Ameraldi - 5.1. Maestro a Brescia Documento senza titolo

Oberto Ameraldi:
Una vita di fede per la scuola

Brescia : Fondazione Civiltà Bresciana, 2000. - (Cattolici & Società ; 11), p. 83-104.


5.1. Maestro a Brescia (parte prima)

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Superati gli esami all’Istituto Magistrale, il 3 luglio, a Milano, presso il Regio Istituto Magistrale C. Tenca, sostenni l’esame di abilitazione all’insegnamento elementare, con voti lusinghieri:

Lingua e letteratura italiana  sette
Lingua e letteratura latina  sette
Filosofia e pedagogia  otto
Storia  sette
Matematica e fisica  otto
Scienze nat., geografia, igiene  otto
Musica e canto corale  sette
Disegno  otto
Educazione fisica  lodevole
Valutazione complessiva “Sessanta su ottanta” 2

 

Non persi tempo: il due agosto presentai domanda al Comune di Brescia per essere assunto in qualità di “insegnante provvisorio”. Ricordo ancora il testo di quella domanda, è un formulario talmente familiare:

Il sottoscritto Oberto Luigi Ameraldi, orfano di maestro elementare, avendo conseguito l’abilitazione all’insegnamento elementare nell’ultima sessione d’esami, riportando la media complessiva di 60/80, chiede a V. S. Ill. un posto quale insegnante provvisorio in codesto Comune, da V. S. tanto sapientemente retto. Sperando che la presente domanda sarà tenuta in considerazione, saluta ed ossequia.

Per avere tutte, ma proprio tutte, le carte in regola mi ero iscritto il giorno precedente anche all’Associazione Fascista della Scuola.

La domanda venne accolta. Fui nominato “maestro provvisorio” presso la scuola “G. C. Abba” in Castello. Avevo una terza classe maschile di venti alunni (nel corso dell’anno due si ritireranno).

Qualcosa però ancora mi rodeva e mi spingeva ad maiora. I tre anni di Istituto Magistrale e poi l’incarico di insegnamento avevano maturato in me una profonda propensione verso gli studi di filosofia e pedagogia. E fu così che il 10 novembre 1928 mi iscrissi all’Istituto Superiore di Magistero “Maria Immacolata” di Milano, dopo aver sostenuto gli esami di ammissione (3-7 novembre).

Il lavoro non mi pesava, avevo anche molto tempo libero. Per la maggior parte lo dedicavo all’attività dell’Opera Balilla, la “Pupilla del Regime” (alla gara ginnica del Natale di Roma la mia squadra ottenne il settimo premio). E quando potevo, partecipavo alle iniziative dell’Istituto Fascista di Cultura. Anche la festa della scuola riuscì molto bene, mi ero dato parecchio da fare per organizzarla.

Quel primo anno di insegnamento, a giugno, i promossi furono undici. Mi piaceva insegnare, lo facevo con molto amore, ma anche con la necessaria disciplina e fermezza. Spesso i miei superiori mi rimproveravano la cattiva scrittura. Il rilievo era giusto, lo ammetto, ma come potevo riuscire a tener compresso quell’autentico vulcano che sentivo in me. Proprio in quei mesi, come se la mia vita interiore venisse proiettata sullo schermo della realtà, faceva la sua comparsa nei bar di Brescia una bibita frizzante e dalla «originalissima fragranza» importata dall’America: la Coca Cola, a lire 1,20 la bottiglia.

Il 30 maggio ero ritornato a Esine per la prima messa di padre Antonio Cistellini – da poco anch’egli è giunto qui da noi –. Una fotografia, pubblicata cinquant’anni dopo su «El Caròbe» (n. 4 del 1979), mi ritrae un po’ sfocato perché mi ero mosso a guardare verso il fotografo. L’espressione fissa però uno stato d’animo che va oltre l’istante dello scatto: l’innocente ingenuità della bocca appena aperta ad un accennato sorriso, lo sguardo fidente che ammira stupito qualcosa di buono e di bello, riassumono bene, più di tante parole, come mi sentivo in quei mesi. Ah, beata gioventù.

Per dare un po’ di sfogo a tanta vitale irruenza facevo frequenti gite in montagna. Quell’estate, il 25 agosto, fu inaugurato il rifugio ai Caduti dell’Adamello alla Lobbia Alta, col capitano Sora, glorioso “diavolo bianco” e reduce dalle imprese artiche e il senatore Bonardi di Iseo. Come altri “mille scarponi” salii alle nevi dell’Adamello. Conservo ancora la medaglia ricordo. Lungo la parete destra della chiesetta vicina al rifugio Garibaldi una lapide augura «Pace all’alpino BIANCHI ANTONIO caduto sulla vedretta del Pisgana combattendo per la grandezza della Patria il 18 - 6 - 1915». Fu uno dei primi caduti della grande guerra; mi sentivo colmo d’orgoglio sapendo che era di Esine, di Plemo.

Per ironia, alla visita militare fui dichiarato rivedibile di 3ª, per “deficienza toracica” (solo 79 cm .; ero alto m. 1,57) e il 18 di settembre 1929 fui posto in “congedo illimitato provvisorio”.

Non ebbi alcuna nomina di insegnamento per l’anno scolastico 1929-30. Ne approfittai per seguire le lezioni a Milano.

Conobbi altri studenti bresciani, ma in particolare mi legai di profonda e affettuosissima amicizia con Vittorino Chizzolini. In quegli anni anche lui impegnato come me sia nella scuola che coi Balilla.

Ho conservato come una delle cose più care la sua prima bellissima cartolina: «Al caro fagiolino Ameraldi Oberto di Roccabruna. Caro orsacchiotto bianco…». Ed ecco i saluti: «Arrivederci. Ti stringo con affetto fraterno una delle zampe».

Permettetemi, per dovere di amicizia e profonda ammirazione, una breve digressione per dire due parole su questo sant’uomo.

Era dotato di poderoso ingegno che lo faceva eccellere sui compagni di studio, arrivando spesso ad oscurare il magistero del “professore” (pur avendo tutti i riguardi di non oltrepassare certi limiti, per profonda modestia). Certe volte mangiava con me ed altri compagni la colazione del mezzogiorno presso il ristorante “Tipo B” di fronte al Castello Sforzesco e quando uscivamo, spariva addirittura con “levità” dicendo che aveva un impegno, mentre noi “laici” ci fermavamo nei giardini a prendere il sole ed a fumare una sigaretta. Solo dopo molti mesi scoprimmo che i suoi impegni erano l’adorazione del SS. nella cappella dell’Università, che allora era ancora in Via S. Agnese 4.

Vi era alla Cattolica una studentessa di filosofia di Como, una ragazza geniale ma un poco pazzoide che era particolarmente stimata da Padre Gemelli che l’aveva autorizzata (lei sola) a fumare nei corridoi. Ebbene questa tale (non ricordo il nome) la vidi un paio di volte fermare bruscamente Vittorino chiedendogli una sigaretta. Alla ovvia risposta negativa di Vittorino ed alle sue scuse ella lo mandava a quel paese con una parola od un gesto spesso volgare. Un bel mattino Vittorino mi chiese «un grosso favore»; sono sue parole. «Tu che te ne intendi, comprami un pacchetto di sigarette». Alle mie meraviglie che volesse dar inizio alla brutta pratica del fumare, non rispose che col suo solito sorriso. Più tardi, sempre con lui, incontrammo la scalmanata di Como che, proprio per perseguitarlo, gli chiese di fumare. Egli tirò fuori il pacchetto e chiedendole scusa, la pregò di accettare il suo dono. Quella accettò e poi, piangendo, lo abbracciò.

Ogni martedì avevamo una lezione importantissima, col prof. Paolo Rotta su Aristotele. Perno della lezione erano gli interventi di Vittorino. Ad un certo momento dell’anno scolastico Vittorino cominciò a disertare la lezione e non si faceva vedere all’Università. Scoprimmo, molto tardi, e per vie indirette, che era il suo giorno di visita ai carcerati di Brescia.

Qualche sera dormiva da me, in Via Carducci, 19 (cinquanta anni dopo, in una lettera ancora mi ringraziava per l’ospitalità). Abitavo presso una famiglia del mio paese, potevo godere di una magnifica camera da letto. Ebbene, dopo le comuni, piuttosto sbrigative preghiere, Vittorino mi chiedeva, spenta la luce, di poter dire alcune preghiere, visto che nella giornata, ecc. ecc. E rimaneva inginocchiato non so per quanto tempo, perché io dormivo saporitamente.

Ma il caso più notevole mi sembra il suo comportamento nei riguardi di suo padre che, in quei lontani anni 1928-29-30 era blasfemo, anticlericale, libertino, ecc. Quando mi capitava di andare da Vittorino e chiedere libri od appunti, suo padre si affacciava e mi diceva: «Caro Ameraldi, questa sera andiamo a vedere le 100 piú belle gambe d’Europa!» (Era il balletto del Cavallino Bianco viennese). E Vittorino interveniva: «Il papà scherza sempre!» Ed il padre iroso ribatteva: «Ma che scherzare: Ameraldi è un uomo e tu uno smidollato!» Ma Vittorino non si offendeva e si avvicinava a suo padre per abbracciarlo.

Personalmente fui sempre convinto che Vittorino non avesse chiesto la consacrazione sacerdotale per umiltà, offrendo questa grandissima rinuncia per la conversione di suo padre che, proprio dopo anni di insulti e di bestemmie, è morto da buon cristiano.

Il 1° maggio 1930 partecipai a un concorso per la nomina di cinque posti di maestro in soprannumero. Fui classificato «al primo posto della graduatoria di merito con punti 90.500 sopra 150».

Per me era come entrare in un nuovo mondo. Ringraziavo la mia buona stella e quanti mi avevano aiutato. Per una di quelle strane coincidenze belle e stravaganti di cui il cielo non è parco, da pochi mesi era stato scoperto l’ultimo dei pianeti della Terra, Plutone. Il suo scopritore, Clyde William Tombaugh era un giovane (24 anni!) astronomo dilettante, figlio di contadini dell’Illinois.

Intanto stavo già pensando alla tesi. Mi avrebbe seguito il professore di storia, Giovanni Soranzo. Mi aveva proposto una tesi sulla dominazione viscontea in Valcamonica. Penso che mi avrebbe seguito bene. Materiale non mancava. L’amico Vittorino nel giro di un mese, potendo frequentare la biblioteca Queriniana, mi confermava che il materiale bibliografico era abbondante. Senza saperlo, ripercorrevo le orme di Giambattista Guadagnini, quando chiedeva all’amico Rodella di inviargli libri o trascrivergli documenti.

Il 17 novembre, mentre stavo cercando casa e lavoro a Brescia, aiutato da Vittorino, morì Batistì-pitùr.

Nell’anno scolastico 1930- 31, in attesa di una supplenza, ero a disposizione come insegnante assistente: ebbi così modo di visitare varie classi. Di questa esperienza tenni un diario, che chiamai Diario di scuola , dal 12 gennaio all’11 aprile. Per l’epigrafe scelsi il motto latino de absentis nisi bene che non si trova in nessuno dei classici (che tra l’altro più correttamente avrebbero detto de absentibus): in realtà è una variante inventata da me adattandola sul brocardo de mortuis nil nisi bene. Ma mi piaceva perché era una sentenza pregna d’avita sapienza latina, di prudenza romanamente generosa che aveva vinto e superato trionfalmente, come tutta la civiltà di Roma, i secoli.

Tornato a casa per le vacanze di Pasqua, anch’io, come tutto il paese, fui profondamente scosso dall’eccidio dei fratelli Gimitelli al ponte del Grigna. «Pasqua di sangue a Esine» strillavano i titoli del «Popolo di Brescia». Con qualche bicchiere in più vien voglia di far spavalderie, forse volevano semplicemente provocare i militi per via di vecchi rancori, sbeffeggiandoli e cantando Bandiera rossa, ma hanno pagato cara la loro bravata.

Prima della fine dell’anno, da metà aprile a metà giugno (1931), ebbi una supplenza presso la Scuola Elementare S. Bartolomeo (Mompiano): era una quinta mista: 10 maschi, 7 femmine. Le condizioni della classe erano definite «particolarmente difficili» perché gli alunni «non erano stati abituati a lavorare con ordine». A giugno i promossi furono 15.

Ero un maestrino alle prime armi, senza esperienza, tuttavia sapevo tenere la classe: se avessi fatto delle concessioni sulla disciplina, tutto il mio impegno sarebbe stato vanificato. Curavo con particolare attenzione le materie fondamentali, ma mi dedicavo con solerzia anche alla educazione fisica degli alunni; avevo di nuovo i Balilla: il saggio ginnico collettivo riuscì alla perfezione.

Ero molto impulsivo, il sangue mi bolliva in tasca, come si diceva. Sentivo in me la vida pujante de los ventidós años. Non riuscivo ancora a coltivare “virtù mature” come la prudenza e la moderazione. Non alla mia età. Vedevo tuttavia che come non consideravo la scuola una istituzione per trasmettere nozioni, ma un luogo di educazione di tutta la persona (nonostante i limiti della mia cultura e dell’efficacia dell’esempio personale), così non potevo considerare la mia opera un mestiere qualsiasi. Ero consapevole dell’importanza politica della scuola in rapporto alla nuova realtà (non era più la vecchia scuola che anch’io avevo frequentato). Il nuovo cittadino doveva formarsi «agguerrito alla vita», «del tempo di Mussolini»: questi gli slogan. «Senza coscienza politica non esiste coscienza nazionale; senza preparazione militare non esiste coscienza politica». Nostro compito di docenti era di portare il fascismo nella scuola, facendola diventare palestra di educazione e di fede politica. Sentivo tutto l’ardore di quegli ideali e a mia volta li trasmettevo. Era così che la scuola andava verso la vita, adeguandosi alla vita in una sfera profonda. Una scuola, una cultura che prescindessero dalle reali necessità della vita non potevano che essere astrazioni.

Trasponevo questa profonda passione nel lavoro quotidiano con la classe, e già questo bastava a conquistarla; di mio aggiungevo la familiarità con cui mi rivolgevo ai ragazzi, una familiarità che non escludeva il rispetto; facevo di tutto per infondere stima in loro stessi, nelle loro capacità e quasi «innalzandoli di fronte a se stessi». La figura di mio padre si sovrapponeva volentieri a quella del maestro, non sempre sapevo distinguerle.

Da qui forse prese corpo col tempo una delle mie più profonde convinzioni pedagogiche: che si impara innanzitutto dalle persone cui si vuole bene; era del resto una grande soddisfazione personale vedere che riuscivo a farmi voler bene con molta spontaneità, con facilità. L’esperienza quotidiana mi aveva via via convinto che ciò che si impara solo con la mente si dimentica facilmente, ma quel che si impara con la mediazione dell’affettività – col cuore, se vogliamo – lo ricordiamo per tutta la vita, diventa nostro patrimonio culturale.

Erano in gioco peraltro responsabilità importanti. Innanzitutto, nei confronti dei ragazzi e del loro futuro; e insieme anche sociali: non c’era posto per gli ignoranti, per i pusillanimi, per gli scansafatiche, per i fatalisti rassegnati, per gli zotici zappaterra. Non ne volevamo più: questa doveva essere una generazione fascista al cento per cento. La generazione dell’Italia rinata. Mi andavo sempre più convincendo, infatti, che il Fascismo rappresentasse il secondo Risorgimento italiano – sebbene del primo Risorgimento non avesse accolto al completo gli ideali politici e morali.

Il 30 settembre dello stesso anno (1931) fui nominato maestro in soprannumero, con gli altri quattro colleghi vincitori. Volevo terminare entro i quattro anni regolari di corso gli studi a Milano e perciò decisi di chiedere un anno di aspettativa.

Nell’anno scolastico 1931/32 fui nominato supplente per qualche settimana nella quarta elementare maschile alla “Ugoni” dove insegnava un maestro molto noto e stimato, Marco Agosti. Devo dire che mai nessun servizio di supplenza mi fu tanto lieve e tanto utile. Trovai la classe in cortile che mi attendeva, impegnata nella visita di pulizia e poi, giunti in classe, la preghiera motivata, l’auto appello (utilissimo per abituare i ragazzi a chiarirsi le idee ed a parlare italiano) e poi tutto un programma settimanale concordato tra gli alunni, con elezioni dei reggenti e svolgimento regolarissimo del lavoro scolastico come fosse presente il titolare, assente, purtroppo, per malattia.

Nel frattempo stavo anche maturando la decisione di cambiare sede, di trasferirmi alla facoltà di Magistero di Torino, «per il meglio della mia vita spirituale», nonostante la mia decisione potesse «essere non benevolmente giudicata». Avevo sentito voci contra stanti circa l’affidabilità, diciamo così, politica di quella università. Certo, l’ambiente cattolico di Milano da questo punto di vista offriva maggiori garanzie.

Per quanto riguarda la politica mi sentivo comunque sufficientemente protetto dalla tessera che avevo in tasca e naturalmente dalle mie convinzioni. Ero deciso ad ottenere il massimo dal mio studio: il diploma di laurea avrebbe avuto maggior valore se ottenuto in una università di grande prestigio, come quella torinese. Ritornavo a Torino dopo sette anni ma per scelta, non per necessità: nella mia decisione c’era senz’altro anche il gusto di una segreta rivincita e di una riconferma delle mie qualità. Conservo ancora il berretto universitario bianco, carico di distintivi e medaglie.

Presso il Regio Istituto Superiore di Magistero dove contavo di laurearmi insegnavano professori di gran vaglia: il direttore, Francesco Cognasso, morto a cento anni nel 1986, era uno dei maggiori storici del Piemonte e della dinastia Sabauda, e biografo di Arnaldo da Brescia; il vicedirettore era il giovanissimo filosofo Augusto Guzzo, aveva allora solo 35 anni; ma ancor più giovane era il docente di diritto, il professor Piero Bodda (aveva solo quattro anni più di noi allievi); il professor Enrico Carrara, che insegnava letteratura italiana, era stato allievo di Carducci; il professor Matteo Bartoli era un eminente linguista e dialettologo; proprio in quegli anni stava progettando un Atlante Linguistico Italiano (che a fatica sta ora vedendo la luce); il professor Ferdinando Neri era il docente di francese; infine, avevamo come insegnante di filosofia del diritto il professor Gioele Solari, nativo di Albino nel Bergamasco: da lui ho appreso il significato di “società civile” nella sua accezione etica. Alcuni anni prima era stato maestro di un alunno brillante: Carlo Alberto Biggini, che diverrà ministro dell’Educazione nazionale durante la guerra.

Volevo dare la tesi entro giugno, su un argomento a me congeniale.

Da tempo ci stavo pensando; per molti motivi la figura di Giambattista Guadagnini mi stimolava emozionalmente e intellettualmente; non da ultimo, il valente storico don Alessandro Sina, dal marzo 1930 coadiutore-rettore di Santa Maria, mi aveva incoraggiato ad approfondirne lo studio, segnalandomi tra l’altro un suo breve scritto, bisognoso ormai di una revisione critica. Del resto, ripensandoci, a Milano, nell’Università che si avviava ad assumere la denominazione «del Sacro Cuore», una tesi su un giansenista avrebbe potuto essere interpretata come aperta impertinenza e non essere accolta.

Ero però combattuto da vari dubbi: 1) se fosse possibile far consistere la tesi di filosofia e pedagogia in un lavoro in cui poco si sarebbe detto di chiaramente filosofico; 2) i vincoli di ammirazione e di sangue che mi legavano al Guadagnini potevano compromettere una indagine obiettiva e 3) trattare di un autore, quando si sa che molto di più e meglio potrebbe essere detto da altri poteva sembrare almeno presunzione, se non disonestà scientifica. Tuttavia un’«ansia gioconda» mi infondeva coraggio, perché ero certo di incontrare la verità nel mio cammino. Secondo il mio professore, Guzzo, dovevo possedere fin dall’inizio «la convinzione che volevo far risultare» dalla mia tesi, e cioè che il Guadagnini «fu un ottimo sacerdote, a suo modo ribelle solo per il fatto d’aver preso sul serio la sua missione». Ero peraltro convinto che «il tormento di un attimo si sarebbe risolto in ardore di fede, nella chiara coscienza di iniziare… un lavoro per dire spregiudicatamente la verità».

Il Giansenismo fu per me una vera rivelazione. Vedevo nei Giansenisti dei credenti austeri, nemici di gerarchie, di vecchie soprastrutture, sofisticherie e superstizioni. Per molti aspetti mi riconoscevo: mi convinceva e attirava l’intreccio che si stabiliva fra libertà, fede e società. Mi era di grande stimolo intellettuale pensare la libertà come fondamento della fede religiosa e politica, mi aiutava a sentirmi ad un tempo sincero credente e leale cittadino. Anzi, ero convinto, come già riteneva Mazzini, che la fede in Dio fosse di per se stessa una grande molla di progresso. Il Giansenismo, coraggiosamente, aveva propugnato questo stesso ideale. Dal punto di vista intellettuale mi piaceva riflettere su pensieri così acutamente trattati da filosofi del calibro di Sant’Agostino, Pascal e Kant.

Nel 1931 era stata pubblicata da Laterza La vita religiosa di Alessandro Manzoni del senatore Francesco Ruffini. Pur non essendo mio professore, avevo avuto modo di ammirarlo e di conoscerlo come uomo oltre che onesto, di gran cuore, un luminare di diritto ecclesiastico, che era stato anche ministro dell’Istruzione durante la Guerra. Aveva studiato approfonditamente la questione della libertà religiosa e del Giansenismo. Nel novembre del 1931 era stato costretto ad abbandonare l’insegnamento universitario perché si era rifiutato di prestare il giuramento fascista (ma già nel 1928 era stato fischiato dagli studenti dei Gruppi Universitari Fascisti).

Lessi con grande attenzione i due ponderosi tomi dell’opera e sull’onda dell’entusiasmo suscitato, ne abbozzai una recensione che terminai il 15 di marzo. So che ora la mia Margherita l’ha ritrovata fra le mie carte e ne ha fatto delle copie da diffondere fra gli amici. Brava: mi pare di rivivere lo stesso fervore intellettuale, il medesimo entusiasmo di allora.

Passai alcuni mesi di studio molto intenso e proficuo; non ringrazierò mai abbastanza la mamma: spesso mi si inumidivano gli occhi pensando a lei che con tanti sacrifici mi aveva reso possibile quella vita, pur difficile, ma tanto bella e piena di sogni.

Per la metà di maggio la tesi era conclusa, con un mese di anticipo rispetto al termine che mi ero proposto. Fra maggio e giugno diedi quattro esami molto impegnativi: diritto con Bodda, pedagogia e filosofia lo stesso giorno con Guzzo e storia con Dino Gribaudi. Mi rimaneva un secondo esame di storia, con Guzzo, che diedi solo il 20 di ottobre. Che mi procurò un bel 29. Mi laureai nella sessione autunnale, il 16 novembre. Ottenni la votazione di 67/70: fu un secondo trionfo, dopo la promozione del 1925. Il professor Guzzo fece leggere la tesi perfino al ministro Gentile e gli piacque molto, tanto da pensare di trarne un articolo di 30-40 pagine per una rivista.

Nel frattempo ero stato nominato, come titolare straordinario presso la scuola “Vito Dusi” di Brescia, in via Villa Glori, nella frazione Fiumicello: in una Brescia ancora fremente per la recente visita del Duce… e per Ben-Hur. Fui costretto a chiedere un’altra settimana di aspettativa, fino al 20 di novembre. Lunedì 21 novembre mi presentai a scuola per assumere servizio. Potete immaginare il mio stato d’animo: mancavo dalla scuola da più di un anno e vi tornavo da diplomato con la certezza di un posto di ruolo. Avevo compiuto da poco i 24 anni e davanti a me si apriva, ricca di promesse, la vita… che sentivo mia come non mai.

Il lunedì successivo prestai il giuramento di rito che si richiedeva a tutti i dipendenti dello Stato. Non c’era bisogno di giurare, condividevo in tutto i medesimi ideali e rispettarlo mi sarebbe stato facile e congeniale come la cosa più ovvia:

Giuro che sarò fedele al Re ed ai suoi Reali successori; che osserverò lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato; che non appartengo e non apparterrò ad associazioni o partiti, la cui attività non si concilii con i doveri del mio ufficio; che adempirò ai doveri stessi con diligenza e con zelo, inspirando la mia azione al fine di educare i fanciulli affidatimi al culto della Patria ed all’ossequio delle istituzioni dello Stato.

Avevo una quinta maschile di quaranta alunni. In poche settimane dall’inizio delle lezioni la classe aveva avuto ben sette supplenti. Il lavoro di riorganizzazione non era indifferente. Anch’io, per parte mia, dovevo riprendere il ritmo. Mi sentivo preparato al meglio. Questa sicurezza suscitava negli allievi una stima incondizionata nei miei confronti e una spontanea confidenza e segretamente mi aiutava a vincere una certa timidezza (rilevata anche dai superiori). Mi era facile perciò ottenere disciplina e applicazione senza ricorrere a antipatici rigorismi; mi bastarono pochi giorni per farmi benvolere dai miei alunni. Nel lavoro didattico quotidiano erano richiesti operosità e sacrificio, ma, anche per me, senza rigorismi.

La roboante retorica, appunto perché eccessiva, appiattiva i miei veri sentimenti e non coglieva il vero senso della mia disponibilità: ero giovane, e non potevo accettare di avere «null’altra gioia che il lavoro, altro amore che quello per la patria»; la scuola era importantissima, per me, per il paese, ma non al punto da considerarla base della vita; e nemmeno la patria riuscivo a considerarla scopo principale della vita. Nella barca solida della mia libertà, veleggiavo attento e spedito, col vento in poppa delle mie convinzioni, col rostro di certa mia camuna testardaggine, ma anche con l’acuzie di una mente allenata a riflettere, specie dopo una tesi sul Giansenismo.

Oltre all’impegno scolastico mi dedicavo volonterosamente anche alle “opere del Regime”: ero istruttore-comandante di una centuria di Balilla(nella mia classe avevo raggiunto il tesseramento totalitario: 40 su 40), mi prestavo gratuitamente per la refezione, raccoglievo adesioni per la Mutualità scolastica, trovavo il tempo anche per il doposcuola (29 alunni) e infine per invito dell’ ONB avevo assunto l’incarico gratuito di preparare un’alunna dell’Istituto Zitelle Rossini all’esame di cultura presso il conservatorio di Milano. Verso la fine dell’anno scolastico fui inoltre nominato revisore dei conti per il locale Comitato Orfani dei Maestri.

Sull’onda dell’ottimo risultato mi iscrissi anche alla facoltà di lette re, sempre a Torino. E già mi preparavo a riprendere lo studio chiedendo nuovamente quattro mesi di aspettativa, ma i molteplici impegni mi impedirono di trovare il tempo sufficiente. Pensandoci, mi convinsi che già il solo fatto di averli accettati era stata una preferenza istintiva; l’aspettativa richiesta giunse però oltre i termini e così pensai bene di cominciare a prepararmi per l’esame di abilitazione (che voci ben informate davano per l’anno successivo) e al concorso a cattedre per le scuole medie.

Durante l’anno scolastico 1933-34 ebbi di nuovo una quinta classe, ancora numerosa, 39 alunni. Conservavo tutti i miei impegni “parascolastici” e di regime con qualche aggiunta: preparai due squadre balilla per le gare provinciali (in luglio ricevetti nientemeno che il compiacimento del presidente dell’ ONB , Rodolfo Imperiali, per i risultati ottenuti nel tesseramento). All’Istituto Orfani dei maestri fui “avanzato” da revisore dei conti a segretario. Fui cooptato infine nel Direttorio del Fascio di combattimento di Esine. A proposito di fascismo, confesso che rimasi sbalordito, alcuni anni dopo, quando seppi che, proprio nel giorno del mio venticinquesimo compleanno, José Antonio Primo de Rivera fondava la Falange spagnola. Ma andiamo con ordine.

Il 31 dicembre del 1933 i comuni autonomi cessarono di godere dell’autonomia scolastica e il personale (me compreso) passò alle dipendenze dello Stato.

La primavera del 1934 fu abbastanza movimentata. Ai primi di marzo scoppiò un incendio, motivo per una vacanza inaspettata; ero comunque già in aspettativa per potermi preparare al concorsoe impegnato con le tradizionali manifestazioni primaverili per l’ottava leva fascista. Il 25 di marzo si votò per il plebiscito. In maggio si svolsero i Littoriali dell’anno XII: per l’occasione «Il popolo di Brescia» mi pubblicò un articolo. Il Comandante della 767 Legione Balilla Moschettieri “Paolo Peli”, Beniamino Pialorsi, mi scrisse (il 23 aprile) insistendo perché presentassi domanda per la nomina ad Ufficiale della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN). Eravamo ormai in «un’età postmenefreghistica» e nonostante l’espressione fosse molto piaciuta al Duce, e molti nostri arditi fossero andati all’assalto cantando me ne frego di morir, l’espressione me ne frego aveva perso il suo significato eroico, fondativo, assumendone uno «fascisticamente illecito», anzi era il «surrogato dell’opposizione, la minaccia più grave alla Rivoluzione».

Intanto mi stavo preparando al «concorso a cattedre di filosofia e storia nei Regi istituti medi di istruzione, ed ai relativi esami di abilitazione all’esercizio professionale dell’insegnamento medio» banditi il 15 dicembre 1933, che sostenni e superai all’inizio dell’estate: riportai un non indegno 49/75. L’amico Vittorino, avendo saputo della mia abilitazione dal «Giornale della Scuola Media», mi scrisse una cartolina alla colonia di Milano Marittima per congratularsi con me. Per contraccambiare la simpatia, qualche settimana dopo, gli mandai i saluti dall’Adamello.

Nonostante l’abilitazione, preferivo il posto di maestro che iniziare il precario calvario delle supplenze alla scuola media: le condizioni economiche della mia famiglia non me lo permettevano. L’autunno fui riconfermato a Fiumicello, di nuovo con una quinta di quaranta alunni. Alloggiavo in via Marsala al n. 42.

Erano appena entrati in vigore i nuovi programmi, che aggiornavano quelli “apolitici” di Gentile del 1923 («la più fascista delle riforme»): mi piaceva soprattutto un’indicazione, contenuta nel Preambolo: «I programmi che seguono sono delineati in guisa da fare, per se stessi, obbligo al maestro di rinnovare continuamente la propria cultura attingendo… alle vive fonti della vera cultura del popolo. Queste fonti sono: la tradizione popolare, così come essa vive perenne educatrice nel popolo e la grande letteratura». Era in tutto e per tutto quello che già faceva il mio povero papà, e per me sembrava la cosa più naturale e già lo facevo.

Per la prima volta la classe aveva a disposizione un apparecchio radiofonico. Oltre all’uso pratico, mi sembrava importante proporre ai miei allievi la figura di un grande scienziato, di un grande italiano, di un grande benefattore dell’umanità quale era Guglielmo Marconi, (in quegli anni, tra le altre cariche, era presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia Treccani). È stato emozionante, una domenica mattina, ascoltare il conte Galeazzo Ciano parlare in inglese agli Americani: la radio non era più solo un semplice mezzo di propaganda e di informazione, ma soprattutto «un grande mezzo per stringere legami più forti fra le nostre due grandi Nazioni».

In primavera, il 21 maggio, sostenni il concorso a cattedre per l’insegnamento della storia e della filosofia. Nel frattempo, su insistenza di Vittorino e di Marco Agosti, cominciai a prestare piccole collaborazioni per la rivista “Scuola Italiana Moderna”. Mi sembrava necessario aiutare i giovani maestri: indirizzarli bene sarebbe risultato proficuo alla Scuola nel suo insieme.

Fui promosso poi comandante della IIIª Coorte Balilla della 1267 Legione. Pur essendo, per natura e convinzioni, fondamentalmente pacifico, ero fiero di poter portare pugnale e dragona, costati ben cinquanta lire! La squadra di ginnastica che allenavo risultò settima al concorso di maggio. Il 23 fui nominato Capomanipolo delle Organizzazioni Giovanili, entrando così a far parte degli “ufficiali”.

Durante l’anno scolastico 1935-36 ebbi una quarta maschile di 36 alunni.

 

 


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