Ameraldi - 6.1. Maestro a Tunisi Documento senza titolo

Oberto Ameraldi:
Una vita di fede per la scuola

Brescia : Fondazione Civiltà Bresciana, 2000. - (Cattolici & Società ; 11), p. 125-144.


6.1. Maestro a Tunisi (parte prima)

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Tunisi è situata in una posizione geografica molto favorevole che già aveva determinato la fortuna dell’antica Cartagine (la «nuova capitale» dei Fenici). Situata sullo Stretto di Sicilia a breve distanza dalle coste italiane, controlla i due bacini maggiori del Mediterraneo. Il suo porto, La Goletta , è collegato alla città da canale naturale lungo circa dieci chilometri.

Attraverso i secoli ha sempre goduto di una supremazia politica e amministrativa rispetto alle altre città del paese. Dopo la caduta dell’impero romano e la dominazione dei Vandali e dei Bizantini, la Tunisia divenne una provincia dell’impero Ottomano. Nel 1705 divenne monarchia di fatto indipendente (beylicato): la dinastia degli Hussainiti cessò con la proclamazione dell’indipendenza (1956).

L’agglomerato urbano riflette i fasti del suo passato. Il centro storico, la Médina, con le sue belle moschee (riconosciuto recentemente dall’UNESCO come patrimonio culturale dell’umanità), i suk, la parlata caratteristica, le botteghe artigiane, i bagni, i vicoletti tortuosi e affollati, nonostante la parziale distruzione delle mura, mostra il suo carattere di roccaforte contro le aggressioni dal mare. Altrettanto tipici sono i quartieri e gli edifici costruiti sotto il protettorato, fra cui la bella cattedrale.

Al momento del mio arrivo, da circa un cinquantennio era sotto il protettorato francese. Anticipando l’Italia nella corsa alla spartizione coloniale, nel 1881 la Francia aveva occupato militarmente Tunisi, col pretesto di por fine alle scorribande dei Crumiri (il cosiddetto “schiaffo di Tunisi” che provocò la caduta del gabinetto Cairoli). Nonostante la presenza italiana fosse maggiore e meglio consolidata rispetto a quella francese (nel 1881 gli Italiani erano circa 11.000 contro 600 Francesi), la Francia considerava la presenza italiana un’“ipoteca”, da giocare alternativamente come moneta di scambio o come ricatto nelle relazioni fra i due Paesi.

Il regime di protettorato prevedeva che il bey conservasse i diritti sovrani, ma il cosiddetto “residente generale” fungeva da primo ministro e da ministro degli Esteri del bey; alle sue dipendenze erano l’esercito e la marina, i cui comandanti – francesi – erano in pratica ministri della guerra e della marina. Il primo ministro indigeno aveva un ruolo secondario e aveva il compito di curare i rapporti fra bey e “residente” e fra bey e il popolo.

Fra gli Italiani si contavano anche esuli politici (carbonari, garibaldini, anarchici), ma per la maggior parte erano disoccupati, pescatori, braccianti, manovali. Nelle maggiori città (Tunisi, Susa, Sfax) esistevano quartieri quasi interamente italiani, generalmente poveri, denominati “Piccola Sicilia”, “Piccola Calabria”, Capaci Grande e Capaci Piccolo ecc. I rapporti fra famiglie proletarie tunisine e italiane erano molto buoni, ispirati a rispetto reciproco e solidarietà. Esisteva anche una folta comunità israelitica (in classe avevo appunto un alunno di religione ebraica), molti erano ebrei italiani provenienti soprattutto da Livorno (detti Gurni, al plurale Grana; commercianti di spezie al Souk-el-Grana, che prese appunto da loro il nome), altri erano Sefarditi, espulsi dalla Spagna dopo il 1492 o Touansa , ebrei scacciati dal Portogallo sotto Filippo II e divenuti sudditi del bey. Una mia collega, Nelly Soria, d’origine livornese, era appunto israelita di rito portoghese.

I nostri connazionali erano concorrenti indesiderabili (per i Francesi) in molti campi dell’economia: nella pesca, nella produzione dell’olio, della vite. Il fascismo naturalmente non aveva alcuna intenzione di accordare alcun vantaggio alla Francia. Perciò aveva favorito l’emigrazione italiana e aveva posto a capo delle Istituzioni italiane uomini di fiducia, dotandole anche di cospicui fondi. Il Consolato generale aveva assunto quasi il rango di ambasciata.

Dall’Italia poi giungevano quotidianamente le trasmissioni dell’ EIAR. Il giornale di lingua italiana, «L’Unione», venne trasformato in un quotidiano tecnicamente moderno. Non escludo che vi fossero anche agenti dell’ OVRA con funzioni di provocazione e di spionaggio (soprattutto nei confronti degli esuli antifascisti).

Inoltre il partito locale Neo-Destour, fondato nel 1934 da Habib Bourguiba che fresco di studi alla Sorbona (1924-27), aveva dovuto prender coscienza della profonda contraddizione fra principi liberali e pratica coloniale (la Francia, ad esempio, era giunta a nominare giudici francesi nei tribunali tunisini), si batteva in quegli anni con vigore e determinazione in favore dell’indipendenza. Grazie ad alcuni amici italiani, avevo conosciuto molti giovani esponenti di questo partito. Insofferenti del dominio francese, familiarizzavano volentieri con noi giovani italiani, sperando di trarre vantaggio dalla naturale rivalità tra Francia e Italia, le due sorelle latine che avevano interessi contrastanti in Tunisia.

Come non bastasse, nel 1935 gli accordi Mussolini-Laval concedendo “le mani libere” all’Italia per l’attacco all’Etiopia, prevedevano come contropartita, l’abbandono dei “diritti italiani sulla Tunisia”. Gli accordi avevano comunque avviato un periodo di cordiale amicizia fra Italia e Francia; con l’avvento del governo di Léon Blum (maggio 1936) i rapporti andavano migliorando anche nella “colonia”: furono liberati i prigionieri politici – fra cui Bourguiba, arrestato nel 1934 –, vennero attuate alcune riforme e fu autorizzata la ripresa dell’attività dei partiti politici. Tuttavia le stesse autorità coloniali francesi cercavano di boicottare il programma del “Fronte Popolare”.

Il numero degli Italiani e dei Francesi non era determinabile con precisione, perché ciascuna delle comunità tendeva a superare l’altra in base appunto alla supremazia numerica. Ma è possibile stimare che gli Italiani fossero circa 120 mila e circa altrettanti i Francesi (ma bisogna tener conto delle recenti naturalizzazioni).

Tunisi si preparava a diventare una polveriera. Si riteneva infatti che l’intensa opera di propaganda in Tunisia fosse servita per aumentarne il valore di scambio. Alcuni comunisti italiani fuoriusciti l’avevano scritto su uno dei loro giornali e avevano diffuso un volantino che interpretava il tal senso gli accordi italo-francesi.

Penso, dunque, che il giudizio del direttore Favero abbia giocato un ruolo decisivo nella mia assegnazione alla sede di Tunisi. Senza saperlo mi sarei trovavo nell’occhio del ciclone.

Arrivai a Tunisi il 16 settembre 1936. Durante la traversata del Canale di Sicilia, mi ritornò alla mente un passo di Ventimila leghe sotto i mari: un tempo Europa e Africa si toccavano proprio in questo braccio di mare. Una bella lezione di geografia.

Nella biblioteca curaziale di Esine sono conservati i tre grandi tomi della Africa Christiana del gesuita Stefano Antonio Morcelli, prevosto di Chiari, corpus epigrafico pazientemente raccolto negli anni in cui fu bibliotecario del cardinal Albani. Un “sonoro carme latino” illustra profeticamente il programma dell’opera:

E tenebris rursum romana quod Africa prodiit
Magnorumque rediit gloria prima Patruum.

E la stessa parola Africa mi tornava ricorrente nel pensiero, e non cessò finché riesumai dalle memorie scolastiche l’omonimo poemetto del Petrarca. Sedato l’assillo, mi beai alla vista della distesa marina che la chiglia del piroscafo come un solco si apriva.

In un certo senso, anch’io sentivo d’essere un capitano, nella sua divisa impeccabile, al timone di una nave che solcava fiera e sicura l’avvenire.

Il francese che avevo imparato mi ritornava utile, tuttavia mi accorsi ben presto quanto fosse incerto e insufficiente. Ma nel colmare le lacune mi venne in aiuto l’amico Lino Rizzini, originario di Breno, che lavorava a Tunisi come perito industriale per conto di una ditta francese.

Trovai un alloggio, sobrio e decoroso, in rue de Rome, al numero 3, a lato della cattedrale, presso la famiglia Soddu, una distinta famiglia sarda. La signora Soddu era figlia di un medico che era stato per molti anni il nume tutelare della colonia italiana a Tunisi. Lavorava come infermiera.

Consumavo i miei pasti presso un ristorante italiano «La Bella Napoli» retto da don Peppino, un napoletano simpatico ed onesto che curava personalmente la cucina, i piatti erano sapidi e genuini, i prezzi più che modici.

La scuola “Principe di Napoli”, in Rue des Glacières, era a soli trecento metri dalla mia abitazione. Seppi in seguito che si trattava della più antica scuola italiana, fondata nel 1892 con sostanziosi contributi della Società di Navigazione Rubattino. Insegnavo matematica e scienze nel 1° corso di Avviamento professionale istituito, in via sperimentale, nella nostra scuola; ai maschi insegnavo anche educazione fisica.

Le classi erano situate al terzo piano dell’edificio. Durante le ore di educazione fisica si doveva rimanere in classe perché era impossibile scendere in cortile, che tra l’altro era piccolissimo, senza disturbare le altre classi. Col tempo, facendo leva sul desiderio degli alunni e sul loro orgoglio personale (la nostra sarebbe stata l’unica classe a scendere in cortile), contrattai una soluzione che era al contempo un’efficace lezione di autodisciplina: si scendevano le scale a passo cadenzato, il più leggero possibile, nel più assoluto silenzio e una volta in cortile non si sentiva una mosca volare, gli esercizi venivano eseguiti con precisione e vigore; io stesso impartivo i comandi a voce bassa. Non mancavano momenti esilaranti, o per la goffaggine di alcuni “tardoni”, per delle cadute o per gli immancabili scherzi.

Dopo l’esperienza accumulata in sei anni di tirocinio coi Balilla mi fu facile raggiungere buoni risultati, non tanto dal punto di vista coreografico, quanto per l’entusiasmo suscitato negli alunni. I quali per questo motivo mi volevano un gran bene. Erano ragazzi schietti, semplici e leali, senza sotterfugi o inutili piaggerie: ci intendevamo alla perfezione. L’autorevolezza mi derivava dalla stima che avevano in me, la confidenza dalla certezza di poter essere aiutati. Anche per me non era facile essere sempre all’altezza dell’opinione che si eran fatti di me. Ciò mi mostrava il modo per migliorarmi, sia come persona che come maestro.

Criticavano soprattutto i miei scatti d’ira. Ed avevano pienamente ragione: per parte mia non sopportavo quegli alunni che seguivano distrattamente le lezioni rallentando il lavoro della classe intera. Cercavo in ogni modo di infondere nei miei alunni orgoglio e mordente, per questo andavo su tutte le furie quando li vedevo svogliati e passivi.

Gli alunni, tanto della sezione maschile che della sezione femminile erano oltre quaranta. Provenivano da scuole elementari sia italiane che francesi. Nel complesso le due classi riflettevano l’eterogenea popolazione di Tunisi, e quanto a estrazione sociale appartenevano al fior fiore del popolino, con tutti i pregi e i difetti. Avevo alunni sardi e siciliani appena giunti in Tunisia e altri, figli di coloni siciliani stabilitisi ormai da tre generazioni in terra africana. Soprattutto conoscendo maggiormente queste persone mi resi conto di quanto l’uso perdurante del dialetto fosse stato fondamentale per il mantenimento del loro senso di appartenenza all’Italia, come avesse impedito che perdessero identità e radici. Abbozzai queste considerazioni in un articolo che inviai alla rivista «Scuola Italiana Moderna» che me lo pubblicò.

A proposito di dialetto, i miei colleghi si stupivano sentendomi ripetere l’invocazione tipica dei Musulmani pronunciando senza difficoltà tutti i vari tipi di acca aspirata: Allahu Akbar Allahu Akbar. Ash’hadu an la ilaha illa ’llah. Ash’hadu anna Muhammadan Rasullullah (“Allah è grande. Non c’è altro Dio se non Allah. Maometto è il suo profeta”). Stessa meraviglia susciterò anche presso gli amici spagnoli con la pronuncia della jota.

Avevo anche un alunno di religione ebraica e uno di religione musulmana. Una vera babele, che molto spesso portava a contrasti più o meno seri o comici ma che aiutavano a capirci attraverso la conoscenza reciproca. Dagli alunni musulmani conobbi così alcune delle prescrizioni del Ramadan, che quell’anno cadeva fra il 15 novembre e il 14 dicembre. Ne scrissi un articolo che venne pubblicato su «Il Popolo di Brescia» il 19 gennaio 1937.

Ma ero davvero contento di tanta varietà: ero abituato alle scolaresche di Fiumicello, così omogenee quanto a provenienza sociale. Per quanto poi riguarda l’insegnamento ero contento e anche curioso di verificare nella pratica quanto avevo imparato dai libri e dalla esperienza precedente. Attraverso gli alunni provenienti dalle scuole francesi venivo a contatto con altri metodi didattici, improntati, più dei nostri, a serietà e concretezza. Non che i nostri non lo fossero, ma lo erano in modo talmente diverso che per me rappresentarono una vera novità.

Più tardi ebbi modo di approfondire teorie e principi, di sperimentare innovazioni. Penso che il primo stimolo a guardare a quel che succedeva in Francia nel campo della didattica risalga proprio a questo primo contatto tunisino.

Durante i giorni di vacanza uscivo spesso per lunghe passeggiate, a spasso da solo, a volte con alcuni dei miei alunni. Raccoglievo lumache che poi facevo preparare al cuoco della trattoria. Incuriosito dal mio insolito piatto, il commissario della polizia francese, Monsieur Ambrosinì, còrso, si avvicinò al mio tavolo. Manco a dirlo fummo subito amici.

Durante le lunghe conversazioni conviviali ci scambiavamo osservazioni, aneddoti sulla vita della città, sugli usi della popolazione araba, e sulla convivenza fra i nostri due gruppi nazionali. Mi consigliò di stare molto attento, durante le mie passeggiate, perché avrei potuto essere facile preda di malviventi. Anzi un giorno mi portò un regolare permesso di porto d’arma da taglio, spiegandomi che sarebbe stato sufficiente mostrare la lama scintillante di un pugnale per mettere in fuga gli eventuali assalitori.

Ai primi di ottobre mi ammalai di difterite. Proprio nella città famosa per l’Istituto Pasteur (nel 1928 un suo direttore – Charles-Jules-Henri Nicolle, noto per i suoi studi sulle malattie infettive, fra cui anche la difterite – aveva ricevuto il premio Nobel per le scoperte sul tifo) e dove già, nel 1270, il re francese Luigi IX , in partenza per una crociata, era morto di peste.

Nessuno dei nuovi colleghi passò a trovarmi. Per la prima volta soffrii la solitudine e gli stessi disagi dei nostri emigranti con relativa paöla . Non piansi, come dodici anni prima al collegio di Torino.

In pochi giorni guarii dalla malattia, ma non ripresi subito l’insegnamento perché dovetti passare un periodo di quarantena e di forzato riposo.

Dopo questa battuta d’arresto iniziale dovuta alla malattia, ripresi con energia rinnovata il lavoro. Se esternamente mostravo il solito piglio risoluto e gioviale, dentro di me nascevano altri pensieri, nuove sensazioni, che contrastavano con quel che davo a vedere. In quei primi tempi mi aiutò moltissimo la collega Nelly Soria, maestra e allenatrice delle Giovani italiane all’estero. Da lei ebbi molti consigli e suggerimenti che mi furono di grande aiuto per conoscere meglio l’ambiente scolastico e della colonia.

Giovane com’ero, non rimanevo insensibile al fascino delle veneri locali. Adocchiata una collega piuttosto belloccia di un’altra scuola, avevo cominciato a corteggiarla. Questa insegnante non disdegnava le mie attenzioni, anzi dimostrava di gradire il mio interesse. Ma la buona e perspicace Nelly mi mise in guardia dal continuare: «Ameraldi, se lei continua a fare il farfallone con la B., le assicuro che prima di Natale ha già terminato il suo servizio all’estero». E mi spiegò che la collega era l’amante di un commendatore e che aveva già causato il rimpatrio di più di un maestro.

Qualche tempo dopo fu la volta di una brunetta, dall’aria celestiale e sognante. E di nuovo Nelly mi aprì gli occhi sui suoi trascorsi, evitando che cadessi nel baratro.

Con l’aiuto di Nelly cominciavo ad amare la terra d’Africa: l’amavo perché era sconsolata, perché faceva soffrire; una sofferenza dolce e benigna come quella che prova l’innamorato, da assaporare stilla dopo stilla.

La tersa volta del cielo nelle notti stellate, la vastità accecante del deserto davano altri orizzonti alla mia mente; ricordavo i versi dell’Infinito «naufragar m’è dolce in questo mare». In questa solitudine, in questa “nudità spirituale”, al di là di ogni convenzione, una forza intima e feconda mi spronava ad agire, a dire, a vedere, a conoscere genti e luoghi.

Arrivò presto il Natale, così strano e nello stesso tempo anche così vero, come non l’avevo mai vissuto.

Mi venne alla mente una poesia del Pascoli, La notte di Natale, dedicata «Ai marinai e soldati in Tripolitania» scritta per il Natale del 1911:

Là non le squille suonano a gloria;
non le zampogne querule cantano…
Sì ma più sacra m’è quella tenebra,
tra palme e ulivi, sotto le nomadi
tende…

Avevo l’anima colma di speranza e trepidazione e l’occhio guardava lontano verso una umanità migliore.

Un inspiegabile assopimento dei sensi e dell’anima mi avrebbe colto senz’altro (in dialetto diremmo ’l màl de la nóna), come secoli prima proprio su queste spiagge aveva colto i compagni di Ulisse, se non avessi gettato un’ancora. Abbozzai un articoloappuntando i pensieri via via che si formavano nella mente. Nel ricordo rivedevo gli amici de “ La Scuola ”. A lungo rimasi a seguire i pensieri, cercando di ritrovare la consueta “poesia natalizia”, la “letizia” (parola così frequente negli auguri di Vittorino) degli affetti più cari.

 


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Ultimo aggiornamento 15 marzo 2010

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