Ameraldi - 2. La mia famiglia Documento senza titolo

Oberto Ameraldi:
Una vita di fede per la scuola

Brescia : Fondazione Civiltà Bresciana, 2000. - (Cattolici & Società ; 11), p. 23-53.


 

2. La mia famiglia

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Esine canta al sol, lungo la china
sorridente di fiori e smeraldina.

                            Isotto Boccazzi

Il mio paese del torrente Grigna
Siede tranquil sull’ubertosa sponda:
Là d’ogni biada la semenza alligna
E vi scorre del vin l’amabil onda;
Là vivon l’alme del signore amanti,
Nella virtude e in ben oprar costanti.

                              Paolo Nodari

 

All’inizio del secolo, quando sono nato, Esine contava all’incirca 2.000 abitanti, era un centro prevalentemente agricolo, gran parte del territorio era montano. Non era molto diverso dal borgo che avete abitato. Ora non lo riconoscereste più. In meno di un secolo è più che raddoppiato; ai vostri tempi, nel 1459 contava circa 850 anime.

Sono state costruite molte case, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale. Le strade ora sono molto larghe: non ce n’è più una con l’acciottolato e le trotadùre. Quando ero ragazzo hanno allargato e acciottolato anche le mulattiere del monte.

Il torrente Grigna c’è ancora, ma il vecchio ponte di legno non più; e più nessuna donna va a lavare i panni nelle sue acque. Ogni tanto fa ancora paura. In un mio scrittoho cercato di raccogliere tutte le testimonianze sulle alluvioni del nostro torrente, quella del 1634 (con 17 morti), del 1882 (descritta in una lettera dalla poetessa Francesca Laffranchini, allora bambina decenne) e del 1960.

La maggior parte degli Esinesi era costituita da contadini, piccoli artigiani, “povera gente” come li ho chiamati; ma non direi che fossero stupidi, e nonostante la scarsa istruzione non mancavano di arguzia salace: non c’era famiglia senza il suo bravo soprannome, affibbiato a pennello; ancora mi vengono alla memoria le hàtere (satire) in rima di Paolèto (Paolo Federici). Vorrei però nominarvi alcune figure importanti di maestri, come Nicola Gatti (maestro di Giambattista Guadagnini e di Fortunato Federici), don Paolo Federici, don Paolo Nodari, e gli allievi di quest’ultimo: Antonio Rivadossi, Vincenzo Guarinoni e anche mio padre, Emilio Ameraldi.

Non posso dire che sia stato io a portare il progresso a Esine, però le coincidenze sono significative: due anni prima che nascessi giunse il telegrafo, l’anno successivo venne accesa la prima lampadina elettrica; nel 1908, lo stesso anno in cui sono nato, il treno si fermò per la prima volta alla stazione “Cogno-Esine”. Prima c’era la Guidovia Camuna, una tramvia a vapore che collegava il porto di Lovere con Cividate.

In quegli anni (1907-1912) era sindaco il dottor Francesco Bonettini, prima e dopo di lui fu sindaco Giovanni Maria Nodari(1898-1905 e 1914-1919): fecero grandi cose per Esine, avevano un grande amore di patria.

Delle persone della mia famiglia e di me stesso durante gli anni della fanciullezza conservo vividi e ben marcati ricordi: li ho disseminati un po’ ovunque nei miei scritti. Ciascuno dei miei familiari ha impresso un segno particolare in me, ha permeato vari aspetti del mio pensiero, dei miei atteggiamenti e della mia personalità. Non so perché mi siano rimasti nella memoria alcuni ricordi e non altri, probabilmente dipende dalla mia sensibilità o perché inconsciamente vi ho intravisto un’aura speciale, una sorta di emblematicità, un indizio quasi profetico.

Sono nato il 29 ottobre 1908, giovedì, all’ora di pranzo.

In casa c’era un movimento insolito. Mio padre, il maestro Emilio, aveva approfittato del giorno di vacanza per invitare alcuni amici e colleghi a mangiare polenta e uccelli (sant’Uberto è patrono dei cacciatori, dopotutto).

La mamma, invece, era a letto “malata”, così si diceva. Alcune donne correvano indaffarate con bacinelle d’acqua calda, brocche e asciugamani; la levatrice, con voce ferma, incoraggiava la mamma, che ogni tanto si lasciava scappare un grido rattenuto di dolore. Trascorsero minuti che a tutti sembrarono interminabili in attesa della lieta nuità, ecco finalmente il pianto acuto del neonato: era un maschio! Ero io!

Mio padre salì in camera a vedermi: mi prese in braccio, mi cullò, mi sorrise, sorrise anche alla mamma.

Poi, di corsa, tutto emozionato e contento, andò in comune per registrarmi all’anagrafe:

Alle ore una e minuti nessuno nella casa posta in via Sonvico è nato Ameraldi Oberto Luigi Antonio figlio di Emilio e di Guadagnini Maria.

Mi fu padrino lo zio maestro G. Battista, che abitava a Cogno.

Nella casa Guadagnini di allora (ora proprietà Ameraldi, Nodari, Salvetti, Taboni e Vielmi) vivevano: Giovanna, Giacomo Antonio, G. Battista, Antonio, Oberto, Margì, Adeodata, ecc. ecc. Ognuno col proprio temperamento ed il proprio estro; formavate una piccola comunità parentale esemplarmente concorde e solidale. Il cortile era stato vistosamente battezzato «Corte celeste» dal nonno Tóne, ne aveva curato anche l’insegna e ciò per sottolineare l’armonia che regnava tra i vicini.

Mia mamma, Maria, aveva allora 31 anni, era figlia unica di Antonio (il nonno Tóne, 58 anni, che lavorava alla fucina di Picanhöl) e di Chiara Bontempelli (la nonna Ciarì, 57 anni, che gestiva una mescita di vino).

Mio papà si chiamava Emilio Ameraldi, aveva 32 anni e insegnava presso le scuole elementari di Esine. Papà e mamma si erano sposati quattro anni prima, nel 1904. Avevo già una sorella, Margherita, nata il 25 dicembre 1905, e dunque non aveva ancora compiuto i tre anni. Nel 1910 (17 novembre), mi nacque anche una sorellina, Emilia. Ecco, questa era la mia famiglia.

In casa conservo un ritratto della mamma, l’aveva dipinto il prozio Antonio quando era una giovanetta di sedici anni (nel 1893). Mia madre ricordava lo zio pitúr – mentre lavorava nel suo studio – che con la mano già tremante, appoggiata ad un cavalletto speciale costruitogli appositamente dal nipote Antonio (il nonno Brüdafèr), non tremava più e poteva condurre avanti il suo lavoro che ancor oggi si ammira…

Mi raccontava spesso che nel 1901 era stata ospite in casa Nodari-Pesenti dove aveva conosciuto il pittore Vindizio. Questo pittore le aveva chiesto notizie dello “zio pittore”, morto l’anno precedente.

La mamma era buona e insieme anche energica, come quasi tutte le mamme di allora: non le sfuggiva nulla, non era facile imbrogliarla. Ho narrato alcuni episodi della sua vita (le oche a mezzadria, la contrarietà alle veglie in stalla, le scodelle di caffelatte a Toroncino) che aiutano forse a capire che tempra di donna fosse: su di lei ricadeva molta della responsabilità della conduzione della casa.

Ho raccolto in un volumetto alcuni modi di dire che scompaiono: fra di essi non mancano quelli uditi dalla mamma e rivolti proprio a me, ora per canzonarmi un po’ (Té che te hé htàt ai htüde de ’Enéscia) ora per una strigliata coi fiocchi (An cambierà ’èla, ’n chèla cà ché). L’ho sentita poi bollare con l’infame cà de Hàn Pàol quella tal famiglia che, rimasta priva di una guida avveduta e sicura, rapidamente sperperava i beni lentamente e faticosamente messi insieme dalle generazioni precedenti. Per questo ho sempre cercato di essere soprattutto un economo prudente e avveduto.

Mia mamma esigeva che studiassimo seriamente e non amava i saputelli. Una volta un giovanotto maturo, che, per il fatto di trovarsi da qualche tempo emigrato a Milano, si era messo a parlare in lingua con tutti, incontrata mia madre nell’allora tranquillo Caròbe, le si fece incontro salutandola educatamente con queste parole: «Buongiorno signora Maria. E i vostri figli come state?» Mia madre, senza pensarci un attimo, così lo apostrofò: «I miei figli, state bene!»

La mamma affrontava ogni cosa con misura, bonomia ma anche con piglio determinato. In questo le assomiglio: come lei badava a noi, e con che sollecitudine, anch’io ho cercato di porre attenzione alle condizioni materiali, igieniche degli alunni, ho cercato di aiutare chiunque si trovasse in situazioni economiche difficili. Ma da lei ho imparato, credo, la spiccia disinvoltura nell’affrontare le difficoltà organizzative quotidiane. E le assomiglio anche quando talvolta reagisco con accessi di collera, quando mi infiammo, quando sono impetuoso. Ma ripensandoci, mi pare di vedere che quelle mie momentanee sfuriate fossero dovute più alla passionalità con la quale mi son sempre fatto carico delle questioni, perché davvero mi stavano a cuore e volevo che le posizioni fossero chiare, chiarissime, fin dall’inizio. Salvo poi cercare di mediare e giungere ad un accomodamento quando le acque si fossero calmate.

Mio papà, Emilio Ameraldi (nato il 10 dicembre 1876), era un giovane maestro; quando son nato io era appena stato nominato insegnante nella scuola elementare di Esine (le scuole però non erano ancora iniziate, perché i bambini erano necessari per le vendemmie, il pascolo e altri lavori in campagna – le lezioni terminavano però nel mese di luglio). Le scuole erano nella piazzetta del Turudí, nello stesso edificio dove era anche il Municipio (fino al 1911).

Pur con riluttanza, a causa della distanza, nel 1896, giovane maestro elementare, era stato assunto per un anno dal Comune di Vione e destinato a Stadolinae l’anno successivo insegnò, in una 4ª elementare, a Vezza d’Oglio ricevendo come stipendio L. 300 dal Comune e L. 100 dai genitori degli alunni che oltre al denaro fornivano gratuitamente, per tutto l’anno scolastico uova, burro, formaggio, latte e l’alloggio riscaldato al giovane, valente maestro. Fino al 1908 insegnò a Darfo e faceva ritorno a casa, a piedi, il mercoledì e il sabato sera.

Nel 1903, il 31 di marzo ritornando ad Esine passò dalla Sacca da un certo Comèto (Giacomo Gheza), organista a Darfo annunciandogli che era atteso il giorno dopo per suonare al battesimo del figlio del dottor Donzelli (il dottore era però ormai avanti negli anni e non aveva figli). Il giorno dopo Comèto giunse a Darfo, dove al posto della mancia sperata, si rese conto del madornale pesce d’aprile giocato alle sue spalle. La burla, dopo uno scambio di lettere, ebbe una degna ed allegra conclusione in una nota trattoria di Darfo.

Amava il buonumore, non tralasciava occasione per uno scherzo, per una bicchierata con gli amici. Ho conservato due brevi scritti che probabilmente avrà anche letto ai suoi alunni:

 

Pesca miracolosa

La società Moraschini e Bontempelli, da vari anni esercente con risultati continuamente negativi l’industria della pesca, fa noto ai quattro venti d’aver finalmente catturato in uno de’ suoi ordigni pescherecci un pesce chiamato temolo, del peso di hg 5 e grammi 32 e 3/4. Il povero pesce, senza famiglia e senza amici, aveva da tempo manifestata l’idea di finirla con la vita.
Per chi desiderasse osservare da vicino il disgraziato animale si avvisa che l’esposizione resta aperta fino alle 19 di questa sera presso il sig. Moraschini.

 

Acqua del Sebino

Bramate conoscere le qualità portentose di questo ritrovato fine... di Marzo?
Zitti... ed ascoltate: Quest’acqua, scoperta dall’Esimio Prof. Sedégol, dell’Università di Malòn, venne dichiarata nientemeno infallibile contro i tram -busti di stomaco in genere ed in ispecie per quelli causati da eccessive scorpacciate di Carne d’Asino. Guarisce il mal di mare; e perciò venne adottata da molte Società di Navigazione più o meno a Vapore.
Per queste sue qualità e virtù è destinata fra breve a rendere sani e salvi i tre decimi della Società tram -basciata.
Si spedisce franco di porto a mezzo della ferrovia a scartamento ridotto Iseo-Breno. Si vende ad un Marco il fiasco.

 

Aveva carattere gioviale, era un burlone, amante della compagnia e benvoluto da tutti. Ricordo mio padre, salutato e riverito con grandi sorrisi dai “ciccatori” che lo fermavano per strada per chiedergli la cicca della sua pipa e mio padre che li accontentava pazientemente, sapendo di donare un attimo di felicità a questi autentici viziosi del tabacco.

Gli amici più cari di mio papà sono stati i pittori G. B. Nodarie Vindizio Nodari-Pesenti, l’avv. Vitale Bonettini che ci raccontava storie raccapriccianti di streghe, morti e folletti, l’avv. Giuseppe Ceriani, l’avv. Gino Federici, il Segretario Bianchi e dopo di lui il Segretario Pezzucchi, il farmacista dott. Zuelli. Fra tutti, vero vulcano di iniziative era il pittore Nodari che raccoglieva attorno alla banda musicale, diretta dal maestro Simone Salvetti, e alla compagnia filodrammatica tutta la gioventù di Esine senza distinzione di classi o di orientamenti politici.

Il lavoro nella scuola era condotto da mio papà con scrupolo e senso del dovere, con la sollecitudine e attenzione di un padre di famiglia. Aveva anche molto senso pratico. Battista Dellanoce (Maía) era suo alunno di seconda elementare il primo anno che insegnò a Esine (1908), ancora settantenne si ricordava di un episodio, inventato di sana pianta da mio papà, per mostrare come poteva essere facile venire imbrogliati o cadere nei tranelli di scaltriti commercianti.

Ora vi voglio narrare un piccolo episodio, ma che mi è molto caro, e capirete perché.

Toroncino era stato alunno di mio padre per diversi anni e non era certo un violento o un malvagio. Mentre si trovava in classe gli capitava, specie in inverno, di “sentirsi male”. Allora mio padre preparava un biglietto e poi, con un paio di buffetti svegliava dal suo torpore il povero Toroncino e lo invitava a portare a mia madre quella letterina. Il poveretto partiva con entusiasmo, perché sapeva che, appena arrivato da mia madre, avrebbe trovato subito qualche cosa da rosicchiare in attesa che una capace scodella di latte zuccherato, messo in quel momento sul fuoco a riscaldare, gli sarebbe posta davanti con pane a volontà. Tornava poi a scuola “guarito” dal suo male e se ne stava attento e quieto al suo posto riconoscente al buon maestro Emilio.

I nostri vecchi erano soliti citare ’Alintì Viulì (Valentino Violino) per il suo famoso incontro con i lupi e mio padre, anche a scuola, raccontava questa storia vera il cui protagonista era da poco scomparso.

Era così che insegnava mio papà. Esine era solo un piccolo paese, ma ogni nonna conosceva delle bòte, e noi piccoli stavamo incantati ad ascoltarle scartocciando pannocchie, mentre da lontano ci giungeva l’odorino invitante delle móndole, delle caldarroste. Su queste bòte, sugli aneddoti, sugli episodi di vita vissuta, ogni buon maestro fondava l’efficacia dei propri insegnamenti. Era una “scuola attiva”, ben prima che fosse teorizzata da fior di pedagogisti.

Col papà andavo spesso a Prestine a far visita al maestro Tottoli. Mi regalava manciate e manciate di nocciole, me ne riempivo le tasche, contento che il papà avesse amici così generosi.

Ho imparato molto da mio papà. E molto ho imparato riflettendo sui ricordi che di lui ho conservato. Perché, purtroppo, mio papà è morto molto giovane, a soli 44 anni il 1° ottobre 1920, poco prima che io compissi i dodici anni. Non mi ricordo se ho pianto. Forse no, perché non ero in grado di capacitarmi, di rendermi conto fino in fondo che lui non c’era più: era semplicemente impossibile… e non volevo crederci. E questa sensazione mi è rimasta per tutta la vita: ho sempre sentito al mio fianco la sua presenza; a volte, nei momenti più impensati, sentivo la sua voce, scherzava con me; spesso mi tornava alla memoria senza averlo chiamato, rivedevo il suo volto, mi salutava e poi svaniva. Mi sentivo rincuorato: non avevo più paura di nulla. A volte mi sognavo di lui e quando poi mi svegliavo avevo la sensazione, la convinzione, che lì, nel rapporto con lui, una delle radici del mio essere raggiungeva i luoghi più profondi della mia anima e che attorno a questo pensiero andavo costruendo la mia casa. Un po’ come Ulisse, che attorno a un ulivo aveva costruito il suo palazzo.

Mia sorella Margherita, che ha tre anni più di me, la ricordo bambina, e mi piace, riandando a quegli anni, continuare a punzecchiarla affettuosamente e son certo che qualcosa le giunge: un piccolo tic, un leggero prurito, il soffio leggero di una finestra socchiusa, la fugace immagine di me guardando sovrapensiero un ramaiolo appeso in cucina. Ogni volta che mia sorella Margherita partiva per Milano, mia madre – quasi per consolarsi del dispiacere provato al distacco dalla figlia primogenita – andava ripetendo tristemente, con la sua mordente, anche se bonaria ironia: Ciao – ’nn à töt-fò al Vàh: Garitì l’è partída. Sentivo spesso mia madre richiamare mia sorella Margherita con il detto scherzoso Stríca pàter e chìga giàoi. Ma ancora sorrido ricordando che mia madre ci raccontava di aver mandato più volte un buon uomo [Raimondo Zerla, detto Mondo, 18511918], terziario francescano, al convento dell’Annunciata a far benedire, da un frate che viveva in odore di santità, i pannicelli di Margherita, anche allora creatura non delle più mansuete.

Mio nonno paterno, Luigi Ameraldi (1839-1902), aveva partecipato come bersagliere alla battaglia di Custoza nel 1866, riportandone una ferita all’occhio che lo avrebbe portato alla cecità negli ultimi anni. Ho avuto occasione più volte di udir narrare quegli eventi.

Ascoltavo ammirato. E penso che in quei momenti siano nati quei sentimenti di filiale patriottismo, così spontanei, così immediati che ho mantenuto per tutta la vita. Ho lavorato alle dipendenze dello Stato (sotto il Regno e sotto la Repubblica) con onestà e lealtà: mi era semplicemente impossibile fare diversamente. Mi sentivo un suddito libero e devoto: la mia opera era un granellino nella grande macchina statale, facevo la mia parte con naturalezza, con trasporto, con tenacia e fervore. Per me lo Stato e l’Italia erano una cosa sola. Lavorare nella scuola mi faceva sentire buon patriota, pur senza eccessi. Ho sofferto vedendo questo mio atteggiamento frequentemente incompreso. Le mie convinzioni non bastavano a convincere anche gli oppositori, forse perché sentendole io in modo così profondo, davo per scontato che fossero altrettanto ovvie anche per gli altri.

Ero orgoglioso di esser Italiano. Negli anni della fanciullezza era esaltante sentirsi “generazione della Vittoria”: respiravamo a pieni polmoni una promessa di sicuro progresso. Di questa promessa ci sentivamo destinatari, di quel progresso gli entusiasti fautori. Come potevamo noi esimerci, mostrarci vigliacchi, mentre tutto il resto d’Italia cercava con determinazione, con slancio, con grande anelito e grande generosità, di dimostrarsi all’altezza del sacrificio dei seicentomila caduti della guerra? Questo pensiero innervava il nostro agire, dava una direzione all’esuberanza della nostra giovinezza, riempiva di senso il nostro vivere quotidiano. Insensato dunque lo scantonare, per viltà, per pigrizia. Mi sarei sentito isolato, meno partecipe della Storia che si andava facendo con me. E sentendomi dentro la storia avevo modo di capire il mondo accanto a me. Di vedere il mio posto, di darmi un ideale.

Quanti di questi pensieri! molti solo abbozzati. Perché molte volte prima decidevo, partecipavo, mi buttavo, poi facevo un bilancio, poi capivo il perché. Non che non riflettessi o decidessi a capocchia. Ma intuivo chiaramente, prima di spiegarmelo razionalmente, la via del mio intervento. Di fronte al fatidico Che fare? non sempre si ha subito in tasca una risposta soddisfacente; ma allora non mi capitava. Forte dell’abbrivo che l’agire medesimo immetteva al mio essere, proseguivo con quella sicurezza che sola proviene dal sapersi sul giusto percorso. Così passai gli anni della mia gioventù, quest’aria respirai in quegli anni, sentendomi libero, fresco, pieno di vigore e la mia vita salda nel pugno.

Ecco, penso che tutti questi sentimenti mi siano giunti dai familiari del ramo di mio padre. Ma non esclusivamente.

Ho un dolcissimo e tenero ricordo di voi, cari nonni Tóne e Ciarì. Ricordo le vostre buffe discussioni e soprattutto il cerimoniale dell’olio di ricino che divertiva assai noi teneri nipoti. Per ogni piccolo malanno quale miglior toccasana di una abbondante razione di olio di ricino? Vi vedo ancora, caro nonno: vi bendavate gli occhi e dopo vistosi segni di croce e strazianti lamenti vi inginocchiavate in capo al tavolo, vi facevate porre in mano il ripugnante bicchiere e lo bevevate come foste per salire i gradini della forca. La nonna un po’ vi derideva per queste eccessive paure e debolezze; e voi immancabilmente rispondevate: Mé hó neùt de ’nna garabòta de Bièn! perché vostra nonna – cioè la mamma di vostro padre e mio bisnonno Oberto, che era anche la mamma dello zio pittore – proveniva dalla famiglia dei Garabòcc di Bienno: si vede che era gente sensibile ai propri malanni che raccontava al prossimo, così da meritarsi il non certo nobilitante soprannome.

Quante volte ho guardato il vostro ritratto, caro nonno; quello che vi aveva fatto verso il 1890 lo zio Antonio: avevate piglio deciso, sguardo attento e interrogante, una espressione nell’insieme riflessiva e compresa, con baffi austeri che cercavano di nascondere un volto fin troppo mite. Ma io aggiungo: uomo dalla chiara intelligenza e dalla memoria prodigiosa. Anche voi siete stato a scuola da don Paolo Nodari. Mi ricordo, infatti, di un episodio che mi avete raccontato, successo quando eravate ancora scolaro: era una giornata di novembre del 1861, durante la lezione di Don Paulì udiste il suono argentino di una campana. Si seppe in seguito che era la campana della chiesa della S. Trinità su in Castello caduta mentre un noto ladro del paese la stava rubando.

Per un anno o poco più siete stato anche in Francia a lavorare, proprio a Parigi, con vostro cugino Carlo, fratello del maestro G. Battista. Avevate vent’anni. Per una scommessa, il primo gennaio 1872, avete attraversato la Senna a nuoto, con tutto il freddo e tutta la neve caduta quell’anno! Poi, appena sposato, avete lavorato in Sardegna, con l’impresa Bettineschi di Piamborno: dovevate impiantare alcune pese a ponte nella regione mineraria dell’Iglesiente, precisamente a Monteponi e Gonnesa. Per dieci anni, dal 1888 al 1898, avete lavorato anche qui a Darfo, costruendo lo stabilimento Bonara. La mamma mi diceva infatti che aveva abitato a Darfo da ragazza.

Mi piaceva il vostro soprannome, Brüdafèr. Un po’ borioso e forse eccessivo, ma che ben esprimeva la destrezza, l’ingegnosità, la facilità con cui dominavate la materia prima del vostro lavoro. Venivo spesso su da voi, a Picanhöl, la fucina lungo la strada per Berzo. Vi aiutavo volentieri, e, fra una bòta e l’altra, imparavo i piccoli segreti della vostra arte. Vi ricordate quando abbiamo riparato insieme l’orologio del campanile alla Sacca? Imparavo più da voi che dalla scuola che frequentavo a Breno. Credo di aver imparato in quegli anni il significato del lavoro, che dà certezza e concretezza alla vita. Non solo: ora riesco meglio a vedere quanto di intelligenza, di creatività, di perizia venga trasferita nel lavoro quotidiano, e quanto maggiormente questi aspetti ripaghino degnamente e ricolmino di puri significati spirituali la vita di un modesto artigiano, di un semplice contadino.

Era normale, in quegli anni, coltivare anche un appezzamento di terreno. Durante l’inverno vi aiutavo a sgranare le pannocchie del granoturco sulla tridaröla, poi raccoglievo i bòtoi (i tutuli) nella cesta, tenevo aperta la bocca del sacco, e leggevo sul vostro volto la soddisfazione di maneggiare, con amore e fierezza, il frutto del lavoro che significava benessere e sicurezza per tutta la famiglia.

Da voi, nonno, ho udito un’infinità di volte un detto che può essere assunto a “motto” distintivo della famiglia Guadagnini: Cül nüt e pànha de ’elüt, culo nudo e pancia di velluto. La nostra famiglia, infatti, si qualificava chiaramente per il suo comportamento intessuto di buon senso pratico: vestire sobriamente per non offendere la decenza riducendo allo stretto necessario quelle spese che oggi diremmo voluttuarie, per dare, invece, una importanza adeguata alla cucina ed alla cantina, così da contrastare a distanza e per tempo tutte le malattie che trovavano incremento dalla scarsa o scadente alimentazione.

Ho imparato da tutti questi piccoli comportamenti quotidiani un modo di vita, sobrio, vigoroso che si tramanda da generazioni con valore di esempio, come tratto peculiare della nostra cultura, divenendo col tempo patrimonio di esperienza e di saggezza. Non solomio, ma di tutta una gente. È quel che ho cercato di diffondere a mia volta col mio lavoro nella scuola e, per quel che possono valere, con le mie raccolte di aneddoti e di modi di dire.

Ho ammirato il vostro carattere gioviale, burlone, amavate far bisboccia, raccontare la storia di Leutelmonte, andare a caccia con amici. Ma vi ricordo anche come sinceramente e profondamente religioso, sorretto da una fede semplice e salda: con quale fervore ci preparavamo per la festa del patrono, la Conversione di S. Paolo; e non solo perché la pala dell’altar maggiore, raffigurante appunto l’incontro sulla via di Damasco, era stata dipinta dallo zio.

L’episodio di Predore non lo potrò mai dimenticare. Era una domenica mattina della primavera del 1919, avevo dunque dieci, undici anni. Voi, alzatovi di buon mattino, eravate andato a piedi alla stazione ferroviaria, per prendere il treno verso Brescia. Sceso ad Iseo, vi eravate poi diretto, di buon passo, al porto per prendere la barca che faceva servizio per Predore, sulla sponda bergamasca… La produzione del vino di quelle contrade era molto curata: un buon prodotto che godeva di una ben meritata fama e rappresentava un reddito non indifferente.

Appena sceso dalla barca, chiedeste a che ora si celebrassero le S. Messe in paese: l’ultima messa avrebbe avuto inizio poco dopo e sarebbe terminata appena in tempo per prendere l’ultima barca per Iseo.

Senza preoccuparvi d’altro, vi avviaste verso la chiesa per assistere alla lunga messa cantata domenicale e, all’uscita, dopo l’Ite missa est, non vi rimase altro che imbarcarvi per Iseo, rinunciando alla ricerca del vino.

Giunto in serata ad Esine, alle richieste della nonna relative agli affari, questa fu la vostra asciutta risposta: «Sono andato a Predore per andare a Messa; per il vino dovrò andare un’altra volta» facendo intendere che per trattare l’acquisto del vino si doveva rassegnare a perdere la messa di precetto.

Questa curiosa risposta passò immediatamente di bocca in bocca fra gli avventori. Ed allora tutti, specie i siòri, vi chiedevano con una nota d’ironia: «Brüdafèr, cosa siete andato a combinare a Predore?»

Ed voi, bontà vostra, senza scomporvi, facendo volutamente il gioco di chi vi beffava: Hó nàt a Predùr per nà a mèha: per comprà ’l vì, naró ’nn’ótra ’ólta “Sono andato a Predore e ho sentito messa, il vino lo acquisterò la prossima volta”. E tutti a deridervi per la vostra dabbenaggine!

E anche la nonna rincarava: «Non capisci che te lo chiedono per deriderti: taci almeno!».

Ma voi: Hó contét che i grígne de mé: mé hó piö contét de lúr, “Sono contento che ridano di me, io sono più contento di loro”.

Conoscevate benissimo le motivazioni delle vostre azioni ed eravate veramente molto più lieto di chi vi derideva, essendo la vostra coscienza di cristiano completamente trasparente e serena per l’adempimento del precetto domenicale, a costo di un non lieve sacrificio.

Anche voi, nonna Ciarì, avevate la stessa fede, altrettanto serena, altrettanto profonda. Quella fede dei semplici, vero dono di Dio, che non si cura di dimostrazioni, che non conosce dubbi, che consiste nell’affidarsi completamente a Dio, che trae da Dio stesso la forza del vivere.

Una fede fatta soprattutto di opere, tradotta nella pratica quotidiana e al tempo stesso rafforzata dalle mille prove di una vita. Fà del bé e bütel an de l’Ói dicevate sempre, convinta che il bene fatto anche ad un estraneo, che non si sarebbe mai più incontrato nella vita avrebbe avuto un giorno o l’altro abbondante ricompensa.

È vero che quando il nonno vi ha chiesta in moglie, voi gli avete risposto di no perché non credeva a niente, nemmeno ai folletti?Allora era un giovinotto, appena tornato dalla Francia, e certamente credeva più nella propria gioventù – e anche in voi – che nei folletti. Due anni dopo l’avete comunque sposato.

Ho ancora di che ammirarvi: una donna che voleva istruirsi, che voleva imparare a leggere, che usava come sillabario l’ufficio dei defunti, in latino per di più! Ora me ne rendo conto. E se anche hanno potuto gabbarvi per scherzo quella volta che vi han fatto credere di essere una “vernaccia”, poche volte vi siete sbagliata nei conti. Il pittore Vindizio Nodari Pesenti vi aveva ritratto in un quadro, L’ostessa, che era stato ben accolto alla prima Biennale nel 1921. Uno dei critici aveva commentato: «sanità plebea sprizzante dall’immagine dell’ostessa che sta per servire la vernaccia». Non parve vero a mio padre, coadiuvato dal nonno e dai soliti amici di Vindizio, di farvi credere che quella parola «vernaccia» fosse offensiva (vi avevano fatto credere che significasse “donnaccia”)… Al che voi, con la vostra solita bonomia, afflitta però e contrariata per l’inatteso comportamento di Vindizio, andavate dicendo «Dàm de la vernaccia a mé. Al harà lü ’l vernaccio. Al vegnerà a Éden, chèl livrér, e ’l me hintirà de möla»… Anche noi bambini sapevamo dello scherzo e ci divertivamo un mondo, fino a quando il nonno decretò che lo scherzo poteva ormai finire, spiegandovi il vero significato della parola «vernaccia». E così ci fu una gran festa per la riconciliazione di Vindizio con la mé Ciarina come affettuosamente vi chiamava.

Mi piaceva stare con voi, giù alla mescita: c’erano sempre molte persone, in un clima familiare, fra amici; e voi avevate sempre una parola buona per tutti. Spesso vedevo Maria Sbrèta: faceva la spola Esine-Breno, a piedi, e la sera, dopo 8-9 ore di fatica, faceva sosta da noi, suo vero comando tappa, da cui partiva per il recapito delle sue commissioni.

Durante gli anni della guerra, quando qualcuno tornava dal fronte, per una licenza o perché ferito, non mancava di passare a salutarvi. Ho ancora nella mente le parole del capitano Ceriani, nella primavera del 1917: «Vi saluto per l’ultima volta, cara Ciarì. Vogliatemi sempre bene anche quando sarò caduto».

Ero la mascotte degli avventori; alcuni mi chiamavano fiàma “fiamma”, perché ero vispo e svelto proprio come una fiamma; e correvo a nascondermi dietro la vostra lunga veste per sfuggire ai complimenti un po’ troppo rudi di chi mi chiamava Brighèla; a volte rimanevo con qualche “nonno” per una mano a briscola o giocavano con me raccontandomi filastrocche toccandomi gli occhi, gli orecchi, la bocca e poi tirandomi il naso:

Ügì bèl – hò fredèl
urigìna bèla – hò horèla
buchìna de frà – campanèl de hunà.

Oppure tenendomi seduto sulle ginocchia:

 

Tròt, tròt, caalòt
córi, córi al Pùt Barcòt
tróe-t mía de cargà
túrna ’n dré a nà a cà
Tóne bilóne
’n fónt a la hcàla
ciàpa la bàla
ciàpa ’l balù
Tóne pihù.

 

Tutti mi volevano bene, volevano esser serviti da me, e io li servivo tutto sussiegoso e compreso, pronto a sorridere ad ogni scherzo; certe volte facevano finta di imbrogliarmi nel pagare, ma a me non la si faceva tanto facilmente, perché i hinquài i hbàglia mài, “contando con le dita non si sbaglia mai”.

Veniva spesso un giovanotto, Giacomo, che vi chiamava affettuosamente zía Ciarì (per verità eravate cugina col padre) e mi faceva giocare. Mi improvvisava gustosissimi disegni di animali ed una volta mi fece a matita un bellissimo ritratto. Ero proprio io, con la mia berretta rossa con un grosso bottone tondo. Salutandomi a volte mi toccava con un dito la punta del naso e scherzando il mio nome mi diceva «Ciao Smeraldino». Io facevo finta di infuriarmi, mi precipitavo verso di lui come per dargli una testata, e lui prendendomi in braccio mi faceva girare come sulla giostra.

E ricordo, in un triste pomeriggio di domenica, il suo interminabile funerale. Tutta Esine addolorata era presente a salutare questo suo ottimo promettente Figlio, troppo presto portatoci via dalla guerra crudele “mangiatrice di uomini”.

Dopo qualche marachella, mi rifugiavo da voi. Quando arrivava la mamma, con voce minacciosa e scura in volto, sentenziava: «An te caherà ’n de la pèl de vicàre» e voi immancabilmente le facevate eco: «Madóna mé, pròpe ’n de la pèl del vicàre!» Le prime volte avevo davvero paura, ma una volta guardandovi ho visto che ridevate sotto i baffi… Ancora mi ricordo di una filastrocca misteriosa, che mi metteva paura:

La càvra del Bombèl
la gà gne òh gne pèl
la gà ’n córen güh güh güh
la te caherà ’n del hò canerüh.

 

Brr! e per la fifa «il cul facea lappe lappe». Quando non volevo mangiare la sera, col ramaiolo minaccioso annunciavate imminente l’arrivo del Lupo di Balza Lunga, al Lùf de Córna Lónga; allora tendevo l’orecchio per sentirlo arrivare, nel silenzio della strada, nel buio della notte.

Nel profondo dei castagneti dei Tufì, dove non mi ero mai addentrato, doveva avere la sua tana anche il terribile Barbalùf, che prima o poi sarebbe venuto a mangiare i bambini cattivi. Curvo a grufolare nella scodella di minestra, vi guardavo sottecchi, che non proferiste la formula ominosa e tremenda: Omnis et omnia: chi che ’à a durmì hènha héna, la nòt i he ’nhómmia.

Anche a voi lo zio pittore ha fatto un ritratto: da giovane dovete essere stata una donna di gran cuore, sollecita verso i famigliari e attenta all’andamento complessivo della casa, dal carattere improntato a quella bonomia semplice e disarmante che sa far nascere immediatamente un moto di simpatia. In questo vi assomiglio, non lo dico per vantarmi, se mai per riconoscervene il merito.

Non vi ho conosciuto personalmente, ma ho sentito molto parlare di voi, bisnonno Obertì. Che testa matta! Fabbro, armiere, cacciatore, patriota, buon compagnone. Mi siete sempre stato simpatico. Così ci si gode la vita: con un po’ di estro, in allegra brigata, con un grano di sale e ’n ramèl di sana pazzia. Quante volte ho sentito narrare del vostro viaggio avventuroso in Trentino passando per il Tonale!A Picanhöl stavate tutta settimana, rientrando nella casa di Esine solo la domenica per i doveri religiosi. Tutti riconoscevano le vostre qualità di artigiano prodigioso nella fabbricazione di armi, di bilance. Lassù eravate ben sistemato ed in grado di ricevere i molti amici che spesso, di sera, vi visitavano per discutere di politica e di caccia e per consumare succulente cenette, largamente innaffiate dal buon vino dei castelli di Berzo. Il vostro lavoro di armaiolo e artigiano del ferro non era più di una sinecura: gli utensili e le armi erano più che altro occasione per richiamare gli amici.

Memorabile la mascherata per il carnevale del 1846. Se non sbaglio non eravate troppo ben visto dalla famiglia della vostra Maria Caterina: amavate troppo i divertimenti e con le vostre idee “rivoluzionarie”, “garibaldine” avete rischiato di non sposarla.

Ma ancora più memorabili i vostri arresti: ben tre negli anni precedenti il 1859! Un vero sovversivo: passi pure lo sfoggiare ostentatamente un cappello alla calabrese (richiesto appositamente al fratello pittore da Bergamo), passi l’aver esposto una carta geografica raffigurante l’Italia unita e senza gli Austriaci, ma fabbricare clandestinamente armi da fuoco e baionette fu davvero troppo anche per il buon Commissario Denti, vostro padrino.

Tuttavia, di voi, scapestrato e straordinario bisnonno, rimane viva nella memoria dell’intera famiglia una massima programmatica che vi riscatta completamente: Che cünta i è le tórhe che ’à aànti cioè che le carità rappresentano le uniche torce che hanno un valore verso Dio in quanto esse precedono e non seguono la comparsa dell’anima al tribunale divino. E temo di aver ereditato da voi qualcosa più del solo nome. La mamma e la nonna dicevano che quando chiamavo i gatti imitavo prodigiosamente la vostra voce e poi, come voi, avevo certe preferenze a tavola. Sarà…

Nella prima metà del 1800 abbiamo avuto anche un falegname nella nostra famiglia, anch’egli provetto artigiano: aveva una falegnameria all’uscita del paese, in contrada Sonvico, vicino al Pontedèl del Vàh. Nel 1822 aveva partecipato all’incanto per la costruzione della bussola della porta principale e delle porte laterali della chiesa parrocchiale, e la sua offerta risultò la migliore, per cui gli venne affidato l’incarico. Nel 1826 il lavoro era finito.


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