Ameraldi - 3. Primi anni Documento senza titolo

Oberto Ameraldi:
Una vita di fede per la scuola

Brescia : Fondazione Civiltà Bresciana, 2000. - (Cattolici & Società ; 11), p. 55-65.


3. Primi anni

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Quando frequentavo l’asilo, – che si era inaugurato nel 1912 –, non amavo portare il grembiulino, perché pareva la “vestina” di una bambina. E non mi piaceva nemmeno il cibo della refezione. Un giorno sono riuscito ad aprire l’alto chiavistello della pesante porta d’ingresso delle Scuole nuove. Avevo visto molti uomini tenere la giacca in ispalla reggendola col pollice per la bandella del colletto. Feci così anch’io col mio grembiulino; e tutto fiero me ne tornai a casa per il pranzo.

Un’altra volta rimediai una buona dose di sculaccioni, scapaccioni e di tirate di orecchie perché mi ero nascosto non volendo recitare nel saggio di chiusura per le povere Capunére di Cogno.

Da bambino avevo un carattere non dei più remissivi; avevo il necessario mordente per farmi rispettare. Eppure ero un bambino mite, socievole e bonaccione, per nulla musorno; un po’ htrabàngol , matterugio, come quel tale che un giorno in una soffitta vicina non la smetteva più di picchiare col martello lavorando forse a stagnare una bacinella; allora tutto deciso, sembrandomi un’azione strana alquanto, salii e lo apostrofai dicendo: «Tè-e, matóto che pìca-dó», “Ehi, tu, matto che batti sul pavimento!”.

La mamma mi diceva sempre che ero pégher cóme la bidigàna “lento come una lumaca”; ogni volta questa battuta mi colpiva e mi turbava, perché non ero così; altre volte anche i nonni mi paragonavano al famèi dei Purità diventato famoso per la poca solerzia nella cura del bestiame a lui affidato.

Ero un po’ piccolo di statura, rispetto ai miei coetanei, ma ciò non è mai stato motivo sufficiente per sentirmi da meno dei compagni di gioco.

Personalmente ricordo alcuni emozionanti tripa öle sul portale della chiesa di S. Carlo con i miei coetanei e ricordo anche che, piccolo e graciletto com’ero, impacciato nel correre dalle hgalberìne che il nonno mi aveva intagliato, di esserne uscito, a volte malconcio, con le ossa indolenzite, però soddisfatto di aver sostenuto lo scontro e resistito all’urto di compagni fisicamente più dotati.

Avevamo a disposizione l’ampio sagrato della chiesa, che riempivamo del nostro garrulo zirlìo, d’un saettìo senza posa, e tutta la campagna di Esine per i nostri giochi (soprattutto le lìbere – guardie e ladri – e la pòrcola, una specie di golf misto all’hokey), le nostre corse, specie in autunno inoltrato quando si poteva entrare liberamente nei prati. Per la mia generazione fà Hàn Lüca continuerà a ricordare libertà di correre, di divertirsi, giocando senza inibizioni e freni, nella bella e vasta piana dei Rùc, nei giorni e nelle ore liberi da impegni religiosi o scolastici.

Ogni campo, ogni prato, ogni strada aveva un nome, conoscevamo il nome del proprietario: una geografia dettagliata e familiare; a volte un nome richiamava un fatto accaduto, un personaggio, un detto.

Conoscevamo ogni primizia: ciliegie, ciliegie duràcine bianche (càlem biànc), vìsciole (maréne), mele giugnoline (pumì de Hàn Piéro), uva bianca luglienga (algiàna), susine (anémoi), prugne damaschine (brògne mihchìne), more di rovo e di gelso (mùre), pesche settembrine (de la Madóna dei pèrhec), fichi brogiotti e fichifiori (fiùre), mele golden o limoncelle (póm limù), pere burrone (pér botér), noci da spigolare, chiodini, lumache… – primizie tanto più gustose, quanto più difese da muraglioni o da minacciosi padroni che rincorrevano i monelli con la falce in mano e improperi saporiti.

Sul ciglio dei Laghetti crescevano rigogliosi luppolo (ligahére) e vitalba (ligabóhc); i ragazzi più grandi che noi seguivamo come gregari di una nostrana pattuglia da “guerra dei bottoni” sembravano capitare per caso da quelle parti: a colpo d’occhio riconoscevano le ligahére, ne tagliavano pezzetti lunghi quanto una sigaretta e si mettevano a fumare. A me lacrimavano gli occhi, la prima volta mi bruciai le ciglia.

Teatro dei nostri giochi erano anche il greto del torrente Grigna ricoperto di pioppi, robinie, salici selvatici e purpurei (le Bósche), i Laghetti, il Castello, il Bardisone, le varie contrade, il sagrato. Durante i lunghi pomeriggi estivi ci spingevamo fino alle rive dell’Oglio: i canneti e il placido corso d’acqua erano un paesaggio sufficientemente esotico per le nostre scorribande. Al ritorno, rossi in volto, accaldati e affamati, ancora ci raccontavamo gli episodi più esaltanti delle nostre avventure salgariane. Minimamente pensando che le mamme potessero preoccuparsi per la nostra assenza.

Una volta ho inseguito il mio coscritto ed amico Rumulì (Giacomo Rivadossi, 1908-1970) per un’ora e mezza, arrivando fino ai Librinì, poi, attraversato il Grigna, nelle Faéde e, finalmente, nei Gioldi dove, vicino al Laghetù, si buttò per terra arrendendosi (ed io su di lui, ansimante per la corsa). Un inverno, saltando dall’argine del torrente (allora era un salto di 4- 5 metri ) scivolai coi piedi sul ghiaccio e caddi in una pozza piena d’acqua ricoperta da uno spesso strato di ghiaccio, uscendo a mala pena ed arrivando a casa coi vestiti completamente irrigiditi dal gelo. Il momento peggiore non è stata la caduta in acqua, quanto il rientro in famiglia, sconfitto e conciato in quel modo pietoso.

Le vacanze di Pasqua erano un avvenimento: non che capissimo molto del significato religioso delle celebrazioni, ma ci piaceva che fossero così fuori dell’ordinario e solenni: il Giovedì Santo si allestiva il “Sepolcro” in un altare laterale, il Venerdì Santo bisognava andare a prendere il sacro crisma dal vicàre de Hiidà, percorrendo a piedi la strada della Cültüra, la funzione serale era chiamata mèha hèca “messa secca”, perché le campane erano legate e non suonavano. E poi le lunghe colonne dopo i maitì, “i mattutini” e cioè le processioni dei ragazzi provvisti di complicati strumenti studiati e costruiti per fare baccano durante le cerimonie della Settimana Santa, in chiesa, allo spegnersi del settimo cero.

Questi suoni in chiesa non duravano in modo tale da soddisfare il naturale bisogno di far rumore da parte dei giovanissimi dei tempi andati. Ecco allora, con molto senso pratico, che i ragazzi venivano istradati verso il Castello ove, in piena libertà e senza alcun controllo, potevano dar ampio ed adeguato sfogo al naturale bisogno di misurarsi in infernali strombazzamenti. Gróle, tàcole, pacòcc, petolére, tamburelli e qualche corno e tóle di latta percosse da stecche di legno rappresentavano gli strumenti più consueti; personalmente possedevo un pacòt – opera di Gioanì Rivadossi – che faceva invidia a molti e che, a fine settimana santa, per consiglio di mio nonno, riponevo in una grande cassapanca sul solaio dopo accurata abbondante salatura.

Nonostante questo nostro zelo, non eravamo sicuramente farìna de fà òsce “farina da far ostie”. Come dimostra il seguente episodio.

Si era nell’inverno del primo o secondo anno della guerra, di domenica pomeriggio, dopo le ore quindici circa. Noi bambini eravamo appena usciti tumultuanti dal catechismo che era svolto alternativamente dal curato don Giovanni Bondioni (di Santa Maria) e da don Giuseppe Alberti (al Cüradì) nella cedulìna – la chiesetta di S. Carlo –. Da quel momento fino a notte fatta era uno sciamare ininterrotto dei ragazzi che giocavano sul sagrato e nelle vie viciniori: le lìbere, la bandiera, ladri e carabinieri, a palla a mano, a sàlta molèta , a trìpa öle , alla guerra, ecc. Ad un certo momento dalla contrada del Turudì accorsero due ragazzi gridando: «Al gh’è Turù che ’l va a negà!» Mai richiamo ebbe effetti più istantanei. Un attimo dopo un codazzo rumoroso e sghignazzante di ragazzi era alle calcagna del povero Turù che, evidentemente ubriaco, si lamentava delle incomprensioni del prossimo e andava ripetendo il proposito di farla finita una volta per tutte… Noi ragazzi (c’ero proprio anch’io tra quegli scalmanati) eravamo eccitati e già pregustavamo l’emozione di vedere il poveraccio gettarsi in uno dei laghetti…

Un secondo episodio mi vide complice del papà in una burla allo zio Purí. Mi ricordo inoltre di una lavandaia della famiglia Finini Rehpèt che frequentava la casa del pittore Nodari; si offendeva a chiamarla col soprannome di famiglia, e perciò a maggior ragione si infieriva (ed il primo di quei bischeri dispettosi ero proprio io), inventando a bella posta discorsi in cui inserire la parola rehpèt “vergogna” per poi godere dello spettacolo della povera donna con la fúta a híma, “traboccante di stizza”.

Ma nella sostanza eravamo ingenui e spensierati, senza un briciolo di malizia, furbastri che facilmente venivan messi nel sacco. A me è capitato non una volta sola di tirà ’l mànteh, di azionare il mantice dell’organo in chiesa, tutto inorgoglito del privilegio: Angilí Campàna mi aveva concesso di salire nello stambugio dietro le canne; finché il nonno mi fece capire che quell’onore era summa summarum una buggeratura.

Sono passati tanti anni e mi domando, a volte, senza aver trovato ancora una sicura risposta: noi, ragazzi di quei tempi lontani, che ci divertivamo ad annegare i grossi topi rinchiusi in trappola; che davamo fuoco alle code dei gatti opportunamente bagnate di petrolio; che schiacciavamo le uova dei nidi degli uccelli quando sapevamo che questi nidi erano stati scoperti da altri compagni; che praticavamo, con entusiasmo, la caccia agli uccelli con gli archetti; che non conoscevamo la compassione e la carità verso gli sciancati, i deboli, i vecchi, nel nostro insieme, eravamo migliori o peggiori dei ragazzi d’oggi?

Ho vissuto intensamente gli anni della mia fanciullezza, ogni cosa mi sembrava importante, il tempo mi sembrava passasse più lentamente, così da darmi il modo di concludere e comprendere ogni azione. Che profondi respiri quando lungo l’argine del Grigna, accaldato per la corsa, per un attimo mi fermavo e perlustravo la vasta campagna in cerca dei “ladri”, penetrando lo spazio con uno sguardo che ne prendeva al contempo possesso. Nel petto una esaltazione unica, da “grandi”.

Quella fu la mia età eroica.

E quante volte poi nel corso degli anni mi è parso di vivere con la stessa vivezza, con lo stesso tremore, determinazione e azzardo alcuni momenti, come se in qualche modo già li avessi vissuti. Ciò mi dava la sensazione di poter scommetere fin dall’inizio sull’ esito positivo.

Come ho già detto, ero spesso alla fucina di Picanhöl, in quel di Berzo. Lì ho passato i più bei giorni della mia fanciullezza imparando dal nonno a lavorare il ferro. Il 20 di settembre quando scendevo dalla Cadinèta dove avevo trascorso l’estate, correvo da lui a salutarlo; e poi come un gatto mi arrampicavo sul fico che cresceva ai piedi della Bià Hpinéra : la dolcezza di quei fichi neri mi inebriava, vistosi “baffi” violacei erano la soddisfazione del nonno che mi guardava compiaciuto, ma preannunciava anche le botte della mamma: « Te rüeré de la màre ». La nonna accorreva a pulirmi i mostacci di quei neri brogiotti e mi coccolava con parole d’affetto altrettanto dolcissime.

Mi ingegnavo a lavorare persino al maglio, fabbricavo a 12 anni bilance vere e proprie, riparavo i pesi di ottone e tutto in me dava a sperare un ottimo artigiano. I vecchi fabbri, Bortolo Scolari, lo zio Luigi Domenighini dicevano che sarei stato degno del nome che portavo, cioè sarei diventato un fabbro d’eccezione come il bisnonno ObertoErano davvero piene le mie giornate: la scuola, l’osteria della nonna, la fucina, i giochi, i mille badalucchi che rendono varia ed intensa la vita di un bimbo. Alcune commissioni occasionali (ricordo di essere andato più volte alla privativa per acquistare tre centesimi di tabacco da fiuto per una vecchietta che passava le giornate invernali nella stalla dei Taboni, vicino a casa mia). Certe volte andavo dal pittore Giambattista Nodari. Gli prestavo la mia opera come piccolo, nel suo studio: ora macinavo i colori con la pietra pomice, ora, imbacuccato in stole e roboni ecclesiastici, posavo come personaggio del mondo religioso e biblico. Al fine non m’annoiassi nello star fermo e, a volte, in pose scomode e faticose, il buon Battistino mi raccontava, drammatizzandole, vite di pittori celebri, le buffe avventure durante il servizio militare nel 2° Reggimento Bersaglieri a Roma, oppure della sua vita di pittore a Roma ed a Firenze.

Tutti noi abbiamo in un angolino del nostro cuore e della nostra memoria qualcosa di sorridente o di pauroso – sempre interessante – che si richiama al Castello ed alla Trinità. E se non altro il ricordo vivo delle vere e proprie avventure di “guerra” vissute intorno alla chiesa, dove le due squadre del Castello e del Vaso – con i loro generali – si scontravano in accaniti combattimenti all’arma bianca (baionette e pugnali in legno) con vincitori e vinti e trattati di pace, combinati sul campo di battaglia, rispettati dalle parti interessate…

Vedo bene ora che questi ricordi somigliano sorprendentemente a quelli della guerra vera. Che a differenza del gioco lascia paure reali e domande senza risposta.

Avevo allora circa otto anni. Durante uno dei combattimenti aerei nel cielo di Esine ero dalla vecchia zia Maria, giocavo coi suoi nipoti e altri ragazzi; la povera donna non sapeva più che cosa fare per metterci al sicuro dal «diavolo che volava».

Ho conosciuto in quegli anni degli eroi, degli Italiani autentici, grandi uomini che mi hanno commosso, che mi hanno plasmato. Come l’avvocato Rino Bianchi, che nel 1916 aveva solo ventiquattro anni. In partenza per il fronte, dopo una licenza, mi diede una carezza e mi disse: «Ciao, Oberto, ricordami sempre, anche quando, presto, non ci sarò più». Poche settimane dopo cadeva combattendo valorosamente alla presa del Col di Lana.

Molti anni sono passati dal fatidico 4 novembre 1918 e non sono valsi a cancellare immagini e ricordi che gli avvenimenti di allora avevano stampato nella mia mente di bambino.

Ricordo molto bene le tristi vicende del palazzo Bonettini… messo a soqquadro dagli attendenti degli ufficiali accasermati lì dentro o dai furieri dei vari comandi che vi si susseguirono fino a molti mesi dopo l’armistizio. Ricordo l’agitazione e la prostrazione dell’arciprete Don Magoni e della popolazione quando le autorità militari vennero a ritirare i quadri di maggior valore della nostra chiesa parrocchiale.

Noi bambini delle elementari avevamo le nostre gioie e cioè lunghi periodi di vacanza dovuti alla occupazione, quasi permanente, dell’edificio scolastico nuovo di via Manzoni da parte di truppe dislocate ad Esine per turni di riposo e, infine, permanentemente, da un ospedaletto da campo.

Durante l’estate del 1917 accadde nel cortile di casa un fatto straordinario. Un giovane alpino, Piéro de Ninèta, partendo per la guerra aveva dovuto abbandonare il suo corvo parlante; per alcuni giorni il corvo aveva continuato a chiamare il padroncino e poi sconsolato si era rassegnato. Ma quel giorno d’estate continuò per ore a chiamarlo, con la sua caratteristica erre francese: Piéro, Piéro... Giunse poi al sindaco un telegramma in cui si diceva che l’alpino Pietro Castelnovi era stato ferito gravemente alla testa durante una battaglia.

Nel gennaio 1918 si organizzò anche una raccolta di uova per l’Ospedale Militare di Brescia. La presenza continua di truppe a riposo rappresentava, per noi bambini, una fonte di distrazione e di divertimento. Ho ancora davanti agli occhi la scena del passaggio di una cinquantina di prigionieri austriaci, inviati nell’estate 1918, qui in Val Grigna per lavori stradali.

Infine il ricordo più drammatico e pauroso di quei giorni: la calata dei prigionieri. Colonne interminabili che sfilavano per ore, portando fasci di legna, pali strappati dai vigneti per accendere fuochi di bivacco nei campi di concentramento dove avrebbero passato la notte. Erano Austriaci, Tedeschi, Bulgari, Turchi, Bosniaci, Croati, Cecoslovacchi, ecc. in pittoresca confusione. Alcuni sventolavano le bandiere dei propri paesi, per la prima volta indipendenti e liberi. Omoni alti e paurosi, con ottimi stivali e pesanti scarponi, ma dai visi scavati dalla fame. Sistemato sul cancello della fucina di mio nonno, al Picanzolo di Berzo, davo ad ogni alpino che passava, una pera matura. In una settimana distribuii tutto il raccolto di alcuni quintali.

Non so se fu per questo motivo, ma lo zio maestro di Cogno mi regalò per la Santa Lucia una copia del suo libro di agronomia che ancora conservo. Era troppo fiducioso sulle mie capacità di lettura: mi feci aiutare dal papà per leggere la dedica:

Cogno il giorno di S.ta Lucia 1918

Caro Oberto,

Ora che sai leggere e incominci a comprendere quello che è la vita ti offro questo mio libro; studiane le verità pratiche, meditane le massime sociali e morali e che esse ti sieno guida per tutta la vita; ti assicuro che vivrai felice per quanto lo si può essere in questa misera terra. Spero benedirai la memoria del tuo

         Zio e Padrino
Guadagnini G. Battista

Non ci capii niente, ma a più riprese, ogni volta che il libro mi ricapitava fra le mani, rileggevo quelle righe e ne capivo il vero significato e la grande affezione filiale dello zio. Penso che molto dello spirito pratico e certa intransigenza su questioni di principio che mi riconosco provengano dall’aver meditato quelle righe, scritte apposta per me.

Col rientro dei nostri prigionieri insoddisfatti perché non trovavano lavoro né comprensione da parte dei molti imboscati arricchiti, si inizia il periodo del dopoguerra che ricordo, con sempre maggiori particolari, per la sua crescente turbolenza e confusione.

I cannoni sull’Adamello e al Corno di Cavento misero in fuga i camosci, fecero dileguare per sempre le streghe del Tonale, segnarono la fine di un’epoca, disperdendo nel nulla tutti quei fantasmi e quelle paure che avevano popolato le tenebre di quei tempi passati, che avevano dato un aspetto alle sofferenze, ai timori degli ignoranti e degli oppressi.


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