Ameraldi - 5.2. Maestro a Brescia Documento senza titolo

Oberto Ameraldi:
Una vita di fede per la scuola

Brescia : Fondazione Civiltà Bresciana, 2000. - (Cattolici & Società ; 11), p. 104-123.


5.2. Maestro a Brescia (parte seconda)

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I nostri successi in Africa Orientale mi stavano abituando a guardare con sempre maggiore interesse all’eventualità di prestare servizio militare volontario laggiù. E così ai primi di ottobre del 1935presentai la relativa domanda. E durante l’attesa il desiderio di fare qualcosa di veramente utile nelle posizioni più avanzate mi andava esaltando sempre più, fino a diventare la mia massima aspirazione. Sui giornali, andavo leggendo le corrispondenze dei nostri volontari, condividendo il medesimo entusiasmoAvendo compiuto il prescritto triennio, il 15 novembre 1935, passai da titolare straordinario a titolare ordinario. Il direttore didattico Antonio Favero aveva una grandissima stima di me, per la mia preparazione, per le numerose iniziative che intraprendevo, per il mio patriottismo, per la mia affidabilità di fascista e, suppongo, anche per le mie qualità di insegnante.

Mi ero accollato molti impegni, ma lo facevo volentieri, non mi erano pesanti: il piacere di poter dire di sì mi dava all’istante l’energia e l’entusiasmo per portarli a compimento. Sentivo anche di dover essere grato allo Stato per avermi offerto un lavoro per il quale mi sentivo portato, un lavoro onesto, oneroso e che mi onorava.

Già in novembre il tesseramento era totalitario; avevo assunto l’incombenza di fiduciario scolastico; mi ero interessato della refezione; avevo organizzato una pesca scolastica e una raccolta di metalli; avevo tenuto delle conferenze alle scolaresche riunite per illustrare il significato delle principali ricorrenze patriottiche; avevo invitato un reduce a parlare agli alunni; ero riuscito a procurare le divise ai balilla; continuando la mia attività di comandante di coorte, di amministratore della Mutua dei Maestri, di segretario del Comitato Provinciale Orfani dei Maestrie di membro del Direttorio del Fascio di Combattimento di Esine... A proposito: una giovane di Esine era venuta “in servizio” presso una famiglia in via dei Mille, Antonietta Federici.

A fine anno, l’attività didattica verrà valutata «completa con indirizzo schiettamente fascista, nessuna deficienza. Risultati ottimi». Andavo fiero di questi elogi, sapendo di averli conquistati sul campo giorno dopo giorno. Ma la parola schiettamente destò in me un’ombra di perplessità, mi pareva eccessiva più del superlativo risultati ottimi.

Il primo febbraio del 1936, «76° giorno dell’assedio economico»l’Associazione Fascista della Scuola pubblicò un mio opuscoletto dal titolo La nostra fede.

Si parlava molto di fede in quei mesi. E sempre risentivamo l’“alta parola” riassumere in poche ed efficaci parole una summa di azione e coraggio che ci spronava con vigore: «È l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende. E il vomero e la lama sono entrambi di acciaio temprato come la fede dei nostri cuori». Avevamo bisogno di credere, con tutto il nostro essere. Fino al punto che veniva fatto di pensare che fosse proprio il nostro atto di fede volontario, individuale a tener in piedi il Regime, a dargli credito. Eravamo immersi in un’atmosfera gravida di promesse, fatta solo di futuro, giovanotti esaltati forse da molte promesse, da troppe speranze. Il Fascismo aveva bisogno di noi, ci sapeva forti, e questo faceva forti noi. Può darsi che la nostra fede fosse stata all’inizio un atto di volontà, ma divenne poi, come l’amore, un bisogno, una sete insaziabile dell’anima, tale che la volontà stessa che l’aveva creata non poteva più distruggerla.

Questa supposizione mi si presentò davanti all’improvviso, quando mi fu evidente che l’attività di partito mi aveva assorbito anima e corpo, “totalitariamente”; capitava sempre più spesso di non avere più libera nemmeno la domenica. E come me anche molti altri colleghi, istruttori e volontari. Vi stavo profondendo il meglio di me, delle mie energie, stavo sacrificando la mia giovinezza.

Proprio il fuoco giovanile dell’entusiasmo, dell’impegno concreto mi aiutava a non darvi troppo peso; tuttavia volevo che mi lasciasse almeno un angolino personale, una piccola tana: da quanto non tornavo a Esine?

L’insistenza delle parole d’ordine, la patina propagandistica di gran parte del mio operato mi facevano sorgere la domanda: ma se il Fascismo è così forte come dice, che bisogno c’è di continuare a ribadirlo in modo così martellante? Talvolta sentivo che mi mancava il respiro. Capii che mi stavo impegnando oltre la misura il giorno in cui con sorpresa mi accorsi che il mio carattere si andava trasformando, divenendo via via più simile a quello indifferenziato dell’iconografia di partito. Non stavo più seguendo un’idea. Come uomo di scuola avevo il dovere di stare all’erta.

Vedevo il Capo come un irraggiungibile superuomo. Sul suo esempio mi andavo formando, dava una direzione ai generosi slanci giovanili. Stava facendo grandi cose per l’Italia. Gli ero profondamente riconoscente.

Ancora oggi non so dare una valutazione complessiva di quel periodo; posso solo dire come l’ho vissuto io.

E riflettevo fra me: «Patria, Italia, dovere, sacrificio, mi va bene tutto, ma in tutto vedo pure qualcosa di esagerato; la piramide gerarchica è troppo rigida, mi sottrae la dimensione orizzontale verso i miei simili. Dove colloco gli amici e le molte persone a me vicine e che amo?».

Il Fascismo usava parole troppo grandi, troppo vincolanti e si andava avvolgendo in una spirale che si stringeva sempre più… prima o dopo alle parole sarebbero seguiti i fatti, anch’essi troppo grandi: addirittura un “Impero”. Nel mio intimo, vagamente stava nascendo un lieve senso di perplessità, che non riusciva ancora a condensarsi in parole.

Dare credito a questo sospetto voleva dire candidarsi immediatamente per l’esilio o il confino; prima ancora esser trafitti dall’evidenza di aver sbagliato tutto. Ma allora l’Italia intera, quella che aveva votato per il plebiscito aveva preso un grosso abbaglio? Qualcosa non quadrava.

All’interno di una struttura come la scuola non si poteva dubitare, non ci si poteva permettere il minimo dubbio, perché sarebbe stato contagiosissimo e mi sarebbe costato un prezzo che non ero disposto a pagare. Proprio su questo punto giunsi però alla conclusione che la mia fede, qualunque essa fosse, non doveva essere quella «dei carbonari», quella, cioè, che si accetta supinamente, senza quei dubbi sani, del combattente che si interroga, che vuole capire, che vuole un alto ideale cui votarsi. Perché, paradossalmente, la fede chenon dubita è sterile, non si rinnova, non si rafforza. È una fede astratta che col tempo sbiadisce e non dà più forza all’agire. Anzi col tempo diventa quasi una costrizione, non più la cittadella della libertà.«È la fede quella parte di libertà che non potrei cedere senza morire» dirà Bernanos.

Dal cuore della scuola, dai ragazzi della mia classe sorgeva una vitalità, un gioioso disordine, una spontaneità, in sintonia perfetta col loro animo, con la loro personalità che mi facevano riflettere, mi ricordavano i miei anni d’infanzia. Qui ritrovavo la mia misura.

In divisa da Balilla erano gli stessi ragazzi? Mi sembrava una disciplina troppo ostentata per esser sincera, troppo appariscente per durare anche oltre la parata. Mi andava bene l’esercizio fisico, l’igiene, le colonie elioterapiche, perché davano una opportunità e una dignità anche ai ragazzi più poveri. Una parata è bella da vedere, ma i bimbi non sono dei burattini. Se si è minimamente attenti, se si è veri “maestri”, non si può non vedere che ogni bambino è diverso, che è proprio grazie alla personale originalità che egli sarà di giovamento alla società. E riflettevo anche che col nonno lavoravo e imparavo, non c’era bisogno che mi stesse sempre così addosso.

Erano tempi duri, è vero, si stava vivendo un assedio, senza una guerra vera e propria. Il dubbio che dopo tanta preparazione qualcosa dovesse pur succedere, cominciava a serpeggiare. A casa ci deve essere ancora il vecchio fucile da caccia ereditato dal nonno (che scherzosamente chiamavo calüden, “fuliggine”) che mio padre offriva provocatoriamente a Bití de Ciulí per i suoi propositi suicidi mai attuati; ma non valevo nulla quanto a caccia, e perciò non l’ho tenuto oliato. Se l’avessi fatto, anche solo per dare un senso al tempo speso per pulirlo, una qualche volta sarei pur uscito a caccia, lo zio Siro mi avrebbe portato volentieri.

Sentivo in me un’inquietudine vaga, subdola, che mi rodeva perché non si lasciava precisare, né si dichiarava apertis verbis: allora avrei potuto combatterla o decidere il da farsi. Non mi rimaneva che trovare il modo e gli argomenti per allontanare ogni incertezza, giungere a un compromesso accettabile per la mia coscienza e sviare gli strali del dubbio. Fino a che punto i proclami e le consegne erano da intendersi alla lettera, quanto categorici erano gli imperativi?

Qualcosa non capivo. O forse, mi rifiutavo di capire, di approfondire. Ora so che mi avrebbe distrutto. Per rendermi accettabile la situazione dovevo porla al di fuori della realtà, su un piano metafisico, o, per meglio dire, mistico: sul piano cioè della fede. Lì, come insegna Sant’Agostino, anche l’assurdo diventa accettabile, anzi proprio perché è assurdo: se fosse apertamente comprensibile non richiederebbe un atto di fede. Che bisogno avevo ancora di dimostrazioni? L’assenso che davo escludeva la critica, era unilaterale e esclusivo. L’autorità che accettavo mi incorporava a sé e richiedeva che ne divenissi parte viva, attiva. Avvertivo, insomma, un che di artificioso, di stanco e di vuoto anche se apparentemente si potesse avere l’impressione di calma, di serenità e di soddisfazione per i risultati.

La raccolta delle fedi avvenuta in dicembre mi tormentava: una mente cartesiana non riusciva a capacitarsene. A distanza di tempo, vedo che è stata una commistione di troppe cose, di troppi simboli. Alla fine le povere vedove, le madri di famiglia hanno dato, senza farsi troppe domande. Ma non è stata una bella cosa. La fede nuziale era simbolo di fiducia, di fedeltà, di amore, le cose più preziose fra due persone, per questo da sempre si è scelto l’oro a simbolizzarle. Era oltretutto il segno di una promessa privata, personale. Ebbene, qualche episodio spontaneo di una madre, di una vedova di un caduto, ha fornito a qualche gerarca lo spunto per una “Giornata della fede”. L’esigenza concreta di oro per far fronte alle sanzioni e alla nostra espansione in Etiopia venne trasformata in atto di fede, di fedeltà, di amore verso il Regime.

Perché? Che bisogno c’era di chiedere continuamente il consenso alzando ogni volta la posta? Che cosa rimaneva a quelle povere donne se non le lacrime e un doloroso ricordo? Che cosa hanno ricevuto in cambio dal Regime? Non si vive di sola gloria. Ho avuto l’impressione che siano state espropriate dei loro ultimi affetti, senza adeguato risarcimento. È triste vedere che né esse né i loro cari abbiano poi avuto quel “posto al sole”, per il quale avevano dato tutto.

In quel caso si è sfruttato il doppio significato della parola, fornendo un immediato accostamento anche con la fede religiosa. In duplici “fide” Italia invicta vincet erano i motti in voga. Le analogie fra fascismo e religione possono essere molte, ma non direi che siano per questo confrontabili: non mischierei sacro e profano. Si rimane un poco perplessi oggigiorno sapendo che il quadro della SS. Madonna del Rosario di Pompei della pittrice Olga Jovine Falconieri, che conosciamo attraverso le numerose immaginette sacre che lo riproducono, fu offerto al «culto degli eroici soldati d’Italia combattenti in Africa Orientale».

Dovevo dunque chiarire a me stesso il significato della mia fede, per non rischiare che venisse gabbata o strumentalizzata, per non continuare a scriverla solo come formula di rito in calce alle domande. Mentre le fedi delle madri venivano gettate nei crogioli, anch’io mettevo a prova la mia fede, per eliminare, proprio attraverso il massimo di ardore e di sacrificio possibile, tutte le scorie del dubbio, le impurità dello scetticismo. Avevo bisogno di chiarirmi le idee, di definire precisamente l’idea per la quale stavo militando, e nulla, come il travaglio della guerra, avrebbe potuto far chiarezza. Dovevo trovare una misura per non sfociare nel fanatismo acritico: tutto con moderazione.

Stavo facendo un bilancio: che cosa mi rimaneva dopo aver dato tutto? Mi sentivo forte, ma il precedente delle fedi mi imponeva di stare all’erta e di essere molto prudente. La troppa fede rischiava di accecarmi, di irrigidirmi, di intimorirmi. Mi stavo chiedendo se lavorando con tutta la dedizione del neofita per un Capo potente, orgoglioso e volubile avrebbe finito per privarmi del mio stesso carattere, per assumerne uno preordinato, di serie, completamente malleabile e fin troppo docile: avevo vissuto giorni da leone, mi stavano aspettando ora i 99 da pecora? Come persona, come maestro, dovevo stare in guardia.

Avevo dei doveri, innanzitutto con me stesso. Ero disposto a fare dei sacrifici per il bene comune, cominciando innanzitutto dal mio prossimo, dalle persone che mi erano maggiormente vicine. Prima di ogni altra cosa, la vigna che ero chiamato a coltivare era fatta della mia stessa carne e del mio stesso sangue.

Mi trovavo in mezzo al classico guado: fermo non potevo stare, sarei stato travolto, probabilmente dalla mia stessa speranza; considerata la mia “indefettibile” coerenza, non mi rimaneva che una scelta da eroe: la clandestinità dell’esilio o la partenza come volontario. Su me dovevo puntare per andare «nudo alla meta». In fin dei conti, giocando anch’io con le parole, non avevo sposato né il Duce né il fascismo, non avevo obblighi di fedeltà: non ero un verro “sposato”, da poter condurre dove si voleva. La buona saggezza popolare coi suoi detti mi aiutava a riflettere, mi guidava con mano sicura; queste erano le mie radici.

Stavo cercando me stesso, definendo me stesso, quel che volevo diventare: la linfa che sentivo in me, la dirittura, il discernimento che avevo appreso in famiglia, non mi avrebbero tradito.

Nell’opuscoletto La nostra fede queste riflessioni sono confluite solo in parte, oltretutto camuffate da affermazioni apodittiche, domande retoriche che servono più a insinuare il dubbio che a riconfermare una risposta scontata. Mai come in quell’opuscoletto ho usati tanti non, tanti ma e però. Questo stile evidentemente mal dissimulava una insicurezza di fondo, quasi sentissi l’esigenza di verificare in concreto, nell’azione, molte presupposizioni che mi ero via via costruito. Quasi avessi bisogno di confermare a me stesso la verità oltre la patina inossidabile e smagliante che la ben studiata retorica conferiva agli slogan. Avvertivo in modo quanto mai nebuloso e incerto la sensazione che proprio l’esigenza della forte caratterizzazione, dello slancio “mistico”, nascondesse un tratto di fatalistica predestinazione.

Per il resto non è che un pamphlet un po’ disordinato, che riprendeva spunti colti occasionalmente e continuamente ripetuti, sia sulla stampa che nei molti discorsi alle adunate. (Le citazioni di Mussolini da sole occupano il venti per cento del testo).

Lo ricordo qui solo perché è un documento che testimonia di un periodo della mia vita. Un momento di passaggio.

Come i mandriani che costruiscono la fontana solo l’ultimo giorno di permanenza alla malga, così anch’io raccogliendo i pensieri e facendo il punto della situazione, in un certo qual modo chiudevo una fase della mia vita. Parlando del fascismo in fondo parlavo di me, del carattere, delle convinzioni, dei progetti, delle aspirazioni, della passione, della fede, limpida e vigorosa (fede-forza l’ho chiamata), di tutto quanto mi sentivo allora animato. E chi non si sente un po’ niciano in gioventù, quando esplora le direzioni della propria formazione?

Parlavo soprattutto del patto di lealtà con lo Stato, dell’amor di patria che si realizzava attraverso la mia opera di educatore. Avevo definito Mussolini «plasmatore del popolo italiano», ed anch’io, in sedicesimo, cercavo di preparare cittadini migliori.

Spesso mi tornava alla memoria un frammento del poeta greco Simonide: «La città (la polis) educa l’uomo». Nella sua straordinaria ed efficacissima concisione, coglieva il nocciolo della questione educativa e mi era in ogni momento di guida nel mio lavoro quotidiano.

Probabilmente le numerose “concordanze” fra religione e politica (mistica, fede, sacrificio, verità, spirito, legge morale) hanno avuto buon gioco sulla mia sensibilità, portandomi a sentirmi impegnato come in una missione, in una “religione militante”. Adesso vedo che questo tipo di fede facilmente poteva portare ad attribuire al “Capo” poteri carismatici e perfino taumaturgici che rasentanola superstizione. È un fenomeno tipico della religiosità popolare.

Adesso sorrido alle altisonanti, “granitiche” e ingenue parole di allora:

Sì, fede e sublime veramente poiché non è permesso ad uomo fornito di ragione e di onestà proclamarsi fascista senza che egli non accetti quanto vi è di duro, di superumano, di ascetico in questo credo in cui molti si ritrovano e si riconoscono fratelli.

I giorni della storia hanno scavato quella dura roccia. Se un credo ci affratella, ritengo sia quello della fede vera, semplice e schietta, cristianamente e tolstoianamente intesa.

Una frase di quell’opuscolo risultò poi tragicamente vera. Era tale la nostra fede in quelle parole altisonanti che dovevano per forza realizzarsi, come ci fosse in noi giovani una «imponderabile e sicurissima mistica divinatoria». Parlando degli ex amici e ex alleati inglesi, fui facile profeta di sventura scrivendo

È quello che presto si vedrà… L’antagonismo è innegabile: il duello oggi o domani si dovrà pure effettuare, ed allora chi avrà le armi più sicure, chi avrà la fortezza più salda, chi avrà insomma qualcosa di indistruttibile perché superumano da conservare e da tramandare, quegli necessariamente sopravviverà.

Queste le virtù che fin dal lontano Giappone ci venivano ammirate.

Ma non sapevo ancora che alcuni anni dopo, sulla pista dell’aeroporto di Tunisi avrei visto coi miei stessi occhi fino a qual punto ci avrebbe condotto la nostra sicumera. Le granate che aprivano voragini sulla pista, erano concreta illustrazione di quanto stava accadendo anche dentro di me. Un’altra Italia era alle porte, un’Italia che ancora una volta sapeva riscoprire le proprie energie spirituali e risorgere dalle proprie ceneri.

Fu in questo periodo che scrissi l’articolo sul pittore Battistino Nodari, «un grande pittore e un uomo all’antica» che «Il popolo di Brescia» mi pubblicò.

Oltre all’affetto e ai ricordi d’infanzia mi legavano a lui altri sentimenti, maturati nel corso degli anni: mi sembrava che una forza nuova e per altri inesistente ed ignota venisse a me dall’ideale legame che, attraverso l’amicizia del mio povero papà, congiungeva intimamente il mio spirito con quello dell’artista.

Lontano da casa, e anch’io sofferente, avevo intuito, come per illuminazione, i motivi del suo apparente declino: G. Battista Nodari non aveva voluto offuscare la propria fama con una operosità che seppur ottima, non sarebbe stata più grande e profondamente vera, bisogno intimo della sua anima d’artista. In secondo luogo penso che egli sapesse di essersi trasportato in un piano sopraumano dove l’atto creativo gli consentiva di attingere sì alle gioie più pure e sublimi, ma a prezzo di affanni profondi e inconsolabili.

Ai primi di febbraio 1936 ricevetti l’ordine di presentarmi al Comando della Milizia: finalmente! Era il 12 febbraio: in quello stesso giorno il «Il Popolo d’Italia» pubblicava in prima pagina la fotografia di un cippo a ricordo dei primi quattro caduti del battaglione “XXVIII Ottobre”. Quel reparto aveva scelto il motto Iterum rudit leaena, “la leonessa ruggisce ancora”, che molto si addiceva perché accomunava Brescia e l’Africa (anzi l’Etiopia) in un “gemellaggio” fondato sull’ardimento e il coraggio delle Camicie Nere. Controllata più attentamente la mia posizione, si scoprì che mancava il nulla osta del Ministero dell’Educazione Nazionale, a suo tempo richiesto. Non potevo partire. L’Ispettore scolastico mi consigliò di riprendere subito il servizio scolastico in attesa di disposizioni. Il lunedì successivo rientrai così a scuola.

In quei giorni era stato pubblicato il bando di concorso per il reclutamento di personale insegnante da designarsi alle scuole elementari all’estero. Colsi al volo l’occasione e presentai la domanda. Il Direttore Favero ebbe la bontà di accompagnare il modulo di domanda con un rapporto ampiamente elogiativo, presentandomi come «insegnante colto, didatticamente abile; condotta morale ineccepibile; condotta politica ottima». Sono molto riconoscente verso questo direttore, per molti aspetti è stato per me una figura esemplare. Apprezzavo sì l’uomo di scuola, attento, competente, di grande esperienza, ma anche la persona di saldi principi, di grande carattere, di inflessibile volontà… e di gran cuore. In trasparenza vedevo lo Stato, per suo tramite mi sentivo legato allo Stato da un patto di fedeltà e di servizio che davvero nobilitava il mio lavoro, perché innanzitutto lo riconosceva, perché i miei sforzi venivano apprezzati. Con questo direttore non mi sentivo un grigio e anonimo dipendente statale.

Come spesso accade, mi accorgevo del valore di questo direttore nel momento in cui stavo per perderlo. Coi primi di luglio venivano istituiti i Provveditorati provinciali agli studi (a Brescia era stata già fissata la sede, Palazzo Maggi in via Musei, quasi di fronte alla Questura). Anche se non fossi andato all’estero, non poteva più essere il direttore che avevo conosciuto.

L’Impero, proclamato il 9 maggio 1936 dai “colli fatali di Roma” in nome di una superiore “missione civilizzatrice” eticamente fondataaveva dato una nuova apertura all’attività didattica di noi maestri. La scuola doveva assumere una coscienza coloniale e infonderla nei ragazzi. La nostra generazione aveva riconquistato un Impero, la sua conservazione e il suo potenziamento erano affidati alle generazioni future.

Il 19 giugno sostenni il colloquio e in attesa dell’esito fui assegnato alla colonia marina “28 ottobre” (ironia di un destino che si divertiva a beffarmi e stuzzicarmi con quel benedetto scarto di un giorno – ero nato il 29). Quasi a preannunciarmi la mia prossima destinazione, la colonia era quella dei Fasci Italiani all’Estero di Cattolica. Mi fu assegnato il turno dal 6 agosto al 6 settembre.

Il giorno 7 di agosto ebbe luogo a Esine una esercitazione tattica di un battaglione di fanteria con la partecipazione dell’aviazione: ci tenevo tanto ad esser presente.

L’ultima settimana di agosto fu particolarmente movimentata. In qualità di Vice Fiduciario Provinciale dell’Associazione fascista della Scuola Elementare avevo organizzato un viaggio magistrale nella Venezia-Giulia dal 1° al 6 settembre, cui erano iscritti ben 260 insegnanti.

A Esine, don Sina stava preparando un numero unico in occasione del XXV di sacerdozio di don Pedrotti e mi sollecitava un articolo su Giambattista Guadagnini, che riteneva indispensabile.

Nel frattempo da Roma mi giunse la comunicazione ufficiale che ero stato nominato insegnante nelle scuole italiane all’estero per il successivo triennio e che ero stato assegnato alla scuola “Principe di Napoli” di Tunisi, dove avrei dovuto presentarmi entro il 22 settembre.

 

 


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