliatti se ne sbarazzò con l’amnistia concessa con la proclamazione della Repubblica Italiana. Aveva molte somiglianze con la Legge sulle responsabilità politiche di Franco, e come essa era retroattiva.

La Commissione Provinciale per l’Epurazione aveva varie sottocommissioni, tra cui una per le scuole elementari, il presidente era il dr. Gaetano Ricci.

Seppi in seguito che come me erano state denunciate anche sei maestre del circolo di Orzinuovi, quattro perché iscritte al PFR e due per il solerte interessamento del solito maestro. Vedendo che tre quarti dei denunciati nella scuola erano maestre, ebbi conferma che l’epurazione era una montatura di vigliacchi e trecconi del nuovo ordinamento. In complesso furono denunciati circa 300 dipendenti del Provveditorato, tra cui alcuni bidelli! Voglio ricordare i colleghi direttori didattici Luigi Provaglio, che poi mi sostituirà a Orzinuovi, Ezechiele Bracchi, Maria Dara, Eneide Gritti, Giuseppe Orizio, l’ispettore Romano Pini, e naturalmente in testa il Provveditore Carlo Pasero. Non fu escluso il Presidente Provinciale dell’ ONB Vittorio Gennaro.

Tra gli uomini di cultura Narciso Bonfadini, Carlo Pasero ed Emanuele Süss.

Ad Orzinuovi furono pure denunciati il segretario comunale (rag. Arturo Zucchi), cinque dipendenti del comune, il veterinario, un dipendente della banca.

A Esine Glisente Scalvinoni, Commissario Prefettizio.

Per me tutto sommato fu un anno sabbatico. Passavo le giornate un po’ a zonzo, un po’ a studiare, dando qualche ripetizione, conversando con don Sina, che stava ultimando Esine, storia di una terra camuna.

Ero sereno, tranquillo. Mia madre ogni tanto, vedendomi sfaccendato, cercava di provocarmi, dicendomi che non guadagnavo nulla: «Te guadàgne-t mía»; ed io le rispondevo di non temere che le cose si sarebbero ben presto accomodate, che presto sarei stato riammesso in servizio. Leggevo i libri di Ciro Trabalza, linguista e critico letterario e le vite dei santi.

Quel che era capitato a me era solo un piccolo sintomo di quanto stava accadendo nella scuola. E tutto un po’ “all’italiana”, nel nuovo senso che l’espressione stava assumendo.

Domenica 21 maggio si svolse a Breno una grande manifestazione con tutte le nuove Autorità, i comandanti, gli ex-ribelli («ragazzi caratteristici nel volto abbronzato e dalla maschia fierezza»), erano presenti gli alunni di tutte le scuole e dell’asilo di Breno. Il giorno dopo lo stesso giornale scriveva: «Basta con le adunate in questa o quella piazza, con le parate in perfetta divisa sotto la pioggia torrenziale o sotto il sole cocente, e basta pure con quelle gare ginniche e sportive che rubavano agli allievi ore ed ore».

Andavo convincendomi che a una fede se ne stava sostituendo un’altra: a una fede fascista una fede antifascista. Dove lo stesso prefisso esprimeva tutta la ristrettezza di vedute del nuovo corso. Avessero detto “fede democratica”, “fede liberale”, “fede patriottica”, poteva avere un qualche contenuto programmatico di ampio respiro. Ma “fede antifascista” mi pareva un’angustia concettuale e in fondo anche una limitatezza progettuale che, almeno su me, ottimista, ma coi piedi per terra e con lo sguardo al futuro, non poteva aver molta presa. Non mi convinceva quell’ anti , fronzolo di pura e inutile retorica, col sottinteso polemico, che perpetuava ad infinitum la lotta fra le diverse fazioni, che tuttora perdura nei vari slogan, come «Ora e sempre resistenza» scandito come formula magica o giaculatoria d’una nuova religione.

Se era questa la prospettiva allora non faceva per me. Senza una vera riconciliazione degli Italiani, secondo gli ideali di Gioberti che cosa sarebbe stata la nuova Nazione? Di nuovo, nonostante a destra e a manca si udisse proclamare che la Resistenza era stata un “Nuovo Risorgimento”. Mazzini dov’era?

In buon ordine mi ritirai, senza rancori, guardando al solo bene della Scuola e dei bambini, guardando concretamente al futuro delle nuove generazioni, cui stavamo consegnando un’Italia di macerie e miserie. Maledettamente sfortunata. Un’Italia frammentata, divisa, una gran quercia secolare dopo un uragano; dove ogni ramo mal sopportava la presenza del ramo fratello. Un’Italia figlia - ora lo so degli Italiani di quel momento più che della sua storia, un’Italia senza più alti destini, senza più una missione nella storia e nel mondo, un’Italia avvilita dalle nuove parole d’ordine.

Questa Italia naufraga, “fuor del pelago alla riva”, sembrava una nuova Venere uscita dalle onde, ma infardata d’un pesante maquillage. Amaramente - perché tuttavia non mi so riconoscere un atteggiamento beffardo - andavo constatando che ciò di cui noi fascisti venivamo tacciati (“Faccio bene, faccio male, sono io che comanda”) era passato pari pari nei “modi democratici”. Di questa pasta erano i nuovi padroni. Povera Italia. Anche la parola stessa Resistenza mi parve tutto sommato mal scelta.

Traballava in me il concetto stesso di fede - o meglio, gli avvenimenti, nel loro svolgersi e rivolgersi, mi facevan convinto che anche la “fede” se applicata a cose umane, come un partito, un uomo e persino un’idea, assume le nostre finitezze, diventa una sorta di profanazione, un mischiare sacro e profano. Da allora mi ripromisi di non aver più “Fede” nelle cose umane, ma solo in quelle divine, “sopra-umane”. Avevo creduto una volta - ora basta. Basta tessere.

Alla fine della guerra in una certa famiglia di Esine una giovane burlona si ricordò di aver nascosto un sacchetto di sale in un cassettone. Andò a riprenderlo e, per fare uno scherzo alla madre anziana ed ignara, si mise a esclamare disperata: La hàl l’à fàt i bóh (“Il sale è pieno di vermi”).

Dopo la guerra anch’io ripresi dal fondo di un cassettone dentro di me un certo prezioso sacchetto da cui avevo attinto con parsimonia il mio sale (e si sa che il sale fa male al cuore): tale merce aveva avuto una circolazione molto scarsa nei mesi della guerra. Alcuni l’avevano troppo frettolosamente sostituito con motti ed insegne presi a prestito che per magia mostravano un roseo avvenire e aurore di progresso, che promettevano meravigliosi panorami di libertà sconfinata di inarrestabile progresso umano e materiale. Altri si erano accontentati di vari surrogati. Sembrava che questi sogni dessero più sapore alla vita, che la proiezione del pensiero verso l’utopia potesse indicare la direzione verso cui andare.

Ve n’era anche di un tipo, assolutamente non raffinato e di colorazione rossastra, buono per allettare il popolino che con bovina pazienza (e ignoranza) da sempre tirava aratro e carretta, ingolosito e sazio di poterne gustare anche solo ogni tanto, come sudata mercede. La povera gente non poteva essere ingannata in tal modo.

Avevo dato il meglio di me affinché le generazioni di rincalzo si emancipassero dalla supina obbedienza, che si facessero una coscienza della propria dignità, che facessero perno sulla propria intelligenza per muoversi nel mondo e con le altre persone.


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Ultimo aggiornamento 24 marzo 2010

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