Ameraldi - 4. Giovane studente Documento senza titolo

Oberto Ameraldi:
Una vita di fede per la scuola

Brescia : Fondazione Civiltà Bresciana, 2000. - (Cattolici & Società ; 11), p. 67-82.


4. Giovane studente

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La fine della guerra segnò definitivamente anche la fine della mia infanzia, quasi fosse stata una prova generale, premonitrice di maggiori sofferenze e nuove difficoltà.

Il 1° ottobre 1920, di venerdì, improvvisamente, mi morì il papà, non aveva ancora compiuto 44 anni, fu sepolto la domenica seguente 3 ottobre 1920, giorno in cui ebbero luogo le elezioni politiche. Durante i funerali, io e le sorelle fummo con nonno Tone, all’officina Picanzolo.

Senza il papà la vita cambiò completamente. D’un tratto dovemmo prendere decisioni non facili. Si faceva fatica a tirare avanti. La mamma era molto preoccupata… e la pensione del papà non arrivava. Non sarebbe mai arrivata, perché non aveva maturato un’anzianità sufficiente, ottenne una liquidazione “una tantum” di lire 913. Era in apprensione soprattutto per noi, per il nostro futuro. Margherita era in collegio a Brescia, Emilia era ancora alle elementari. Io… ancora così indeciso se proseguire con la scuola o continuare davvero il mestiere del nonno. Imparavo in fretta, promettevo bene. Riuscivo altrettanto bene anche a scuola, ma due figli in collegio erano troppi per la nostra famiglia. Passai dei mesi di grande incertezza, finché provvidenza volle che il sindaco di Breno, il socialista Ghislandi, coi lasciti del caduto Ing. Taglierini, istituisse una Scuola Tecnica. Passai di successo in successo; nei tre anni di mia frequenza mi resi celebre per la mia “scienza” e per la mia piccola statura. Il primo anno (1921-22) andai a Breno a piedi e la scuola incominciava alle otto. Ero a Breno sempre in anticipo: la professoressa di francese ed il professore di matematica non riuscivano a capire come potessi fare. E furono anni belli, quelli: quante partite a “bandiera” nei cortili e beghe coi bidelli che ci cacciavano per le strade come cani randagi.

Ebbi i miei primi amici: Stefanidi Losine, i Franzoni, Dabbeni ecc. Partivo di buon’ora con Rico Kramer e con Rivadossi, che andavano a Breno ad imparare a costruire cesti coi giunchi. Avevamo una lampada, una lanterna con un pezzo di candela. Ci serviva sin quasi a Bienno.

La mamma, qualche volta, mi accompagnava, avvolta nel suo scialle nero, dopo esser già stata a messa. Una mattina nevicava forte e tirava un vento fortissimo; siccome durante la notte la neve era caduta in abbondanza, non si poteva camminare. Poco oltre la mia fucina la mamma, che mi accompagnava riuscì a convincermi a tornare a casa e così perdetti scuola quel giorno.

Arrivavo a casa, ed era già buio, mi mettevo al fuoco sempre scoppiettante in cucina, bevevo il latte caldo, a volte con la grappa dentro, e poi facevo i compiti, se ne avevo. Dopo cena a dormire nel letto ben caldo: spesso trovavo una mela cotta sullo scaldaletto, oppure sgranocchiavo formaggio di monte, per addormentarmi.

In quegli anni, dal 1921 al 1924, era stato nominato alla condotta medica di Esine-Berzo il dottor Giuseppe Pennacchio di Lovere, un sant’uomo. Una volta mi vide alle prese con un dizionario francese in due tomi, che era già servito al pittore Antonio Guadagnini nei suoi studi a Lovere e a Bergamo. Il dizionario poteva avere forse maggior pregio come pezzo d’antiquariato che come ausilio didattico. Ebbene, una domenica mattina arrivò con un pacchetto in mano, un dono prezioso per me: il Ghiotti, il più rinomato dizionario italiano-francese.

La mamma mi ha sempre fatto recitare, mentre mi rimboccava le coperte del letto: un O Gesù d’amore acceso, non vi avessi mai offeso, ecc., un Angele Dei; un Requiem aeternam , un Paternoster; un’Ave Maria con Santa Maria seguente; un Gloria; e basta. In certe occasioni tre Ave con un’invocazione Rimiratemi o Regina, ecc. e tre Gloria a S. Gaetano della Divina Provvidenza. Queste le mie preghiere; e spesso mi addormentavo prima di averle recitate tutte. Però sono sempre stato riflessivo e raccolto nel pregare.

A parte le mie fortune scolastiche, il destino si abbatté crudelmente sulla nostra famiglia durante quei tre anni. E alla fine non risparmiò neppure me.

Nel 1922, l’11 febbraio, a poco più di un anno dal papà, morì il nonno Antonio. Aveva 72 anni. Mancandomi anche il nonno mi sentivo davvero solo. Ero ancora un ragazzo e non potevo sostituirlo alla fucina. Per fortuna c’era lo zio Siro, fratello del papà, mi è stato molto vicino. Gli vorrò sempre molto bene.

E il 4 maggio 1924, a 73 anni di età, morì anche la nonna; era una domenica mattina, verso le undici.

Eravamo rimasti proprio soli: la mamma, Margherita, Emilia e io. Le disgrazie, purtroppo, non capitavano solo a noi, il disastro del Gleno (1° dicembre 1923) verrà ricordato a lungo.

In giugno, a Brescia, sostenni gli esami di ammissione alla quarta. Con molto disappunto di tutti, e soprattutto mio, fui rimandato a settembre in italiano scritto. In italiano orale avevo avuto otto, e otto pure in disegno. Ma il professor Giacometti mi bocciò anche a ottobre. Sentendomi molto sicuro delle mie capacità, ed i risultati nelle altre materie del resto lo confermavano, non capivo perché quel professore ce l’avesse con me. Ci doveva essere qualche motivo, ma non sono mai riuscito a saperlo.

Non volevo perder l’anno. Il mio futuro divenne all’improvviso molto incerto. Abbandonare la scuola e buttar via anche quel poco di fatto? Andare in collegio per recuperare l’anno era d’altro canto un sacrificio molto gravoso: non sapevo davvero che fare. Molti consigliavano la mamma a farmi smettere, ma lei volle farmi studiare: fu costretta ad usare i risparmi depositati in Cassa Rurale.

E così, il 17 novembre 1924 giunsi a Torino nel Collegio Internazionale “Ugo Foscolo” in via Mighetti 13. Mi aveva accompagnato il segretario comunale Pezzucchi. Io povero montanaro, mi spaurii nel ritrovarmi, solo, in una grande città per la prima volta, in mezzo ad una settantina di collegiali delle varie parti d’Italia e del mondo. Il secondo giorno, in camera, scoppiai in lagrime; fu l’unica volta che piansi fuori del mio paeseMi abituai in pochi giorni alla vita di collegio: non era poi così rigida come me l’aspettavo. Dopo cena e dopo il desinare, facevamo una passeggiatina di mezz’ora. Quando non rispettavamo la disciplina ci davano la consegna, che consisteva nel non fare la passeggiata dopo pranzo. La domenica andavamo al cinema, perché avevamo libero il pomeriggio dalle due alle sette. Il vitto era abbastanza buono ed abbondante; buono quasi come a casa (migliore che al convitto di Breno). Nelle lettere che scrivevo alla mamma le raccomandavo di non fare piatolate nello scrivermi riguardo al mangiare, se non voleva avere le risposte che davo alla Hüpa In collegio c’erano studenti Siciliani, Sardi, Calabresi, Romani, Marchigiani, Veneziani, Fiumani, Mantovani, cinque Bresciani, un Americano e molti Piemontesi.

Riguardo agli studi, ero contento, perché avevo dei bravi professori. Il professore di francese era il migliore insegnante che ci fosse in Torino, aveva scritto anche dei libri; per combinazione il libro di francese era lo stesso che avevo a Breno (Parlez vous français III volume) e nella prima lettera scrissi alla mamma di mandarmelo, aveva una copertina verde. Il professore di italiano era bravo e buono, e mi ha voluto subito bene, così come il professore di matematica. L’insegnante di storia era un vecchio professore che spiegava chiaramente per tutta la lezione, e non assegnava solamente la lezioncina come si usava di solito. La professoressa di disegno era discretamente brava, però era una donna (allora non avevo molta fiducia nelle insegnanti donne, pensavo che per noi maschi contasse soprattutto l’esempio). Avevamo anche due ore di canto.

In generale mi sono trovato bene. I miei compagni erano quasi tutti meno preparati di me. Fin dai primi giorni ebbi la sensazione che mi sarei potuto preparare completamente e perfettamente per l’esame, perché i professori insegnavano ed io studiavo e capivo.

La città mi pareva bellissima; l’ho visitata tutta da cima a fondo. Tra Torino e Brescia passava la stessa differenza che tra Brescia ed Esine. Le vie erano larghissime: via Roma, via Garibaldi e via Cernaia erano molto più belle del Corso Zanardelli di Brescia, non parliamo poi dei viali. Le più meschine vie di Torino, erano fiancheggiate da alberi ed erano più belle dei corsi di Brescia. Il giorno della festa delle matèle ho sentito la messa accompagnata dall’orchestra.

Pur in una città così lontana incontrai ben tre compaesani: Arturo de Gatì , Riccardo de Mènega e Gambetta di Plemo. Gambetta aveva qualche anno più di me ed era lì a Torino come attendente di un ufficiale (sua sorella Genia studiava a Brescia con mia sorella Margherita); uscivamo spesso insieme. Mi erano care le visite di Gambetta, perché la domenica potevo uscire con lui dalle due e mezza alle sei e mezzo e così visitavamo i palazzi, le chiese, le vie, senza andare a chiudermi in un cinema con i miei compagni, e perché potevo acquistare ciò che in collegio costava doppio. Abbiamo visitato il palazzo Madama, il Palazzo Reale e la Cappella Reale e l’Armeria.

Per le vacanze di Natale non tornai a casa, perché il viaggio mi sembrava lungo, rimasi in collegio con altri ragazzi che venivano da lontano e non soffrii la malinconia; andammo a vedere Superga, la tomba dei duchi e dei re di Savoia. C’era un napoletano che ci faceva divertire meglio di Parpài e cantava le romanze nel suo dialetto: mi sarebbe piaciuto far ascoltare a mia sorella Margherita come cantava Parte lu bastimente per terre assai lontane.

Ero curioso di vedere la pagella: non avevo timori, ed ero anche sicuro che sarebbe comunque migliorata.

Una delle cose più nuove per me, lontano da casa, fu il dover amministrare i soldi: alcuni della mamma, altri del segretario Pezzucchi. In collegio si poteva far mettere in conto, ma non mi piaceva, perché sapevo che era facile farsi prendere la mano e poi avevo sentito che in collegio strozzavano; perciò preferivo pagare con i soldi che avevo con me. E poi spesso trovavo occasioni davvero convenienti: comperai un vocabolario di latino pagandolo 10 lire da un mio compagno; nuovo sarebbe costato 36. Trovai un atlante e due o tre libri usati per meno della metà prezzo; e li ho pagati con i miei soldi senza farli mettere in conto (avevo forse 50 lire di debito per i libri, e non volevo aggiungervi altro, se non lo stretto indispensabile). Durante le vacanze dovevo fare anche altre spese, farmi un vestito, farmi un bagno e tagliare i capelli: in collegio mi pareva molto caro: 15 lire il bagno e 5 lire i capelli.

Trascorsi quell’anno quasi senza accorgermene. Sostenni da privatista gli esami di ammissione al primo Corso Magistrale Superiore presso il R. Istituto Magistrale “Domenico Berti” e andarono benissimo: nove in italiano (altro che bocciato a settembre!) e nove in geografia; otto in musica e canto, sette in latino, francese, matematica, sei in disegno e persino buono in educazione fisica; in certe materie feci meravigliare i professori per le pronte e giuste risposte.

Il tema assegnatoci all’esame voleva la descrizione di una figura caratteristica di fanciullo incontrato in una lettura o nella viva realtà. Dissi di aver conosciuto un profugo al mio paese e gli prestai tutti i miei sentimenti patriottici, maturati durante la Grande Guerra , che frequentemente vissi coi soldati che giungevano a Esine per un periodo di riposo. Dissi perfino, e fu il colmo, che quel fanciullo sembrava possedere una coscienza filosofica tanto era forte e stoico. Fu il mio primo successo letterario e forse resterà l’unico, il solo. I professori mi vollero conoscere e non mi tartassarono nelle altre materie.

Ero fiero del risultato ottenuto, anche perché serviva a tacitare quanti avevano deriso o scoraggiato la decisione di andare a Torino. Ed ero contento anche per la mamma. Anche lei aveva la sua parte di vittoria. Aveva dato fiducia alle mie promesse, si era meritata la mia promozione. E avevo fatto di tutto per non deluderla.

Il risultato sembrava ristabilire la giustizia: l’anno precedente bocciato a ottobre e a Torino promosso a giugno a pieni voti: davvero un prodigio. Il 30 giugno, nell’attesa che esponessero i risultati andai a piedi fino a Superga (circa 30 km . andata e ritorno). Verso sera preparai il baule coi libri e i vestiti e lo spedii, scrivendo alla mamma che pagasse lei all’arrivo; non mi era mancato nulla del corredo che avevo portato con me. Avevo una gran voglia di tornare a casa, di rivedere la mamma, le sorelle e tutti. Volevo poi anche ringraziare il maestro Moreschettiche aveva fatto tanto per me. E non stavo in me dal desiderio di essere a casa per raccogliere le “gallette”, cioè i bozzoli dei bachi da setaA Torino poco dopo il mio arrivo mi ero iscritto all’Avanguardia.

Era quasi obbligatorio. Col tempo cominciai a sentirmi all’avanguardia. Non capivo gran che delle parole roboanti, eccessive che venivano gridate durante i raduni: a me piaceva quel clima di festa, quella ufficialità. Mi piaceva sentire parlare di Patria, della nostra Italia così antica e così bella (e proprio nella città del Re, dei Savoia, del nostro glorioso Piemonte), di soldati, di Vittoria, di ideali, di destini, di futuro, di giovinezza: una promessa per noi, che l’avremmo vista realizzata.

Un giovane chierico di Esine, Paolo Nodari (1866-1897) in una poesia così aveva espresso i propri sentimenti di patria all’indomani dell’Unità:

O dolce patria! o amabile
Mio suol nativo! Oh come
Al tuo gentil bel nome
Mi balza in petto il cor!
A nobil’atti stimolo
È il forte mio desio,
Che te beata Iddio
Renda in virtude e onor.
L’ardente amor mio patrio
Non è furor di guerra,
Ha nome d’equità,
Di civil sangue e lagrime,
Ma è santa e ben felice
la voce che mel dice,
voce di carità.

 

Già mi figuravo come sarebbe stato bello vivere nella nuova Italia, nella grande Italia. Mi sentivo commuovere: dentro di me un fremito di forza, di arditezza mai provato, come fossi già grande, perché grande era l’uomo che guidava allora l’Italia, era un’emozione che mi imbaldanziva, mi inorgogliva; ero pieno di giovanile fervore, di voglia di agire e contento di tutto. Mi piaceva la “granitica” sicurezza dei nostri comandanti, la loro fiducia nel futuro e come sapevano comunicarcela, entusiasmandoci. Un giorno sarei diventato come loro. E mi stavo preparando con fiera baldanza.

Sulla copertina di un quaderno, si leggevano tre quartine semplici e significative:

Amiamo il Duce:
siccome un padre
Egli organizza
le nostre squadre

Siamo pionieri
in Lui fidenti,
montiam la guardia
pronti agli eventi,

montiam la guardia
col fuoco in petto,
sempre associando
libro e moschetto.

accanto, il disegno di un balilla in posizione di riposo che impugna un moschetto ’91 con baionetta inastata e sembra stia meditando l’ingenua poesiola.

Alcune cose però non mi piacevano. Ad esempio, che aveva fatto di tanto male Gaudenzio Ragazzi per devastargli la barberia in Caròbe ?E gli amministratori del Comune?Anche Bortolo Savoldelli (Palér) aveva avuto dei fastidi perché non aveva votato fascista alle elezioni del 1924.

Tornato a casa, alcuni mesi dopo ebbi l’occasione di mettere alla prova il mio “avanguardismo” con zelo da vero neofita.

Il dottor Emilio Bonettini era restio alle manifestazioni ufficiali, alle parate. Immancabilmente, alle nove e mezza, la cameriera veniva mandata dalla signora Lina a dirmi se ero disposto a farle il solito favore. In perfetta divisa mi recavo allora in ambulatorio e dicevo al dottore: «Mettiti l’orbace ed andiamo alla cerimonia». Non posso riferire qui quanto mi scaricava addosso con sarcasmo velenoso e pittoresco eloquio, appena udito il mio invito. Non mancava mai la seguente battuta: «Sei pagato anche tu da mia moglie? Se non vai fuori dai piedi sarà la prima volta che, con un calcio, rompo il c… ad un uomo, per di più amico». Ma io non mollavo. Prendevo l’orbace e glielo infilavo e poi gli mettevo anche il cinturone e non si interrompeva la tempesta degli improperi equamente ripartiti nei miei riguardi, nei ri

guardi della signora Lina e dei gerarchi locali. E così, dopo questo violento sfogo, rimessosi quasi tranquillo, ci avviavamo verso il raduno giù alle scuole, mentre, strada facendo, gli raddrizzavo il fez che solitamente calzava a rovescio. Andavamo verso il segretario politico di turno e, imitando il mio saluto romano a braccio teso, anche il dottore abbozzava, con un braccio che sembrava gravemente anchilosato, un timido saluto romano, già sufficiente per mettere in mostra i sentimenti del “camerata per forza”. Dopo le prime volte, vedi caso, il dottore veniva chiamato per un’urgenza e lamentandosi per la gravosità della sua professione si allontanava. Ma scoperto lo stratagemma, aveva anche il coraggio di giustificarsi: «Pensa che ho dovuto dare due lire al siòr Trèma perché mi venisse a chiamare».

Penso che proprio da simili episodi di vita quotidiana sia originata la varietà dei miei successivi atteggiamenti, frutto spesso di difficili mediazioni fra la rigida osservanza formale e riluttanze intime e insopprimibili. Per questo il ricordo è ancora così preciso nella memoria e in un certo senso emblematico.

Avevo recuperato l’anno, ma a Breno non volevo più tornare: non ero stato capito, e tornando “trionfatore” sarei risultato subito bersaglio di nuove malevole invidie.

Nell’anno trascorso a Torino, le buone figure degli insegnanti (dietro le quali intravedevo forse la figura del babbo), il riuscire comunque bene negli studi e il nuovo impegno da Avanguardista mi avevano fatto capire definitivamente quale doveva essere la mia strada.

Nell’autunno del 1925 passai dunque all’Istituto Magistrale di Brescia. Stavo a pensione dalle sorelle Risatti, Via Gabriele Rosa, n° 5. Ero entusiasta della nuova scuola e riuscivo a meraviglia. Nel gennaio successivo vinsi il premio “Luigia Saita”.

Dal marzo 1926 cominciai a seguire i corsi di premilitare organizzati dalla Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (MVSN): venticinque lezioni teoriche e otto sessioni di tiro.

In quello stesso anno si ebbe un’alluvione del Grigna. Tani Bonettini e Vittorino Ragazzi ne trassero spunto per una canzone.

Nella primavera del 1927 avevo diciotto anni e mezzo; si stava organizzando una grande festa, per tutti i giovani che come me si lasciavano alle spalle l’Avanguardia: il 21 aprile, ricorrenza del Natale di Roma, fummo iscritti tutti al Partito Nazionale Fascista. Una grande emozione: era la Prima Leva Fascista. Nello stesso giorno entrava in vigore la Carta del Lavoro (me ne ricorderò dieci anni più tardi, confrontandola col Fuero del Trabajo spagnolo). Bisogna anche ricordare che in quegli anni, dal 1926 al ’30, era segretario del Partito il “Bresciano”, Augusto Turati.

Posso affermare in tutta serenità, che l’ambiente della scuola e delle organizzazioni fasciste furono l’unica valida guida a mia disposizione per formarmi una coscienza politica di uomo e di cittadino e che, almeno in quest’ambito, riuscirono a darmi quell’indirizzo che il mio povero papà non aveva potuto darmi.

Conservo ancora la pagella di quel secondo anno: nove, come sempre, in geografia, otto in italiano, pedagogia, storia, matematica, disegno e musica; un misero sette in latino.

Alla fine di giugno del 1928 conclusi brillantemente anche l’Istituto Magistrale, licenziandomi con questi voti:

Italiano  sette
Latino  sette
Filosofia e pedagogia  otto
Storia  sette
Matematica  otto
Scienze naturali  otto
Disegno  otto
Canto  sette
Educazione fisica  lodevole

e con una «menzione onorevole di I ° grado». Durante quell’anno avevo frequentato anche un corso di religione e di pedagogia catechistica: riportai la votazione di 24/30. Ricordo il fatto non tanto per il “successo”, ma per segnalare che uno dei miei docenti era don Peppino Tedeschi, originario di Iseo. Diventerà una delle firme più autorevoli della rivista «Scuola Italiana Moderna» e per uno di quei tiri che solo il cieco destino sa prodigarci, lo vedrò al mio fianco quasi settanta anni dopo, nella terna dei candidati cui intitolare la Scuola Elementare di Iseo. Con noi era il fuoriclasse Gabriele Rosa: il buon vegliardo che aveva sostenuto la costruzione del nuovo edificio scolastico inaugurandolo poi nel 1883, e che è noto per essere una delle persone che hanno dato maggior lustro a Iseo.

Ero maestro, avevo un lavoro, avevo vent’anni… Passai un’estate stupenda, fresca, con mille escursioni, densa di pensieri, di progetti, di grilli di gioventù.

 


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