Ameraldi - 9.09 Orzinuovi, la guerra, l'epurazione Documento senza titolo

Oberto Ameraldi:
Una vita di fede per la scuola

Brescia : Fondazione Civiltà Bresciana, 2000. - (Cattolici & Società ; 11), p. 513-521.


9.09. Orzinuovi, la guerra, l’epurazione (parte nona)

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Nacque un nuovo giornale «Valcamonica libera». Fu un giornale atipico, usava un linguaggio molto diretto, schietto, spontaneo, specchio fedele dell’animo della nostra “povera gente”, a tratti con accenti che definirei persino lirici. È la testimonianza fedele e impietosa del sentimento di delusione, costernazione e rabbia impotente di fronte al retaggio del ventennio. Si era creduto infatti che bastasse la fine della guerra per voltar pagina.

La parola epurazione era sulla bocca di tutti:

In genere da tutti si urla che bisogna agire colla massima energia, che siamo troppo buoni e concilianti, che bisogna fucilare Tizio e Caio senza tanti processi. Quando poi si tratta di instaurare un giudizio serio e di raccogliere prove che solo il popolo può fornire, tutti zitti zitti. Si capisce: occorre prudenza, perché si fa presto a compromettersi…

Naturalmente, per questo… fascistissimo modo di comportarsi, i Comandi di polizia si trovano privi, nella gran maggioranza dei casi, degli elementi indispensabili per un verdetto severo, ma giusto. Di chi la colpa? Non certo dei Patrioti. […] È ora che la gente si inchiodi bene in testa questi semplici e chiari concetti: il fascista repubblicano, pel solo fatto di aver aderito al cosiddetto partito (che non era partito, ma associazione a delinquere), anche se non ha svolto alcuna attività specifica, è colpevole dei seguenti reati: 1° tradimento 2° intesa col nemico 3° collaborazione col nemico 4° assistenza e appoggio a bande di criminali, 5° associazione a delinquere, 6° appartenenza a un partito disciolto; e, probabilmente, di qualche altro.

Un anonimo ed arguto articolista, scegliendosi uno pseudonimo che era slogan di nuova battaglia, Sarà mèi (“Sarà meglio”), denunciava un malessere e uno scontento molto diffuso, un senso generale di ingiustizia, rifletteva sulla situazione, ponendosi domande di non poco momento, chiedendosi se per caso non avesse combattuto invano:

“Ora son qui senza lavoro, senza casa, la mamma piange ancora come ieri quando nell’oscurità venivo a baciarla per temprarmi alla lotta e all’amore. Vedo attorno a me gente che soffre, non certo con l’ardore di prima; vedo i miei compagni d’armi, gli amici tornati dalla prigionia e con loro piccoli, vecchi, senza il necessario, senza vestiti, senza scarpe; e sono i fratelli, i figli, i nipoti del Ribelle. […]

Contro ancora chi gode, mangia e beve, balla e ride e se ne frega di tutti e ragiona pressappoco così: “ la Patria è lo star bene, la mia Patria sono i miei interessi e chi vuol fare il fesso a combattere è un anormale; non sa cos’è la vita; la Patria è la greppia dello stato e chi sa mettervi bene il muso può mangiare a sazietà”.

Perché si devono vedere gli impresari della O.T. i trafficanti lerci di borsa nera ammassare ricchezze a scapito del lavoratore e del popolino? Io vedo sui loro bigliettoni da mille, tra le dita delle loro mani il sangue dei miei compagni, il sudore di morte dei prigionieri e dei combattenti, e sto male. […]

Perché ancora le signorine dalla boccuccia di baci, dai denti di latte, che fino a ieri han fatto le porchette coi biondi teutoni e coi neri repubblichini, sono in giro pazze di gioia e di avventure coi soliti gagà? Perché sono ancora qui a imbrattare le strade dove à versato il sangue il Patriota? Perché sono ancora qui tra i piedi a sedurre il Patriota colui che era Ribelle ad ogni mollezza? Perché? Mentre le buone ragazze, quelle che hanno lavorato, pregato e sofferto pei patrioti, sono ancora curve sulla terra con la zappa in mano o sulla macchina dello stabilimento? […]

Perché al mio paese ci sono ancora gli stessi amministratori di ieri, le stesse autorità che mi hanno linciato?

No, no, così non va; non avrei mai creduto, ma purtroppo non si è realizzato ciò per cui ho combattuto; quindi ho tribolato invano più di un anno, invano sono morti i miei più buoni e generosi compagni! Sento dentro di me la voce dell’insulto che ripete il motto chi è morto giace e chi è vivo si dà pace e si arrangia più di prima. […]

Bella Italia, amate sponde! Porco mondo! Così non va, se non ci mettono rimedio faccio io giustizia; è meglio – sarà mèi – anzi è forse necessario che riprenda le bombe a mano il mio mitra e ritorni al bosco per discendere ancora con la barba lunga e il viso scuro, non a sabotare ma ad epurare, non più a far saltar ponti, ma i caffè ed i saloni… […]

Ci vuole giustizia, non vendetta, ma giustizia sì, e chi ha mancato paghi; non voglio né eguaglianza sociale né comunismo, né anarchia, né rivoluzione armata, ma giustizia, Viva Dio, quella sì, in nome dei nostri morti”.

Sarà-Mei

I protagonisti della Resistenza si sentivano sradicati. Non erano i protagonisti del rinnovamento: oltre che della fama si sentivano defraudati anche della possibilità di continuare nella pace, nel concreto, nell’umiltà e nella costanza delle “piccole opere” a combattere con la dedizione e lo slancio che li aveva determinati alla lotta. Non vedevano ancora la realizzazione della speranza per la quale avevano sofferto, resistito, combattuto. Al punto da sentire il bisogno di ritornare di nuovo sui monti:

Sono venuto anche per questo. Per un omaggio, quasi uno spirituale incontro, con i miei, coi nostri morti, che non poteva avvenire nella mia casa troppo nuova, nel cimitero di tutti, nelle città affollate e stordite dalla fame di guadagni e di godimenti.

Un incontro coi nostri morti che non possono dormire. Su di loro preme insolente il passo di tutte le feste danzanti, romba l’altoparlante di tutte le fame usurpate, rotola incessante il convoglio dorato di tutti gli arrivisti, passa il gridare di un popolo che ancora non può sapere che cosa vuole, che si oppone alla sua pena, che non accetta la sua espiazione.

Forse dormirebbero, soltanto se noi li raccogliessimo da tutti gli orizzonti e li portassimo sulla cima dei monti, dove non giungono sempre nemmeno i pastori, ma vivevano i ribelli, al limite dei ghiacciai, che ricordano la purezza della loro offerta, del verde perenne dei boschi che ricorda l’invincibilità della loro speranza.

Mentre la guerra si concludeva lontano, con uno spropositato atto d’intimidazione e di terrorismo – rispetto al pur grave bombardamento di Guernica, il “gran sole di Hiroshima” rimane assolutamente senza confronto –, il 6 agosto Esine aveva nel giovane Giacomo Stofler il suo ottavo caduto per la Resistenza.

A poco a poco l’epurazione si andava svuotando di senso e di efficacia. Al punto che il solito cervello fino di montagnino, con un distico degno del più salace degli epigrammi, si proiettò all’anno 2000 per guardare a ritroso con rabbia e con disincantata autoironia:

… e allora si fece l’epurazione: e tutti gli ex-internati, i partigiani, i perseguitati, si sentirono di non essere stati fascisti (Storia del 1945, narrata nel 2000)

E continuava senza tanti giri di parole:

Guardiamoci dai camaleonti che oggi magari sono all’opposizione e s’affannano e sbuffano alla ricostruzione. Mica muovono una paglia però; vogliono rifarsi la verginità con gli stessi metodi e gli stessi uomini. E il popolo? (Ma possiamo ancora usare tale parola per gli Italiani?)

Il popolo brontola. Ha fame, non ha lavoro, è mutilato e scheletrito da tante guerre e da tante commemorazioni. Ora vede e travede. Pensava: «Finirà». Era il ritornello ossessionante di sempre. È finita; ma «el diféto el xe nel mànego».

Leggevo con avidità queste parole, erano le parole di un galantuomo. E quel galantuomo camuno che si faceva chiamare Crapadüra non poteva che esclamare:

Anni! Oh, quanti anni ci vorranno per rieducare tante coscienze, tanti caratteri all’onestà, al lavoro, al senso umano di dignità e responsabilità, al dovere civico. […] Le dande ci vogliono, le dande per i pupi che non sanno camminare e per i popoli che non sono tali che nelle intenzioni.

Ebbene, un anno dopo la Liberazione , un articolo di fondo si chiedeva quel che mi ero chiesto alla vigilia del 25 aprile: Che è libertà? Non era firmato, ma ho buoni elementi per supporre che fosse di don Sina:

Libertà è luce di verità. […]

Si grida morte ai tiranni e agli incapaci e nello strillone che agogna il posto di chi cade, già scorgi il futuro tiranno. Ragionando da povero diavolo tu ne provi schifo. […]

Tu potrai essere il più giusto tra tutti gli Italiani, potrai vedere lucidamente i problemi del nostro tempo, ma se non scenderai in piazza a gridare, perché sai che i fatti della vita sarebbero altri dalle tue belle parole, tu sei un uomo sorpassato dai tempi. […]

Si è detto che la libertà è a doppio taglio e chi non la sa maneggiare ne rimane ferito. Fu detto giustamente.

Quando la verità ci illuminerà totalmente allora saremo liberi.

Oggi noi semplici mortali pensiamo: «In Italia si mira al raggiungimento di un tenore di vita che consenta al singolo una piena libertà o al trionfo di un partito che voglia imporre alla nazione le sue leggi?»

Alle persone che non vedono oltre il cerchio del loro partito noi vorremmo dire: «La giustizia, la verità, la libertà non hanno colore, come non ha colore l’amore di Dio».

Quasi in contrappunto agli avvenimenti, la mia vicenda giudiziaria proseguiva il suo iter. Per la fine del luglio 1945 avevo ultimato la mia autodifesa, corredata da ben 31 dichiarazioni di persone, partigiani e antifascisti, che potevano testimoniare di essere stati aiutati da me... ciò per dire quanto potevo essere fazioso e «fascistissimo». Se permettete, ero fazioso e «fascistissimo» cum grano salis , come penso lo fosse la maggior parte delle persone. Il fascismo non fu un movimento che lasciasse indifferente, imponeva una scelta di campo, richiedeva un impegno, veniva a cercarti dove ti eri rintanato con le tue pantofole e i tuoi agi piccolo-borghesi, ti scrollava dal torpore, ti indicava del lavoro per costruirti come uomo in “una” società.

A questo fascismo avevo creduto, per questo fascismo avevo lavorato e in compenso mi aveva dato una spina dorsale, un modo preciso nel fare, una attenzione ai bisogni, una idealità che incanalava le mie energie.

Con la Liberazione ho visto che tutto questo poteva esser conservato, perché mi derivava più dalle convinzioni che dall’indottrinamento; più dal concetto che mi ero fatto di uomo, di società, di Stato e di Scuola, che dagli slogan dipinti sui muri o scanditi nelle adunate.

E tutto questo sistema si conciliava inoltre con il mio essere cristiano, imperfetto senza dubbio, ma d’altra parte mi sentivo profondamente certo che questa via, essendo una via di Verità, era buona in sé, degna di essere percorsa: perché a mano a mano che la meta si avvicinava, ci giungevano generosi anticipi della beatitudine eterna. Ancor prima della Liberazione, troppo sfacciatamente sbandierata per crederla effettivamente tale, e per la quale tanti cristiani si erano pur impegnati, compromessi, sacrificati, mi sentivo già ampiamente ripagato della “libertà dei figli di Dio”.

Rigettato l’appello, il 13 agosto la sospensione mi veniva confermata. L’iscrizione all’ex- PFR era sufficiente come capo di imputazione per dar luogo ad un’indagine più approfondita del caso personale.

«Il Giornale di Brescia» riportò la notizia il 1° settembre, nella rubrica Epurazioni :

Ameraldi prof. Oberto – direttore didattico:

a) per partecipazione attiva alla politica del fascismo;
b) per avere rivestito la qualifica di squadrista ed essere stato ufficiale del m.v.s.n. e della g.n.r.;
c) per iscrizione al p.f.r. [ Partito fascista repubblicano ] e per aver prestato giuramento al g.f.r. [ Governo fascista repubblicano ]

Alla fine di ottobre venne scagionato dalle gravi accuse per le quali era stato arrestato il dottore di Niardo, Adolfo Aji. Secondo la motivazione «sarebbe entrato nelle brigate nere per puro scopo umanitario».

Anche la direttrice supplente, Jole Assandri, venne denunciata. Mi scrisse (25 settembre 1945), informandomi che era in corso il provvedimento di sospensione:

Caro Direttore,

Stamane, mi è pervenuto l’avviso di progetto di sospensione “per faziosità fascista - collaborazione col g.f.r. (per aver svolto attiva propaganda fascista) (ord. gen. N. 35 lett. C. E.)
Parto per Brescia alle 12 e 40 e mi recherò dal Provveditore. Sentirò cosa mi dice di fare.
Se oggi non mi riceverà mi fermerò domani.
Aspetto consigli anche da Voi.
Saluti e tante scuse per le nuove grane.
Doveri ed auguri alla Vostra Mamma e sorelle.

Assandri

Eh no! Avevo avuto le mie brave difficoltà con la maestra, ma che si infierisse così davvero non mi andò giù, bulicavo di collera. Scrissi di getto una dichiarazione in cui spiegai le sue mansioni in direzione, confermando che non si era mai interessata di politica, non era faziosa, né aveva collaborato col Governo Fascista Repubblicano, a meno di intendere per “collaborazione” il semplice fatto di essere dipendenti dello Stato. Mi sentivo di doverla tirar fuori da quelle braci dove “qualcuno” voleva crudelmente tormentarla per il solo fatto che aveva lavorato al mio fianco. Quelle mie parole, così decise, perché suggerite più dall’immediata emotività che dal raziocinio, riuscirono più convincenti di un’arringa ben declamata: Jole Assandri non fu sospesa.

 


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Ultimo aggiornamento 24 marzo 2010

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