Inchiesta sulla prosa poetica

Inchiesta sulla prosa poetica
YIP - Yale Italian Poetry, 5-6 (2000-2001), p. 436 [pdf]


   Ho letto quasi venti anni fa Lunghi fucili di Cristoforo Moscioni Negri, un ufficiale degli alpini e medico che riguarda la nostra campagna di Russia. Quello mi è sembrato il primo bell’esempio di prosa ritmica.

   Sulla falsariga di questo primo episodio sono andato alla ricerca, spesso involontaria, di altri testi, ed io stesso nelle poche pagine che ogni tanto scrivo, prendo ad esempio quel modo di scrivere, di essere completi nel bel giro del periodo, in modo che la prosa appaia bella, rotonda, che dia l’idea di essere pensata, che dia l’impressione (e ne sia anche sostanza) che le parti siano tra loro ben proporzionate, che quando finisce un periodo si conclude anche e mirabilmente un pensiero. Scrivere allora equivale a riempire le forme ritmiche che la mente suggerisce: riempirle di parole, di concatenazioni sintattiche necessarie, che stanno bene insieme, “come un fagiolo nel baccello”. V’è dunque all’inizio un arco di pensiero, un aggetto verso il futuro che si va infoltendo di parole, di frasi, che si riguardano indietro per una riconferma di sé; si torniscono i periodi, si scelgon le parole, si progetta la gittata di un accento in modo che quel luogo e solo quello sia pieno della parola più scelta, più bella, che a sua volta in tutto quel bel contesto strutturato si ricarichi di un corteo di inediti significati.

   La prosa così diventa un piacere: un piacere per lo scrittore che la plasma, un piacere per il lettore che ne rimane incantato, più dalla perfezione della forma che dal contenuto, incantato ancor più dalla fluidità della lingua che si fa divorare come fa un camminatore che percorre in una bella giornata il crinale di un’alta collina. Oltre a questo, bisogna contestualmente scegliere belle immagini, belle storie, o abbellirle, accomodarle, perché la frase scorra piacevole, si sciolga via via e produca nel crogiolo del nostro pensiero, del nostro gusto, quell’intimo piacere che a nostra volta ci plasma, perché ne vogliamo esser plasmati.

   Allora i periodi possono essere anche molto lunghi, perché non hanno interruzioni, perché il racconto è un placido regolare fluire, perché dà tempo al lettore di tutto ammirare, di tutto apprendere, di tutto alfine godere. Allora la scrittura diviene gesto epico che rimane a futura memoria, perché nello scrivere non di banalità parliamo, ma di quanto più al mondo ci preme. E tale mi sembra poi lo scopo della scrittura, questa la meta di chi voglia mettersi a scrivere: un servizio al lettore, un servizio in guanti bianchi, un lusso per coloro che si lasciano incantare e sorprendere, per coloro che usano le parole come segnavia per giungere al cuore di sé, attraverso lo specchio che ne rimanda il mondo: allora davvero lo scrittore ci parla.

   A mo’ d’esempio una breve citazione (le parole in corsivo sono denominazioni dialettali di un Ponte sull’Oglio e di una cascina, “Burro”, distanti circa due chilometri):

«Come da ragazzo per gioco camminavo su una rotaia lungo i binari dal Pùt de l’Ói anfìna ai Botér e allargando le braccia per farmi leggero sembrava il mio passo una danza di gru, simile in tutto all’antica di Tèseo appena sbarcato sul litorale di Creta, così ora — passati quant’anni? — riavvolgevo in gomitolo il filo di Arianna, avendo trovato la via per uscire dal labirinto dei miei stessi desideri e pensieri, dopo aver camminato lungh’essi buon tratto in equilibrio precario».

Iseo, 2001


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